In occasione dei cinquant’anni della Libreria delle donne di Milano, è a partire dalla sua avventura che indaghiamo la peculiarità di un’impresa che non segue le leggi capitalistiche e la mercificazione della cultura: un’impresa economica e un’impresa politica, in cui il lavoro materiale e il lavoro del pensiero sono strettamente intrecciati. Il suo intento infatti è di essere un luogo di raccolta di opere di donne, un luogo d’incontro aperto sulla strada e un luogo di produzione di idee ed esperienze da far circolare con pubblicazioni in proprio.

Nell’incontro ci interessa confrontarci per mettere in luce tutto ciò che eccede il normale funzionamento di un’impresa economica, con le contraddizioni che la attraversano, ma anche rimettere a fuoco una pratica politica che è stata inventata proprio nel fare: il rapporto di affidamento tra donne come rapporto sociale, generativo di libertà relazionale, necessaria per muoversi nel mondo senza sottostare ai meccanismi imposti dalla società.

Introducono Traudel Sattler, Renata Dionigi, Silvia Niccolai.

Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza.
Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.
È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.

Appuntamento: domenica 8 giugno 2025 ore 10.30 presso la Libreria delle donne via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265.

Il desiderio di maternità non è mai stato un assunto nella mia vita; è nato in una relazione amorosa inaspettata, piena di grazia. Prima di diventare madre, ho vissuto due interruzioni spontanee di gravidanza. Dopo la seconda, sono caduta in uno stato di intensa sofferenza. Il fatto che quegli aborti non fossero legati ad alcuna patologia, né mia né del mio compagno, invece di rassicurarmi, aggiunse a quel dolore l’inquietudine ulteriore della mancanza di una causa. Fu una ginecologa che mi suggerì allora una pista di riflessione che andasse a indagare, nelle costellazioni familiari, le paure che accompagnavano il mio desiderio di maternità.

La mia vita è stata segnata dalla nascita di Dodò, sorella disabile affetta da una tetraparesi spastica causata da un distacco di placenta. Mia nonna, madre di mia madre aveva dato alla luce una figlia, Donata, mia zia, affetta da una rara malattia neurologica che ha invalidato la sua vita sin dall’infanzia per poi costringerla all’immobilità in età adulta. La genealogia materna pesava come un macigno dentro di me: conoscevo le gioie e le difficoltà di curare una persona non autosufficiente e gli sforzi necessari a costruire un equilibrio familiare dove il centro è sempre un altro/a. Pur riconoscendo l’incommensurabile ricchezza che la presenza di mia sorella ha donato alla mia umanità, avevo paura di ripetere la storia, di essere succube di un destino inesorabile a cui non potevo sottrarmi. Quando questa paura affiorò alla mia coscienza, decisi di parlarne con mia madre. Poiché non vivevo più con lei, la chiamai al telefono e le parlai a lungo. Lei mi ascoltò in silenzio, riconobbe la mia paura, la mia sofferenza e alla fine prese parola. Mia madre, che da sempre possiede il talento delle parole buone, mi disse all’incirca così: Conosco la tua paura, ma la mia storia non è la tua storia e tu sarai una madre diversa dalla madre che sono io. Sebbene tu sia mia figlia, non è detto che tu debba ripetere la storia. Io sono io e tu sei tu. Il ricordo di quel colloquio mi emoziona sempre. La risposta di mia madre sortì l’effetto di una formula magica liberatoria, tanto che dopo circa un mese scoprii di essere incinta della prima delle mie due figlie, Sofia. Mia madre mi aveva liberata dall’ingiunzione di un ineluttabile destino e mi aveva consegnata alla libertà che io stessa andavo cercando; la sua storia sarebbe rimasta con me, non come pesante fatalità, ma come trama da cui attingere forza e consapevolezza, alleata nella ricerca autentica di una mia direzione.  

Questo vissuto è stato generativo di molteplici pensieri riguardanti il rapporto tra la genealogia femminile e la libertà soggettiva. Tra questi vi è la convinzione che la genealogia materna e femminile è la condizione da cui si genera la libertà e il senso della propria differenza femminile. Non ve n’è un’altra. Il concetto di una relazione genealogica tra donne è stato foriero di una profonda rivoluzione politica. In questo breve testo, parto dall’intenderlo in un modo duplice, seguendo le declinazioni che ne diede Irigaray: «C’è una genealogia basata sulla procreazione, che ci lega alla madre, a sua madre e così via, la maternità operando come la struttura di un continuum femminile che ci congiunge ai primordi della vita»; essa riabilita la verticalità della relazione madre-figlia. Vi è, inoltre, una genealogia che opera mediante la parola connettendoci alle figure femminili del presente e del passato a cui riconosciamo autorità e da cui attingiamo forza simbolica: «Non dimentichiamo nemmeno che abbiamo già una storia, che certe donne, anche se era culturalmente difficile, hanno segnato la storia, e che troppo spesso noi non ne abbiamo conoscenza», dice Irigaray facendo riferimento all’opera di altre donne. Le due dimensioni genealogiche si intrecciano in modo inaspettato, e operano insieme, non senza difficoltà e conflitti. Le donne hanno cercato nella grandezza femminile esempi a cui agganciare la ricerca della propria indipendenza simbolica e dunque della libertà. Un modo per «essere all’altezza di un universo senza risposte» (come dice Carla Lonzi) e sopravvivere al vuoto necessario a cui bisogna far fronte per nascere come soggetti liberi. In tal senso, la genealogia è l’insieme delle relazioni, tra donne in carne ed ossa e figure femminili di grandezza a cui riconosciamo autorità, necessarie a significare la differenza femminile nel mondo e a sostenere la ricerca soggettiva di sé. È dalla trama genealogica che si genera una libertà soggettiva paradossale, che sovvertendo l’idea di una libertà ab-soluta, svincolata cioè da qualsiasi legame, ne afferma una di segno opposto. Si tratta di una libertà che tiene conto dell’intreccio genealogico senza coincidervi, interrompendo un continuum che permane come sfondo necessario, significativo e mutevole della ricerca soggettiva: questa non coincidenza, il passo obliquo della differenza, diviene una nuova soggettività a cui si agganciano nuove relazioni. Il nostro differire dalla genealogia femminile, rimanendo ad essa radicate, è il processo che consente alla storia di non ripetersi e alla soggettività femminile di trasformarsi nella relazione politica con altre e altri. In questo intreccio la soggettività si genera e ri-genera continuamente. La genealogia femminile si configura, allora, come una eredità priva di determinismo, una costellazione di relazioni femminili che soppiantano un ineluttabile dover essere. Un sostegno autentico alla libertà femminile e all’inesauribile ricerca soggettiva. Essa (come affermava Antonietta Lelario nel suo intervento durante la redazione aperta di Via Dogana) è infinità poiché infinite sono le mediazioni che ogni volta bisogna trovare per sottrarsi alla ripetizione svalutante del reale, a una storia già data che soffoca la libertà (non solo femminile) invece di alimentarla. In questo, la genealogia femminile è ciò che ci conferisce la forza di non soccombere a un destino che non ci appartiene, a una ripetizione che non prevede differenze. Il compito di trovare la propria strada, di nutrire la propria differenza è sempre una scommessa soggettiva e politica insieme. La tua storia non è la mia storia, ha significato per me essere autorizzata a vivere la mia storia, a cercare la libertà, assumendomi la titolarità della differenza che incarnavo. Una differenza che riconosce l’autorità di colei e coloro che ce la riconoscono. Una differenza che a sua volta può autorizzare e sostenere la libertà di altre donne, in modo speciale quella delle figlie.

da il venerdì di Repubblica

«C’erano solo una vetrina con un sottoscala e un piccolo soppalchino. La scaletta era tremenda, neanche una via di fuga. Ma per fare un movimento delle donne qualche rischio bisognava correrlo». Giordana Masotto è stata la prima libraia della Libreria delle Donne di Milano, che quest’anno festeggia i suoi primi cinquanta anni di vita con un denso calendario di iniziative che dureranno per tutto il 2025. Assieme a figure di primo piano del femminismo italiano come Lia Cigarini, Luisa Muraro, Elena Medi e Bibi Tomasi, nel 1975 apre in via Dogana, a pochi passi dal Duomo, una libreria che da allora si occupa di promuovere e divulgare il pensiero femminile. Per cominciare servono sei milioni di lire, se ne trovano tre grazie alla vendita di opere d’arte selezionate da Lea Vergine e offerte da artiste come Carla Accardi, Valentina Berardinone, Dada Maino e Nanda Vigo. Il comune concede l’affitto di un locale a prezzo calmierato e si può partire. Un rapporto, quello con Palazzo Marino, proseguito con cordialità anche negli anni del centrodestra, durante i quali la libreria si è spostata nell’attuale e più spaziosa sede di via Calvi. «Una volta il sindaco Albertini aveva detto che avrebbe dato alle donne qualsiasi cosa chiedessero. Allora io e Luisa Muraro pazientemente gli abbiamo scritto una lettera» ricorda oggi Lia Cigarini, avvocata e prima donna a firmare uno scritto femminista sul manifesto.

L’esempio francese

Un passo indietro. Siamo nel 1969. La Libreria delle donne sarebbe nata solo qualche anno più tardi, ispirata da un invito ricevuto da alcune delle fondatrici a un raduno di donne organizzato dal gruppo francese Psychanalyse et Politique. A Parigi, in rue des Saints-Pères, c’era una libreria dedicate alle donne. «Lo facciamo anche noi» dissero tornando a Milano. «L’apparire sulla scena pubblica e politica del soggetto donna è l’imprevisto della storia» dice Giordana Masotto. «Insieme abbiamo lasciato impronte che una donna da sola non avrebbe potuto lasciare. Oggi sono grata a tutte quelle con cui abbiamo fatto queste cose e a quelle che in seguito sono entrate in questa storia. Come le più giovani». Di queste ultime fa parte Daniela Santoro, informatica, classe 1999. «Qui ho imparato che posso dare tanto, costruendo relazioni con donne di diverse generazioni» dice. «Confrontarmi con loro ha cambiato la mia traiettoria. Avendo vissuto molto in un mondo più virtuale, ho riscoperto il potere del reale e delle relazioni, di come questo scambio può essere vicendevolmente positivo». All’inizio l’entrata di un uomo in libreria era un evento raro, un’eccezione. «Non è che ci fosse la proibizione, semmai un po’ di timore, che c’è anche adesso» ricordano le fondatrici. «Da parte nostra c’è una volontà assoluta di mediazione, di dialogo con il mondo maschile, anzi: incoraggiamo gli uomini a venire qui e a confrontarsi con noi» sottolinea Giorgia Basch, classe 1992, editrice, curatrice e art director. «Da parte degli uomini c’è un po’ di timore derivante dal fatto che siamo un gruppo di donne pensanti con un passato solido alle spalle. Se si riesce ad andare oltre questa barriera, si possono fare passi avanti. È un punto importante del femminismo che è stato pensato, scritto e deciso qui».

Quando a scrivere è “lui”

E “amici delle donne” sono anche gli autori presenti in uno scaffale così chiamato della Libreria, non molto ampio in verità. «Sono i libri in cui si sente la spinta verso quello che noi chiamiamo “cambio di civiltà”: la volontà di creare un mondo a misura della libertà delle donne, ripensando la politica, la società, l’economia, la letteratura» spiega Masotto. «Un libro per noi importante scritto da un uomo? Il silenzio del noi di Niccolò Nisivoccia» dice Lia Cigarini. Si tratta di un libro pubblicato due anni fa da Mimesis, riflessioni sul linguaggio, le relazioni e la politica vicine al femminismo. Molti i “classici” della Librieria delle Donne: fra questi, la produzione di Luisa Muraro, che da assistente di filosofia fu una dei pochissimi docenti a occupare l’Università Cattolica durante la contestazione, La politica del desiderio della stessa Lia Cigarini e Taci, anzi parla. Diario di una femminista, cronaca intima e politica del pensiero di Carla Lonzi. La Libreria delle Donne è anche una casa editrice che da sempre pubblica periodici come Via Dogana 3, tuttora presente online. «Il pensiero va messo in parola per iscritto» dice Laura Giordano, una delle redattrici. «Il pensiero politico e la pratica che costruiamo qui
devono diventare un messaggio che viene diffuso». La Libreria è anche un circolo di idee che si apre nel mondo. «Quando usciamo da qui, portiamo fuori la nostra soggettività, la nostra esperienza, le nostre relazioni» dice ancora Santoro.

Nel nome di Sibilla

Dal punto di vista economico e formale è un circolo cooperativo, intitolato a Sibilla Aleramo. Due libraie si alternano ogni mezza giornata, su base volontaria. Poi c’è chi si occupa dell’amministrazione, a seconda delle competenze di ciascuna. Si fa politica, ma non quella dei partiti. «In questi cinquant’anni le donne hanno preso la parola» spiega Masotto, «e questo è stato un grande evento politico. La donna ha detto: voglio partire da me, mettermi con altre donne e vivere la realtà in tutti i suoi aspetti. Questa è già politica». «È un momento buono per le donne» conclude Cigarini. È vero che ci abbiamo messo tanto: mezzo secolo è lungo. Però adesso le donne fanno quello che vogliono, e questo è importante».

Al centro del Catalogo giallo c’è un’intuizione forte e radicale: l’invenzione della lettura come pratica politica. Mentre lo rileggevo in vista della redazione aperta di Via Dogana 3, ciò che mi ha colpito maggiormente è stata proprio questa intuizione, la lettura non più intesa come interpretazione o critica letteraria tradizionale, ma come creazione politica, gesto collettivo e trasformativo. Non si tratta di analizzare testi con teorie esterne ad essi o celebrare semplicemente la presenza delle donne nella storia; al contrario, leggere diventa un’azione che produce altri significati, è un atto di risignificazione del mondo e dell’esperienza delle donne.

La pratica politica della lettura è una rottura perché non si limita a considerare il libro come un oggetto neutrale da comprendere, ma come materiale da manipolare da parte della lettrice in relazione ad altre donne, per trovare tracce di un simbolico femminile che altrimenti resterebbe invisibile. Questo modo di leggere interroga direttamente la letteratura per far emergere ciò che parla davvero alle donne, anche là dove l’autrice afferma che “la scrittura non ha sesso”. Sessualizzare la scrittura, rileggendola con uno sguardo situato, rimane anche oggi un gesto politico potente e necessario.

Nel Catalogo si legge chiaramente che le scrittrici vengono “deformate”, “ridotte a una frase, a un’immagine, a un’invenzione linguistica”. È una dichiarazione forte, che rivela un’intenzione politica precisa, una strategia consapevole: invece di inseguire una rappresentazione oggettiva o fedele della letteratura femminile, le lettrici si appropriano dei testi – anche contro la loro stessa volontà – per costruire un discorso che parli del loro vissuto, delle loro domande, dei loro desideri. È un uso del testo che non obbedisce all’autorevolezza dell’autrice, né alla fedeltà filologica, ma all’urgenza di trovare parole vive, capaci di trasformare.
Il Catalogo giallo testimonia quindi una pratica che si distanzia da quella parte del femminismo che ha lavorato per dimostrare la presenza delle donne nella storia con l’obiettivo di ottenere pari dignità e riconoscimento. Chi ha scritto il Catalogo non voleva dimostrare che le donne ci sono sempre state, né chiedere di essere incluse in una storia già data; l’obiettivo era la trasformazione dell’esistente, non il riconoscimento nelle strutture socio-simboliche patriarcali.  
La loro è una lettura parziale, situata, partigiana, cercano qualcosa che parli a partire da sé, dalla relazione con altre donne, dal vuoto come possibilità, non assenza. Come scrive Silvia Niccolai nella sua introduzione: «Il “vuoto” è la consapevolezza che l’esperienza, l’esistenza femminile non è, se la cerchi nel simbolico “dominante”, ma quando raggiungi questo vuoto non cadi nel nulla, perché il vuoto è anche un silenzio, il finalmente tacere delle definizioni, dei costrutti, delle missioni o dei valori affidati alle donne e in questo vuoto-silenzio finalmente puoi sentire qualcosa».
La lettura, così intesa, diventa un’invenzione collettiva e un’appropriazione sovversiva: il testo è usato, anche a costo di distorcerlo, per costruire una soggettività politica femminile che non si lascia imprigionare dalle regole del discorso dominante. Non è un’operazione neutra né rispettosa, essendo profondamente aderente alla necessità di vivere, dirsi e pensarsi al di là delle categorie offerte dalla cultura patriarcale.

Leggendo il Catalogo, emerge chiaramente che l’inclusione era proprio ciò da cui si voleva fuggire. Non si trattava di conquistare uno spazio in un mondo già scritto da altri, ma di inventare un mondo che rispondesse alla propria esperienza di donna. In quegli anni, il patriarcato aveva un volto preciso, identificabile, indiscusso: grazie all’emancipazione c’erano donne già incluse nelle strutture socio-simboliche dominanti, e contemporaneamente c’erano donne che, secondo tradizione, accettavano una posizione di subordinazione rispetto all’uomo. Era chiaro che le femministe della differenza non volevano collocarsi lì. Non chiedevano di essere incluse in un ordine che le escludeva per definizione. L’obiettivo era un altro: non ottenere un posto, bensì creare uno spazio altro capace di contenere, nominare e dare forma alla propria esperienza. Questa tensione verso “un altrove e un altrimenti” rendeva la lettura una pratica politica generativa, non semplicemente una rivendicazione.

Oggi ritorna la domanda sull’inclusione, e lo vediamo bene anche in occasione dei cinquant’anni della Libreria delle donne: più di un giornalista, in questi mesi, ha posto domande proprio su questa parola. Se ci mettiamo nella prospettiva di chi ha scritto il Catalogo giallo, la risposta è ovvia: nessuna inclusione in un mondo fatto dagli uomini e pensato dagli uomini. E però. Oggi tutto appare più complicato, paradossalmente più difficile rispetto a quel tempo in cui il “nemico” aveva contorni netti e riconoscibili. Oggi ci muoviamo dentro un paesaggio radicalmente modificato dalla rivoluzione femminista, e la parola “inclusione” è diventata insidiosa. È entrata a pieno titolo nell’agenda politica, producendo polarizzazioni estreme: da un lato figure come Trump cancellano con un tratto di penna intere soggettività dal corpo sociale – e infine le donne stesse, perché dietro queste operazioni di cancellazione c’è sempre il desiderio di mantenere intatti i privilegi dell’uomo bianco; dall’altro, i movimenti si frammentano in una miriade di rivendicazioni identitarie, in una sorta di ipertrofia dell’identità. La critica rivolta oggi al femminismo della differenza è quella di essere essenzialista e binario, quando in realtà è stato soprattutto un’affermazione radicale di desiderio e di politica.
Il paradosso è che ora ci troviamo in una posizione difensiva, logorante, costrette a difendere la possibilità di chiamarci donne, prendendo contemporaneamente le distanze da chi strumentalizza e polarizza il pensiero della differenza, in un contesto di pressioni continue, di domande identitarie che chiedono risposte definitive. Silvia Niccolai ha chiarito efficacemente questo punto, osservando che oggi ci troviamo di fronte a un “troppo pieno di identità” che ci tira per i capelli, che ci chiede continuamente di prendere posizione. La mia domanda è se oggi possiamo permetterci di non rispondere a queste richieste. Silvia Niccolai, nel dibattito, ha suggerito una possibile via di uscita: cambiare le parole, compiere una mossa per sottrarsi a questo cul-de-sac identitario.
Forse la sfida, oggi, è proprio questa: restituire forza politica al femminismo non come affermazione di identità essenziale, ma come istanza di libertà radicale, capace di creare uno spazio altro, in grado di accogliere l’esperienza e la soggettività di donne e uomini.

Da Elle – Tre generazioni di donne animano un centro di cultura politica femminista attivo dal 1975

La Libreria delle donne di Milano compie 50 anni. E oggi, come nel 1975, continua ad essere un vivace centro di incontro e di cultura politica delle donne e per le donne che tiene insieme tre generazioni. Alle fondatrici si sono affiancate negli anni quelle che potrebbero essere le loro figlie e nipoti, accomunate dalla ricerca di uno spazio fisico in cui confrontarsi sul pensiero femminista della differenza, sulla libertà, il desiderio, le relazioni, il lavoro. Il cinquantesimo anniversario viene celebrato con un calendario di incontri e iniziative organizzate in libreria e in altri luoghi della città (www.libreriadelledonne.it). Con la prima libraia, Giordana Masotti, 78 anni, ripercorriamo questi primi 50 anni.

Giordana, ci racconti come è nata la Libreria delle donne?

È nata in un periodo in cui il femminismo era vivacissimo, c’era molto fermento. Si praticavano i gruppi di autocoscienza, ma per lo più nelle case private. C’erano relazioni con gruppi di donne straniere e, in occasione di un viaggio a Parigi, su invito del collettivo Psychanalyse et Politique, alcune di noi vennero in contatto con una libreria delle donne che aveva aperto in quel periodo e così nacque l’idea di fare lo stesso a Milano. Attorno a questo progetto si è creato un gruppetto di circa 15 donne che dopo diversi mesi ha costituito una cooperativa che è riuscita nel suo intento prendendo in affitto dal comune di Milano, con un bando per le attività sociali, un fondo che si trovava in via Dogana 2, accanto a piazza Duomo.

la libreria della donne di milano compie 50 anni

Come avete trovato i soldi per avviare l’attività?

Abbiamo fatto collette, organizzato raccolte fondi, e poi un gruppo di artiste, coordinato di Lea Vergine, ha messo a disposizione alcune opere la cui vendita è servita per autofinanziamento. Nel tempo il rapporto con il mondo dell’arte delle donne è stato sempre intenso.Pubblicità – Continua a leggere di seguito

Cosa ti ha spinto a fare questa esperienza?

Io all’epoca avevo già un lavoro come impiegata in una biblioteca privata, ma mi sono licenziata per lavorare in libreria a tempo pieno. Poteva essere un rischio, ma per me la libreria significava mettere insieme la passione, il lavoro, la politica, tanti pezzi di vita. Mi sembrava interessante. Lo trovo anche molto attuale: oggi le persone cercano sempre più nel lavoro motivi di realizzazione personale ed espressione creativa di sé. È la vita che deve invadere il lavoro, non viceversa. Quello che noi abbiamo elaborato sul lavoro assomiglia molto al fenomeno attuale delle “grandi dimissioni”, nel non voler sottostare ai ricatti.

Ci racconti come veniva gestita la libreria?

È sempre stato un lavoro comune. Insieme si sceglievano i titoli da vendere, gli eventi da organizzare, le presentazioni, i film da proiettare. Io ero l’unica a lavorarci a tempo pieno, ma attorno a me c’era, e c’è tutt’oggi, un giro di donne che a turni tengono aperta la libreria. Da subito si sono formati dei gruppi che hanno dato corpo a interessi specifici, per esempio, la scuola, il lavoro, il cinema, e altri.

Come venne accolta l’apertura di questa libreria un po’ atipica?

Molto bene, c’erano attenzione e interesse. Era un crogiolo creativo che si poneva in maniera diversa: noi non parlavamo di parità, ma di libertà, di stare in relazione, di partire dal desiderio e di cercare genealogie femminili, cioè andare a scoprire che cosa avevano detto le donne venute prima di noi.

La Libreria delle donne è anche una casa editrice. Cosa avete pubblicato?

Abbiamo scritto e stampato varie riviste, i Quaderni di via Dogana, che erano libri, fascicoli, un foglio che chiamavamo Sottosopra che non aveva una periodicità fissa, lo facevamo uscire quando avevamo qualcosa da dire. Abbiamo fatto anche il giornale satirico Aspirina. Volevamo esporci, volevamo un luogo aperto.

La tua generazione come ha passato il testimone alle donne che sono venute dopo?

Direi che il testimone se lo sono preso, se lo prendono, e questa è una cosa meravigliosa. Ci teniamo a dire che nella libreria ci sono tre età, perché questa è una storia che va avanti. Per me, quando ripenso al passato, provo un senso di gratitudine enorme perché so che abbiamo fatto cose che hanno lasciato un’impronta e che sono state possibili proprio perché non eravamo sole, ci siamo messe insieme per farle. Non è sempre facile fare le cose insieme, ci sono anche i conflitti, noi ci siamo riuscite.

Dunque, uno spazio transgenerazionale…

Ho visto nelle giovanissime il desiderio di appropriarsi delle origini di questa nostra vicenda, per vedere che cosa a loro torna, che cosa loro ci vogliono mettere, che risposte possono trovare. Loro dicono di aver bisogno di riconquistare spazi fisici di condivisione e ascolto. Andare via dai luoghi dove ci sono solo sterili dibattiti, come i social media. Vogliono ritrovare una pratica, la bellezza del venire lì e fare le cose insieme, ragionare, discutere insieme.Pubblicità – Continua a leggere di seguito

Gli uomini frequentano la libreria delle donne?

Sì, certo. Ci sono uomini che partecipano agli incontri. Abbiamo anche una sezione di libri di “amici delle donne”. Troviamo sempre più uomini, giovani e meno giovani, che si ribellano alla maschilità di tipo dominante. Noi abbiamo sempre detto che la capacità di gestire le differenze e il conflitto è l’unico modo per abbandonare la strada delle guerre. Abbiamo pubblicato un numero della rivista Via Dogana che si intitolava Disimparare la guerra, imparare a confliggere. Mettere in discussione la maschilità bellica è fondamentale.

In questi 50 anni, quali sono state le attività più significative proposte dalla Libreria delle donne?

Ne abbiamo fatte davvero tante… Di sicuro la Scuola di scrittura pensante di Luisa Muraro e altre è stata un fil rouge importante che metteva insieme il generare pensiero e generare parola, cioè la possibilità di affinare la scrittura connettendola alla capacità di elaborare pensiero, alla capacità cioè di pensare insieme. Altro che empowerment! Molto più di un corso di scrittura creativa! Ma ci tengo a ricordare anche l’Agorà lavoro: facevamo incontri ogni due mesi in una sala che ci metteva a disposizione il Comune, dove uomini e donne insieme discutevano su vari temi connessi al lavoro. E il rapporto con l’arte, come accennavo prima, è stato sempre coltivato. Nella libreria di via Calvi, dove siamo nel 2001, c’è sempre stata una vetrina dedicata all’arte.

Ho pensato di scrivere del pensiero della differenza sessuale perché in questo momento se ne parla in modo semplicistico e confuso.
Faccio riferimento al saggio iniziale del primo libro di Diotima, intitolato appunto Il pensiero della differenza sessuale.

Di differenza sessuale ne parlano abitualmente le persone, i giornali, le scienze umane come la sociologia, la psicologia, la filosofia e ora la medicina di genere. Il limite è che viene nominata come un fatto tra gli altri fatti: la differenza oggettiva tra le donne e gli uomini. In particolare nella filosofia tradizionale è stata data ad essa una interpretazione naturalistica, che nasconde una regolazione gerarchica dei sessi. In sociologia e in psicologia viene considerata come un oggetto di studio, che non tiene conto che quando se ne parla lo si fa da una posizione inevitabilmente soggettiva, quella che occupiamo.
L’intenzione del libro è stata quella di fare pensiero della contingenza di essere donna o uomo, cioè dare ad essa un significato che ci corrisponda, trasformando il linguaggio a partire da dove siamo.

Ed ecco il primo passo: si tratta di muoversi all’interno di un circolo, in cui è vitale l’immediatezza del sentirsi tra sé e sé, che ci àncora a noi stesse, ma per lo più rimane silenzioso e muto, ed è necessario il lavorìo all’interno del linguaggio, trasformandolo, per dare parola a questo sentire e sentirsi.
È ovvio che esistono già fuori di noi molte mediazioni linguistiche. Il simbolico dominante è ricco di diverse definizioni, descrizioni, che ci interpretano e tra queste possiamo trovare qualcosa che si avvicini a quel che sentiamo. Sono espressioni che certo dicono qualcosa che in parte corrisponde, ma sono una falsa esteriorità, tanto è vero che qualcosa in noi resiste, restando muto e silenzioso. C’è un’eccedenza del nostro essere che non trova dicibilità in tali espressioni. Eppure abbiamo bisogno di mediazioni linguistiche per esistere, per esserci in rapporto agli altri e a noi stesse.
Dunque la prima scommessa del pensiero della differenza sessuale è stata quella di trovare le parole fedeli al sentire, rifiutando le mediazioni alienanti. Una fedeltà a sé, che richiede un lavoro di parole creativo. Un percorso che non può concludersi, perché una espressione, che sentiamo fedele, è semplicemente un punto di avvistamento da rimettere ogni volta in gioco dato che il nostro divenire si dipana lungo tutta la vita.

Consideriamo ora il secondo passo. È stata posta al centro la differenza: significa mostrare che l’alterità è costitutiva dell’essere umano. Questo porta alla critica del concetto di identità di essere donna o uomo. Infatti dare espressione al differire è un percorso mai concluso perché il divenire del rapporto tra i sessi è qualcosa a cui partecipiamo storicamente e continuiamo a dargli un significato, che non si conclude in una identità. Per questo essere donna è un significante aperto, polemico, da guadagnare ogni volta, mai definitivo, a cui ognuna può contribuire.
Mi avvicino così ad un punto importante, sul quale però ho visto sorgere delle difficoltà. Lo dico così: è impossibile per l’essere umano conoscersi dall’esterno oggettivamente scindendosi in due, donna e uomo. In altre parole non possiamo guardarci da fuori, come se non fossimo dalla nascita posti sotto il registro di donna o uomo e come se questo non ci coinvolgesse. Tale coinvolgimento soggettivo è vero anche quando rifiutiamo questa collocazione, perché comunque, anche per rigettarla, occorre partire da dove siamo dalla nascita. È proprio questo essere in una posizione precisa che ci permette di andare altrove.

Dunque è impossibile guardare la nostra collocazione dall’esterno in modo neutro, come se fossimo al di sopra delle parti. Siamo infatti sempre incarnati. Anche chi arriva ad una posizione queer o ad una transessuale lo fa a partire da una incarnazione precisa, in questo caso rifiutandola. Aggiungerei che il binarismo, con cui si intende che la società è spartita oggettivamente in donne e uomini, è un fatto simbolico-culturale, che cancella il nostro stare soggettivo sfasato – ma anche creativo – rispetto ad ogni definizione e non sempre felice in tale spartizione. Piuttosto subiamo il binarismo come qualcosa che ci viene dall’esterno e rende oggettivo il pensiero della differenza, che è invece squilibrato dalla visione soggettiva. È una di quelle mediazioni che ci alienano, ma con cui dobbiamo fare i conti.

È per questo che nel libro di Diotima si parla del patire la differenza sessuale. Subire è diverso da patire. “Patire”: una parola ben scelta per dire che ne portiamo il peso in quanto “accettiamo che all’anima accada qualcosa che ha a che fare con il corpo”. Tuttavia – e questo è importante – dare significato a questo accadere non va da sé – non c’è un determinismo del corpo –, ma è affidato alle nostre parole e al nostro desiderio di trovarle.
E proprio perché siamo incarnate, quel che significhiamo della nostra esperienza non può essere simmetrico a ciò che dicono gli uomini della loro. Viene esclusa qualsiasi forma di rapporto dialettico.

Fin qui ho ripreso alcuni temi centrali de Il pensiero della differenza sessuale. Vorrei ora fare alcune osservazioni.

C’è una sintonia con le giovani generazioni di femministe per quanto riguarda il trovare le parole fedeli all’esperienza soggettiva, che altrimenti rimane muta, alienata dalle false mediazioni del simbolico dominante. Vi sono arrivate per lo più per altre strade, ma l’intenzione è la medesima. È ciò che ci accomuna.

Una distanziazione si nota perché generalmente non considerano il linguaggio come un operare infinito che durerà tutta la vita dato che è la differenza in movimento – il differire inquieto tra sé e sé, come tra sé e l’altro – ad essere la spinta per questa politica linguistica. Cosa che esclude ovviamente qualsiasi identità.
Anche che all’anima accada qualcosa che ha a che fare con il corpo e che sia il linguaggio a significarlo viene frainteso. Infatti il dibattito contemporaneo privilegia o il determinismo naturalistico del corpo biologico o la performatività assoluta del linguaggio. In questo modo si separano i due aspetti, ritornando a forme di biologismo o di costruzione solo linguistica della realtà.

Alcune amiche, con cui ho un legame politico e a cui ho detto avrei scritto questo testo, mi hanno chiesto di sottolineare che il pensiero della differenza è sostenuto da pratiche precise. Che le pratiche sono un elemento che lo caratterizza. È vero. È così. Non ci sarebbe questo pensiero se, ragionando assieme, non fossimo state sostenute dalla pratica del partire da sé e della relazione, che vengono dal movimento politico delle donne. Ma sono state inventate anche altre pratiche. Per fare un esempio, dare autorità alla donna che sta parlando, riprendendone il discorso e portandone a chiarezza il suo nucleo, anche se non sei d’accordo con la sua posizione e lo dici, fa sì che indirettamente il tuo discorso prenda a sua volta autorità, andando al proprio nucleo essenziale.

Le pratiche sono fondamentali: creano quel contesto di libertà radicata in azioni precise in cui può nascere un pensiero imprevisto e desiderante. E così potrei parlare della pratica di leggere il reale a cui si partecipa soggettivamente: la pratica del simbolico. La relazione con un’altra donna come mediazione principale rispetto alle mediazioni sociali prevalenti. E così via. La maggior parte delle pratiche che ci hanno guidato sono descritte nel libro di Diotima.
In realtà le pratiche tra donne formano un tessuto, una forma di vita. Senza questo tessuto il pensiero della differenza sessuale sarebbe soltanto un oggetto teorico tra tanti che si possono leggere, ascoltare, studiare. Niente di più.

Per ultimo affronto un tema ricorrente, spinoso, mai risolto. Che rapporto esiste tra questa politica tra donne, a cui negli ultimi decenni si sono avvicinati anche degli uomini, e la politica della rappresentanza, delle istituzioni, della formalizzazione gerarchica dei rapporti di potere? Già il termine rappresentanza rimanda a rappresentare nei partiti, nelle istituzioni, nel governo. Qualcuno o qualcuna rappresenta, cioè si pone al posto di qualcun altro. In un rapporto uno-molti, che vengono contati (i votanti). È una logica del tutto diversa da quella di un movimento che comunica, si trasforma per contatto, contiguità, orizzontalmente. Senza mai contarsi.

Così trovo paradossale che si confonda una logica con l’altra. Nel caso specifico il pensiero politico sperimentale della differenza, che coinvolge un’intera vita, e la rappresentanza politica. Certo le idee circolano liberamente e alcune donne altrettanto liberamente si spostano da una situazione all’altra. Va bene che sia così. L’importante è non mescolare i piani.

I 50 anni della Libreria delle donne di Milano stanno diventando un’occasione da non perdere per riprendere in mano la sua/nostra storia. I quattro numeri di quest’anno della rivista on-line Via Dogana 3 si propongono di accompagnarla, per ritesserla insieme a tutte quelle e quelli che c’erano. Oppure che non c’erano, ma che hanno interesse a riconsiderare oggi le scoperte che, allora, hanno messo in moto il pensiero e hanno avviato pratiche politiche significative.

Ci sono testi particolarmente efficaci da rileggere, storie e ricordi personali da condividere, domande da riformulare alla luce del presente.

Per primo viene il Catalogo giallo, Le madri di tutte noi.

Nell’incontro pubblico che ha avviato il numero, Lia Cigarini, Rosaria Guacci e Silvana Ferrari hanno ricordato il divertimento e la felicità che hanno caratterizzato quel lavoro politico. In effetti a rileggerlo oggi quello che più mi ha colpito è la postura delle autrici. Si sente il loro slancio e la loro determinazione a trovare, movimento che distinguono nettamente dall’inventare. Si sente che in ballo c’è qualcosa di essenziale per loro stesse e lo cercano nelle parole di altre, le loro scrittrici preferite: “Ci siamo date la parola, loro a noi, noi a loro” (p. 13). Si sente che le autrici si mettono in gioco con una spregiudicatezza sorprendente per cui tutto quello che capita tra di loro fa senso, serve a costruire pensiero: dai litigi, alle osservazioni buttate lì a fine serata, all’analisi profonda delle parole dei romanzi scelti e della vita delle scrittrici. Sul loro fare dicono: “Il riconoscimento totale di una scrittrice, del suo modo di scrivere e di vivere, è un modo di dire, su una scena più grandiosa, che si preferisce una donna anche nella vita. Un modo facile e un po’ primitivo per significare che si è spostato affetto e ricerca di riconoscimento verso una donna e quindi le donne. Chi sta scrivendo questo pezzo del Catalogo ritiene che un legame fatto così sia la cosa più produttiva per svincolarsi dal contesto sociale maschile e dalle sue regole, mentre il generico riferimento alle donne produce poco anche se sembra che possa bastare” (p. 57).

A rileggerlo oggi, il lavoro del Catalogo ci fa presente che mettersi in gioco con grande libertà è possibile e dà frutti. Proprio oggi che su di noi pesano come macigni interpretazioni sovradeterminate, che pretendono di dirci cosa pensare su tutto, questa postura, se adottata, sembra in grado di riaprire varchi di pensiero e di pratiche.

Leggere il Catalogo è come percorrere l’itinerario di scoperte insieme alle autrici. Ne scaturisce per la lettrice o il lettore quello che Silvia Niccolai nella sua introduzione ha nominato come piacere di visione:“Vedere grazie a lei che ti dice qualcosa”. In effetti i commenti ai testi sono così acuti nel loro pescare nel conscio della ragione e nell’inconscio del sentire, che danno voce a qualcosa di profondo per cui mancavano le parole.

Io non c’ero in quegli anni in Libreria, sono arrivata l’anno dopo l’uscita del Catalogo e subito mi hanno consigliato di leggerlo. Ricordo che avevo da poco finito Menzogna e sortilegio di Elsa Morante. Quel romanzo mi aveva totalmente affascinata, senza che ne capissi in verità il motivo. Non riuscivo a staccarmi da quelle pagine e la ragione del mio attaccamento l’ho trovata proprio nelle parole di commento trovate nel Catalogo giallo quando dicono: “Il luogo immenso e sontuoso che così si apre ha un fascino che ce lo fa riconoscere, è il luogo materno. Lì non valgono i criteri di misura dai quali risulta che in realtà siamo povere. Lì c’è abbondanza e non si misura niente a nessuno”. Chi ha scritto quel commento ha dato parola a un sentire profondo che anch’io provavo, senza che riuscissi a dirne qualcosa.

Il luogo materno è una scoperta di allora che vale immensamente anche oggi: “Ciò che viene prima di una donna è sua madre, altro nome non c’è” (p. 133). Così, con poche parole essenziali, si scrive in Non credere di avere dei diritti, il libro scritto dallo stesso gruppo della Libreria sul suo percorso politico. In esso un intero capitolo è dedicato al Catalogo giallo e quel commento su Menzogna e sortilegio che ho citato, viene visto come “la nuova ricchezza che le donne acquistano nei loro rapporti facendo riferimento a una figura femminile originaria” (p. 135).

Sono all’incontro della redazione aperta di Via Dogana 3 sul Catalogo Giallo. Ci sono già stati gli interventi introduttivi di Clara Jourdan, di Silvia Niccolai e di Angela Condello a cui sono seguiti i contributi di Lia Cigarini e Rosaria Guacci.

Ed è lì, sulle loro ultime riflessioni che improvvisamente mi sovviene un ricordo: immagini e sensazioni che mi riportano a momenti di molti anni fa, nel luogo delle riunioni, in cui prese vita l’idea di quello che sarebbe diventato “Il catalogo giallo”- Le Madri di tutte noi.

Sono sensazioni di grande felicità, di piacere dello stare lì, in quel posto (al contrario di molte altre volte), in quel sottoscala buio e pieno di fumo.  Sentivo di essere al posto giusto anche quando i discorsi di alcune si facevano contorti e difficili da seguire.

Il mio amore per le scrittrici, nato negli anni dell’adolescenza, trovava finalmente la sua ragione: potevo dare alla mia passione un senso e quel senso diventava politico.

Non solo si discuteva di Jane Austen, le sorelle Brontë, Elsa Morante e altre che mi erano meno familiari, ma tutto poteva essere detto con grande libertà, argomentato puntualmente e alla fine nuovamente rimesso in discussione. La nostra grande libertà dipendeva dall’aver disconosciuto il canone maschile della critica letteraria. Anche chi nel gruppo aveva seguito determinati indirizzi di studio, restandone influenzata, tentava di sbarazzarsene.

Stavamo percorrendo strade nuove e il piacere di scoprire e condividere le nostre passioni era grande. Lo percepivo pienamente dalle modalità in cui procedeva il discorso (a cui io, molto silenziosa, contribuivo poco, ma anche il silenzio può essere partecipato!).

Fuori dai canoni stereotipati maschili, in cui le nostre amate autrici trovavano, se andava bene, due righe di analisi e di commento nelle antologie, noi potevamo costruire le nostre interpretazioni, osare mettere in relazione le nostre esperienze con quelle delle protagoniste e con le loro storie di vita, ricostruire biografie, cercare analogie e capire pienamente la grandezza, l’originalità delle loro opere e la specificità della differenza nelle loro scritture.

In più riconoscere e affermare la loro grandezza ci rafforzava, il loro valore si riverberava su di noi: da loro prendevamo forza, diventavamo più sapienti, più critiche, più preparate.

Con l’autocoscienza avevamo messo in relazione le nostre vite di donne, con la lettura e lo studio delle scrittrici, a cui facevamo riferimento, cercavamo di costruire la nostra genealogia simbolica, un immaginario altro con al centro la nostra libertà.

Nota: nell’occasione della sua ristampa non ho riletto il Catalogo giallo temendo una tempesta di emozioni.

da fanpage.it – “La Libreria delle donne è un luogo pieno di storia e la bellezza è che chiunque arrivi può appropriarsene, trasformarla e rigenerarla”. Giordana Masotto ha raccontato a Fanpage.it la storia della prima Libreria delle donne d’Italia, aperta a Milano cinquant’anni fa, nel 1975.

“È un luogo complesso, pieno di storia, con tanta vita addosso”. Sono state queste le prime parole che Giordana Masotto, tra le fondatrici , ha usato per raccontare la storia della prima Libreria delle donne d’Italia, aperta a Milano in via Dogana 2, poco distante dal Duomo, cinquant’anni fa, nel 1975. Un luogo pieno di storia che, in breve tempo, è diventato anche uno dei punti di riferimento per il femminismo italiano degli anni Settanta e che, ancora oggi, rimane un dei luoghi più fervidi del dibattito politico e culturale milanese.

La Libreria e il femminismo degli anni Settanta

“Era l’inizio degli Settanta. Il femminismo in quegli anni esisteva ancora, e soprattutto, nel privato, nell’autocoscienza di piccoli gruppi. Ci si cominciava a riunire nelle case, nei salotti di quelli che avevano spazio per accogliere e si parlava”, ha raccontato Masotto a Fanpage.it. “Proprio nelle case dove le donne erano costrette, in quegli anni, è iniziata una rivoluzione. Perché in quei momenti, dal dialogo e dal confronto, si è capito di non essere sole. Nelle case, per la prima volta siamo diventate un noi e, insieme, siamo andate nelle strade. Abbiamo creato movimento”.

Un moto che si snodava in tutta Europa. “Siamo andate a un convegno in Normandia. C’erano donne arrivate da tutta Europa. Lì abbiamo incontrato il collettivo francese “Psychanalyse et Politique” che ci ha raccontato di aver creato una libreria a Parigi dedicata alle donne, o meglio, alla voce delle donne, di tutte coloro che non avevano mai avuto voce. Quando siamo tornate ci siam dette: Perché non lo facciamo anche noi?”, ha ricordato Masotto, mentre cammina per la Libreria. “Così, dopo mesi di discussioni e ragionamenti, a ottobre del 1975 ce l’abbiamo fatta: abbiamo aperto la prima Libreria delle donne d’Italia”.

L’apertura della Libreria in via Dogana, a Milano

La Libreria è stata aperta nelle vesti di circolo cooperativo: il circolo cooperativo delle donne Sibilla Aleramo. “Eravamo 15 socie. Io, nel 1975, avevo 28 anni. Ho deciso di licenziarmi per fare la libraia. Ero fissa in negozio, le altre facevano le turniste”, ha raccontato ancora Masotto. “Un gruppo di artiste, coordinate da Lea Vergine, si sono messe insieme e hanno creato una cartella di opere da mettere in vendita e raccogliere il capitale necessario all’apertura della libreria”.

Due cose erano imprescindibili. “La prima: essere un luogo aperto sulla strada. Volevamo superare il privato dei salotti, dei piccoli gruppi, per creare un luogo dove chiunque potesse entrare. Volevamo che il privato diventasse pubblico”, ha continuato a spigare la fondatrice. “La seconda, ovviamente, è stata la scelta di tenere soltanto libri di autrici, scritti da donne. Questo perché non esisteva, a quel tempo, una letteratura femminile. Nelle librerie le opere scritte da donne erano presenti in maniera assolutamente residuale, in piccole sezioni dedicate e nascoste. La volontà era quella di creare una genealogia, valorizzare questa letteratura, dargli spazio e quindi voce”.

La Libreria di Parigi è stata aperta in Rue des Saints-Pères, nella via dei santi padri. Quella di Milano, in via Dogana. “Forse questo qualcosa ha voluto pur dire. L’idea che la libertà femminile si inserisse tra quei nomi e quei concetti che ne aveva limitato l’espressione”, ha aggiunto Masotto. “I luoghi di nascita, a ripensarci, sono stati emblematici del nostro cambiamento, gentile e rivoluzionario”.

Per questo sul manifesto che accompagna l’apertura della Libreria nel 1975 si legge che l’intento, racchiuso in questi imprescindibili dettagli, era quello di “far incontrare nello stesso luogo l’espressione della creatività di alcune con la volontà di liberazione di tutte”. “È stato allora che abbiamo capito”, ha detto Masotto a Fanpage.it. “Stavamo facendo qualcosa di importante, in grado di portare cambiamento”.

Cinquant’anni di storia della Libreria

Dalla fondazione della Libreria delle donne sono oggi trascorsi cinquant’anni. “Sono successe tantissime cose. In parallelo all’apertura è nata un’attività editoriale, diverse attività di incontro che vanno avanti ancora oggi tutti i sabati, incontri con autrici ma anche di discussione politica. Una caratteristica della Libreria è stata infatti quella di elaborare riflessioni, pensieri, discussioni e di metterle per iscritto sui manifesti che abbiamo chiamato “Sottosopra”. Questo perché il rapporto tra politica e letteratura è sempre stato importantissimo. Questa libreria è veramente un presidio di cultura”, ha spiegato ancora Masotto con una nota di orgoglio nella voce. “Nel 1991 abbiamo anche creato la rivista via Dogana che nel 2014 è diventata online. Infine, nel 2001, ci siamo trasferite in via Pietro Calvi 29, vicino a Porta Vittoria, dove siamo ancora oggi”.

Ma esiste un libro che riesca a rappresentare l’essenza più profonda della Libreria delle donne? Un’opera in grado di racchiudere e restituire la sua complessità? La risposta è decisa, non c’è dubbio nella voce della fondatrice. “Si intitola “Non credere di avere dei diritti”. È un libro uscito nel 1987. Il titolo è una frase della filosofa francese Simone Weil. Il significato è che non si deve pensare che le cose possano essere soltanto come sta scritto, se ci si mette in movimento tutto può cambiare. Molte donne, dopo averlo letto, sono entrate a far parte del circolo della Libreria che non è nient’altro, alla fine, che questo”, ha concluso Masotto.

“Il pensare insieme, generare pensiero nella relazione e, facendolo, dare voce a tutte coloro che non ne hanno mai avuto la possibilità attraverso la valorizzazione della scrittura e del sapere delle donne. E la bellezza è che chiunque arrivi può appropriarsi di questa memoria, trasformarla e rigenerarla, per sempre”.

https://www.fanpage.it/milano/la-storia-della-libreria-delle-donne-a-milano-dal-1975-ha-dato-voce-a-tutte-coloro-che-non-lavevano-mai-avuta

La libreria femminista di via Pietro Calvi che «non disdegna qualche giallo»: «Ma la vera ricchezza di questo luogo sono le relazioni»

Mirella Maifreda tra gli scaffali di via Calvi (Ottico/ LaPresse)
Mirella Maifreda tra gli scaffali di via Calvi (Ottico/ LaPresse)

Vorrebbe appellarsi al Quinto Emendamento Mirella Maifreda, e non parlare di sé. Perché «la Libreria delle donne è un luogo anomalo, non di protagonismi ma di impegno e forze collettive». E allora si parte da lì, dalle caratteristiche che rendono la libreria femminista di via Pietro Calvi abbastanza unica. Lei attacca, «a tenerla aperta siamo in dieci, tutte volontarie, diverse per età, formazione, motivazioni». La vera differenza, però, è forse la forma cooperativa, «che implica scelte di gruppo e direzione sempre condivisa, perfino il catalogo è costruito insieme, libro dopo libro».

Lei si definisce semplice turnista, lo è da oltre dieci anni, per tre mattine la settimana. «Frequentavo la libreria dai tempi di via Dogana», dice, «avevo amiche dentro, sapevano che avevo del tempo libero, ho accettato la proposta». Maifreda è laureata in Scienze Politiche alla Statale, tesi in Sociologia, «sui primi fondi elargiti dalla Comunità Europea, in pratica ho studiato l’incapacità italiana di accedere ai finanziamenti o di utilizzarli in modo corretto». Dei lavori precedenti in società private accenna appena, la diverte di più far sapere che ha ricoperto il ruolo di presidente di una microcomunità montana in una valle del Piemonte, «sono piemontese da parte di madre, lombarda di padre, severità sabauda e calvinismo padano», e per evitare fraintendimenti precisa, «non mi hanno trasmesso rigidità ma schiettezza e valori forti».

Si ritorna ai libri. Lei parte alla carica, «affrontiamo il tema scottante senza inutili pudori», dice, «lelibrerie arrancano, o peggio chiudono, e lo abbiamo visto succedere anche a Milano, perché in Italia non si legge e i libri hanno costi esagerati. Ho ammirato la recente intervista di Loredana Lipperini a un collega inglese, il problema della gente che non ama più la lettura è serio, travolgente. Il resto, tutto il bla bla sui librai come facilitatori, come consiglieri, è pura retorica». La discussione si sposta sull’utenza della Libreria delle donne. «Non mancano i clienti di passaggio, ma in generale chi entra qui, ed è indifferente se uomo o donna, lo fa consapevolmente, per convinzione, militanza. E qui interveniamo noi». Ma come, e il discorso sulla retorica della figura del libraio? «È altro, non vengono a chiederci titoli ma conoscenza, siamo interpellate sulle nostre competenze». Dei clienti parla con affetto, «ci confrontiamo con un pubblico di lettori che definirei formati, in grado di affrontare un testo come I vagabondi di Olga Tokarczuk, scrittura estremamente lenta di cui si è persa l’abitudine. Oggi ai giovani piace moltissimo Sally Rooney perché parla con onestà di relazioni e tradimenti», continua, «io faccio notare che sono gli stessi temi di Anna Karenina di Tolstoj, ma vince sempre l’incedere rapido e il respiro contemporaneo». 

Con i ragazzi Maifreda si trova, «è legittimo avere visioni distinte, anche ideologie legate all’età. Io però controbatto, alimento lo scambio, è raro che da noi si acquisti e via, senza parlarsi. La ricchezza di questo luogo sono le relazioni». Ancora di libri. Lei rivela, «il numero delle donne che ci portano i loro manoscritti in lettura è oramai fuori controllo, la solidarietà femminile fraintesa che diventa obbligo, non credo accada in altre librerie». La libreria ha già, fra l’altro, impegni paralleli: le tesi, le richieste di bibliografie, i convegni, ed è autrice di pubblicazioni e della rivista online “Via Dogana”. Per tutto il 2025, inoltre, c’è il calendario di presentazioni, incontri e dibattiti – nella grande sala accanto al negozio e più avanti nel giardino – promossi per il cinquantesimo (a breve uscirà il primo di tre numeri speciali cartacei della rivista). «Siamo monopoliste degli originali di Rivolta femminile e dei testi di Carla Lonzi», ricorda Maifreda, «abbiamo un discreto assortimento di narrativa e saggistica, e siamo rifornite di poesia, oggi poco valorizzata. Siamo una realtà politica, non lo dimentichiamo mai, ma con una visione inclusiva, la nostra impresa di donne vive nella società. La prova? Non disdegniamo qualche buon giallo».

(Corriere della sera – Milano, 24 febbraio 2025)

(*) Mirella Maifreda è una delle dieci libraie volontarie della storica Libreria delle donne, aperta nel 1975 in via Dogana e poi trasferitasi in via Pietro Calvi 29 (libreriadelledonne.it). Laureata in Scienze politiche, è approdata nell’impresa femminista dieci anni fa, dopo essersi occupata di sociologia, aver lavorato in società private ed essere stata presidente di una comunità montana.

Per il cinquantesimo la libreria promuove dibattiti, incontri e presentazioni, e tre numeri speciali cartacei della rivista «Via Dogana».

Le madri di tutte noi è uno dei primi fascicoli editi dalla Libreria delle donne di Milano nel lontano 1982. Altrimenti detto Catalogo giallo, privilegia la scrittura letteraria con un approccio totalmente libero in cui le romanziere, le loro biografie, i personaggi e le lettrici con le loro vite «si scambiano le parti sempre alla ricerca della combinazione giusta». Rivolgersi alle scrittrici preferite, quali Jane Austen, Elsa Morante, Gertrude Stein, Virginia Woolf, Ivy Compton-Burnett e le sorelle Brontë, era sentito allora necessario per «significare quello che la cultura umana non sa della differenza di essere donna».

In occasione dei 50 anni della Libreria abbiamo ristampato il catalogo e ne proponiamo una rilettura, come una sorgente a cui tornare insieme per ciò che può dirci oggi. In particolare verranno messi in luce i fili di pensiero riguardanti la genealogia femminile, il rifiuto dell’identità e la ricerca di una parola che stia al nostro fianco.

Introducono la discussione Lia Cigarini, Clara Jourdan, Silvia Niccolai e Angela Condello.

Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza.
Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.
È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.

Appuntamento: domenica 2 marzo 2025 ore 10.30 presso la Libreria delle donne via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265.

Sabato 8 febbraio 2025 abbiamo ospitato alla Libreria delle donne Luciana Castellina, in una giornata che per lei è stata molto intensa visto che la mattina era a Roma al funerale laico di Aldo Tortorella, compagno di tante battaglie. A 95 anni, continua a portare con sé la passione e la voglia di discutere, raccontare, confrontarsi con un’energia meravigliosa.

Aldo Tortorella è stato una figura centrale nella storia della sinistra italiana, dirigente del PCI e intellettuale di primissimo piano. Ma, come ha scritto Luciana Castellina nel suo bel ricordo su “il manifesto”, per chi ha vissuto la politica come una scelta totalizzante, non era solo un compagno di partito: era parte di una comunità in cui la politica e la vita si intrecciavano completamente. “L’impegno politico non era a quei tempi un aspetto della propria vita, era la vita stessa.”

E in fondo, La scoperta del mondo, il libro presentato in Libreria nella sua nuova edizione, è proprio questo: il racconto di una generazione che ha vissuto la politica non come qualcosa di separato dalla vita, ma come una dimensione in cui tutto si mescolava, amicizie, passioni, amori, lotte.

Ci sono libri che raccontano il passato e libri che, pur narrando eventi di un’altra epoca, parlano direttamente al presente e al futuro. La scoperta del mondo di Luciana Castellina è uno di questi. Non è solo un’autobiografia, ma un invito, un racconto che attraversa generazioni, un ponte tra chi ha vissuto il Novecento e chi oggi si interroga su come cambiare il mondo.

Luciana Castellina, nella nota che accompagna questa nuova edizione, ci dice qualcosa di potente: i giovani di oggi non sono spoliticizzati, sono solo in cerca di uno sguardo più lungo, di una visione più ampia di quella che spesso la politica ufficiale offre loro. Castellina guarda avanti, osserva i giovani con curiosità e ottimismo, li riconosce come eredi di una voglia di cambiamento che non si è spenta. E allora questo libro diventa un ponte: tra chi ha vissuto anni di grandi trasformazioni e chi oggi cerca strumenti per affrontare il presente.

Il libro ripercorre i diari giovanili di Luciana Castellina, dal 25 luglio 1943, quando Luciana ha 14 anni e sente la notizia dell’arresto di Mussolini. In quel momento, inizia anche il suo percorso politico, lei che si affaccia al mondo in un contesto fascista e non vede una reale alternativa, il suo ambiente è antifascista e anticonformista ma non attivamente partecipe alla Resistenza e intorno a lei in molti sono presi dalla propria sopravvivenza personale, c’è paura, c’è la guerra. Lentamente, attraverso incontri, letture, esperienze, si apre una breccia oltre la propaganda e la paura. E Castellina descrive questo momento con una frase che colpisce “Finalmente, anziché occuparmi dell’onore perduto della patria, esprimo qualche preoccupazione per chi non può pagare l’olio a 2200 lire il fiasco e le uova a 22 l’una. Qualcuno mi ha detto che ci sarebbero stati persino assalti si forni nei quartieri popolari. E uno sciopero generale dei lavoratori dell’Atac, della Romana Gas, del Poligrafico. La ribellione – era ora! – cominciava a piacermi” (pag. 84).

Con la fine della guerra, l’orizzonte si allarga. C’è entusiasmo, c’è voglia di capire, di agire, di prendere parte alla costruzione di un mondo nuovo.
Ma avvicinarsi alla politica non è immediato. Luciana si sente inadeguata, ha una sete di sapere che non sa dove cominciare a colmare. È un sentimento che io ritrovo nei giovani di oggi, smarriti davanti alla complessità del mondo e privi di strumenti per decifrarlo. Inizia ad appassionarsi alla pittura, ma non in modo astratto: per lei, l’arte è uno strumento politico, un mezzo per leggere e raccontare la realtà. Confrontandosi con altri giovani pittori – quasi tutti comunisti – cresce anche la sua coscienza politica. Capisce che la politica è il contrario di guardarsi l’ombelico, è la scoperta dell’altro e del mondo: “È questa dimensione nuovamente collettiva che mi aiuta a uscire dall’autoreferenzialità, che mi fa persino ritrovare il senso di quella parola – patria – che prima scrivevo con la P maiuscola, poi avevo del tutto cancellata come inganno e retorica. La pietà che comincio a sentire per il mio prossimo più lontano dal mio ghetto sociale, per i senza privilegi, gli sfollati, i disoccupati, i reduci, i martiri, mi ridà una dimensione collettiva, solidale. E che a poco a poco mi apre alla curiosità della politica, che è, appunto, il contrario del proprio ombelico” (pag. 117).

Questi sono anni in cui la felicità e l’angoscia convivono. Da un lato, la sensazione esaltante di avere tutto il mondo davanti e volerlo scoprire, una sensazione di felicità che l’accompagna spesso, come scrive (pag. 121). Dall’altro, la paura di forze enormi e incontrollabili, come la bomba atomica (pag. 120).

Il vero punto di svolta arriva con un professore del liceo, Giuseppe Petronio, che le fa capire quello che non aveva mai compreso prima. Nel libro si trovano piccole perle di curiosità, umanità e intelligenza, disseminate tra le pagine. Per esempio, Luciana annota la fine della guerra il 26 aprile del 1945 e un paio di giorni dopo l’uscita del film di animazione Biancaneve (pagg. 98-99). Oppure nel 1947 registra i lavori dell’Assemblea Costituente, che tratta anche temi come il divorzio o i figli illegittimi, scoprendo che ciò che ha sempre considerato privato è in realtà profondamente politico (pag. 142). La sua vita cambia completamente. Viaggia, partecipa a un’esperienza di lavoro volontario in Jugoslavia, entra in contatto con coetanei da tutto il mondo. Scrive: “Dopo la lunga ghettizzazione del fascismo e della guerra, il mondo ci è letteralmente scoppiato in mano: variopinto, iperplurale, inaspettato” (pag. 177).
Entra nel PCI, dove scopre un rigore morale che non ha mai vissuto nella sua famiglia. Nel 1947, a Praga, capisce che il comunismo non è solo una scelta politica, ma la possibilità di un mondo alternativo. Praga diventerà anche il simbolo di un altro momento cruciale della sua vita: la rottura del 1968, la radiazione dal PCI, la nascita de il manifesto dopo l’invasione sovietica.

Fin dall’inizio, la sua idea di politica è chiara: non è la spartizione del potere, ma un impegno collettivo per il riscatto dell’umanità: “La politica sarebbe arrivata dopo, poco alla volta. Ma per noi, che venivamo dall’università, quella è una straordinaria lezione di politica. Oggi direi di ‘politica vera’, allora non avevo nemmeno idea che potesse essercene una diversa” (pag. 200). E ancora: “Figure umane straordinarie, che regalano ore e ore della loro giornata all’impegno collettivo, senza neppure porsi il problema di un risarcimento che non sia quello ideale del riscatto dell’umanità. Cariche elettive o nomine o prebende sono lontanissime dall’orizzonte. Per anni, credo di non aver incontrato deputati o consiglieri comunali o, se li ho incontrati, non li ho distinti dagli altri militanti” (pag. 201). E questo, oggi più che mai, resta un nodo fondamentale: come si può pensare la politica senza trasformarla in puro individualismo o in gestione di cariche e di potere?

Luciana Castellina, nella sua lunga vita di impegno politico e culturale, non ha mai smesso di interrogarsi sul presente e di dialogare con il futuro. Nel 2024 ha rilasciato un’intervista a un giovane studente del Liceo Manzoni di Milano, Giaime Nisivoccia, dove pone delle domande radicali: Vi piace il mondo così com’è? Vi sembra giusto? Se no, avete pensato a come cambiarlo? In fondo, sono le stesse che si poneva a 14 anni, quando iniziava a scoprire la realtà fuori dalla bolla del fascismo. In questa intervista pubblicata sul giornalino della scuola, Luciana Castellina dice che oggi come allora, molti giovani avvertono l’ingiustizia, il disagio di vivere in una società che non offre spazio e opportunità a tutti allo stesso modo. E aggiunge che il nemico più pericoloso non è solo l’ingiustizia, ma la rassegnazione. Proprio qui il suo libro diventa importante: perché racconta la scoperta della politica non come ideologia astratta, ma come qualcosa che riguarda la vita concreta, le relazioni, le scelte quotidiane. La politica come il contrario del ripiegamento su se stessi, come lo strumento per uscire dal proprio ombelico e scoprire il mondo.

Il passato serve se è capace di parlare al presente. Questo libro lo fa, e lo fa senza retorica, senza nostalgia. È un racconto di formazione che si apre al futuro, perché chi lo legge – giovane o meno giovane – possa farsi le domande giuste. E magari trovare le proprie risposte.

da Il Fatto Quotidiano, rubrica “Nordisti”

Un pezzo importante della città si appresta a festeggiare i suoi cinquant’anni

Era il 1975, esattamente cinquant’anni fa. Le femministe erano una presenza giustamente inquietante, dentro la già inquieta società italiana, ma anche dentro (o fuori) i gruppi della nuova sinistra. In quell’anno nacque a Milano, in via Dogana 2 a un soffio dal Duomo, la Libreria delle donne. Era la prima in Italia, fondata da un collettivo che si ispirava alla Librairie des Femmes di Parigi fondata da Antoinette Fouque, del gruppo Psychanalyse et Politique. Fin dall’inizio fu perfino più radicale, perché decise di proporre solo opere di donne: quelle degli uomini avevano già centinaia, migliaia di vetrine. In via Dogana crebbe un luogo del sapere femminile e del “femminismo della differenza sessuale”. Lì non si vendevano solo libri, ma si elaborava un sapere, si aprivano polemiche, si creavano conflitti. Si costruiva il pensiero originale del femminismo italiano che rivendicava il «radicamento della teoria nelle pratiche femministe». Erano libraie e autrici di libri, le fondatrici di Via Dogana, fondatrici di riviste – Sottosopra, Via Dogana, Aspirina – che elaboravano e lanciavano idee come bombe aliene sulla cultura italiana, anche di sinistra, in dialogo – vivace e spesso acceso – con il femminismo internazionale. La filosofa Luisa Muraro elaborava la figura della madre simbolica. Altre “sputavano su Hegel” (e un po’ anche su Freud) e dibattevano le posizioni di Carla Lonzi sulla donna clitoridea. Oggi alle fondatrici, le decane – Lia Cigarini, Giordana Masotto, Luisa Muraro, l’artista Bibi Tomasi, Pinuccia Barbieri e tante altre – si sono unite le nuove leve – fra le quali Giorgia Basch e Laura Colombo – che continuano un lavoro interminabile come l’analisi, come la storia. Gli inizi furono aiutati dalla donazione di opere di alcune artiste, presentazione curata dalla critica d’arte Lea Vergine. Ancora oggi alle pareti della nuova sede della Libreria, in via Calvi 29, sono esposte opere di Valentina Berardinone, Carla Accardi, Dadamaino, Mirella Bentivoglio. La libreria ha un archivio e una biblioteca di libri rari sul femminismo. Da qualche parte ha anche le vignette di Pat Carra.

Un pezzo di storia di Milano (e d’Italia) è passata da lì, dalla Libreria delle donne. Le battaglie per il divorzio e l’aborto, il nuovo diritto di famiglia, i gruppi di autocoscienza, l’emancipazione diventata liberazione, l’elaborazione di una sessualità non subordinata al maschile, di una politica delle donne fuori dai radar maschili. La Milano del 2025 è un altro pianeta rispetto a quella del 1975. Eppure le donne della Libreria sono ancora lì, in un luogo aperto e fisico dove incontrarsi, guardarsi, parlarsi, discutere, produrre idee, leggere libri, venderli, scriverli. E preparare la festa dei 50 anni, a ottobre, con un saporito programma di incontri e iniziative. Ora sugli scaffali ci sono libri anche di uomini, agli incontri arrivano donne di tre generazioni (e anche uomini), la gestione è affidata a un gruppo di volontarie che le gonnellone a fiori delle femministe anni Settanta le hanno viste solo nelle foto in bianco e nero e oggi discutono di patriarcato e femminicidio, antiche violenze e nuovo femminismo.

Dopo cinquant’anni la Libreria resta un luogo fisico, dei corpi, in un mondo virtuale e social. Passato e presente si intrecciano nel programma per i 50 anni, con incontri sulle “maestre” – Simone Weil, Lina Merlin e altre –, assemblee sulla “radicalità del lavoro”, letture sceniche che attraverso il teatro portano in vita figure femminili «capaci di lasciare un segno nella storia e un’eredità di pensiero e pratica per il presente», collaborazioni con le scuole (il liceo classico Manzoni). Il programma completo è sul sito della Libreria; i prossimi cinquant’anni sono nelle idee delle ragazze che sono arrivate a prendere il testimone dalle mani delle fondatrici.

da QUATTRO. Giornale di informazione e cultura della zona 4

Importante realtà e riconosciuta protagonista del femminismo italiano, la Libreria delle donne è centro culturale e luogo storico di incontri, iniziative sociali e artistiche.

Dal 2001 con sede in via Pietro Calvi 29, la Libreria è stata fondata nel 1975 in via Dogana 2 da un gruppo di donne considerando l’idea della Libraire des femmes di Parigi, di raccogliere e far circolare opere femminili del passato e del presente, scegliendo, diversamente dal progetto francese, di trattare soltanto opere di donne. Una decisione innovativa intesa a valorizzare l’importanza di conoscere ciò che le altre donne hanno pensato prima, creando una genealogia femminile. La Libreria, insieme ad alcune donne dell’Udi (Unione donne italiane), apre nel 1990 il Circolo della rosa di Milano, che è stato definito «il salotto più comodo del femminismo più scomodo» e che si trova nel grande spazio attualmente collegato alla libreria dedicato a incontri su politica, letteratura, arte e musica.

Autrice, editrice di libri e pubblicazioni fra cui le riviste Via Dogana e Aspirina, la Libreria delle donne possiede un archivio prezioso e un fondo di testi esauriti e introvabili.

La programmazione delle iniziative, proposte dalle socie, è sempre ideata con l’intento di promuovere la libera circolazione del sapere femminile e la pratica di relazione. Alla presentazione del calendario 2025 per i cinquant’anni, in occasione della conferenza stampa del 25 gennaio, è stato dichiarato: «questo traguardo è solo una tappa nel percorso e nella storia del femminismo, siamo convinte che il movimento delle donne, nato dalla libertà guadagnata con pochi mezzi e ben radicato nell’ascolto di sé in relazione con altre, sia imprescindibile per ripensare l’agire politico per tutte e tutti, Creatività e relazioni, al di là dei rapporti di potere, sono il cuore pulsante di una trasformazione possibile».

A illustrare il programma per la celebrazione, gli interventi significativi e le testimonianze di tre donne di diverse generazioni. Giordana Masotto, socia fondatrice e prima libraia, dichiara «È il momento di ripensare agli inizi, al fervore intenso degli anni Settanta, ai piccoli gruppi di autocoscienza che si trovavano nelle case: un parlarsi che è stata la prima rottura del privato. Tutto ciò che abbiamo realizzato è stato possibile perché fatto con altre, sono grata a tutte le donne con le quali abbiamo collaborato in questi cinquant’anni e alle nuove generazioni che raccolgono questa eredità e la rigenerano».

Laura Colombo, appartenente alla generazione successiva di femministe, ricorda: «sono arrivata alla Libreria verso la fine dello scorso millennio, tramite il Gruppo Lavoro e ho trovato una radicalità di pensieri, una risorsa incredibile per me che restituiva tanta libertà. Nel 2001 abbiamo aperto un’ulteriore vetrina della Libreria in rete ed è nato il sito, una scommessa riuscita. La Libreria è una storia che continua, ad esempio con i progetti con le scuole milanesi, in particolare con il Liceo classico Manzoni e le liceali sono in costante dialogo con noi».

«Pensare insieme ha completamente cambiato la mia prospettiva, il mio modo di vivere e lavorare – spiega Giorgia Basch, trentaduenne e fra le ultime unitesi alla Libreria. – È importante questo femminismo della differenza ed è importante parlarne di persona, io sono venuta qui nel 2020 perché sentivo il bisogno di partecipare dal vivo».

Fra le iniziative citiamo i quattro incontri con le editrici femministe (primo il 15 febbraio con Enciclopedia delle donne), le presentazioni dei numeri di Via Dogana Speciale 50 anni, il ciclo di letture sceniche, curate da Ombretta De Biase, che attraverso il teatro portano in vita alcune figure femminili (8 marzo Lina Merlin e 15 marzo Simone Weil), il ciclo di incontri mensili dedicati al dialogo fra scienza e arte, curati da Francesca Pasini e Cristina Rossi.

Questi contenuti, la storia e l’impegno profuso sono espressione di partecipazione e progresso.

da la Repubblica-Milano

In via Pietro Calvi, non si vendono solo libri: “È rimasto un luogo per incontrarsi e discutere. Le giovani vogliono ricreare pratiche femministe”. Tante iniziative per celebrare l’anniversario

Correvano gli anni ’70, le femministe erano ridenti, arrabbiate e per la prima volta rivendicative, gonne mini o lunghe e fiorate, alcune sugli zoccoli, altre a piedi nudi come Joan Baez. Nottate intere a discutere, e poi le battaglie, il divorzio, l’aborto e il nuovo diritto di famiglia, argomenti di mille e una manifestazione, dei gruppi di autocoscienza nei quali si parlava di sessualità e di ribaltamento dei ruoli imposti alle loro madri e nonne, in un movimento che faceva della ripresa di un sapere personale la risposta alla medicalizzazione del corpo e di tutti i suoi processi, dal parto alle mestruazioni. Questo era il clima in cui, esattamente 50 anni fa, nasceva in via Dogana 2 la prima Libreria delle donne in Italia, sul modello di una simile impresa a Parigi.

Fra le fondatrici c’erano Luisa Muraro, Lia Cigarini, l’artista Bibi Tomasi e Giordana Masotto, la prima libraia, ancora oggi orgogliosamente sulla breccia assieme alle nuove leve, fra le quali ci sono Giorgia Basch e Laura Colombo, web mater curatrice del sito sul quale è appena stato messo on line un folto programma di iniziative da qui a ottobre, quando ci sarà la festa celebrativa nella nuova sede in via Pietro Calvi 29.

«Volevamo un luogo sulla strada, aperto a tutte, un negozio, dove anche ci si potesse ritrovare, un luogo per coniugare l’espressione della creatività di alcune con la volontà di liberazione di tutte», spiega Giordana Masotto che, alla bella età di 78 anni, è ancora una delle anime di questa libreria, che oltre a vendere una sterminata messe di libri che riguardano le donne, possiede anche un fondo di testi esauriti e introvabili.

Ma la libreria è «una realtà politica composita e in movimento», come si legge sul sito, e sforna pubblicazioni in proprio e una rivista online – Via Dogana -, oltre a organizzare tutte le settimane riunioni e discussioni politiche, proiezioni di film, presentazioni di saggi e romanzi che diventano momenti di riflessione collettiva. «All’inizio pagavamo l’affitto in una sede che ci aveva dato il Comune e per partire facemmo un’asta con opere d’arte che ci vennero donate da varie artiste vicine al nostro collettivo, fra le quali c’era Lea Vergine. Vendevamo solo libri di donne, come gesto politico, ma nel corso degli anni ci si è ripensato. Tante cose si sono evolute», racconta ancora Giordana che, con Pinuccia Barbieri, è la memoria storica della Libreria, anche se a mandare avanti oggi il negozio e le iniziative è una folla di volontarie, alcune molto giovani, che negli anni ’70 non erano nemmeno nate.

Il pubblico e la clientela negli anni sono cambiati, così come la contaminazione col dibattito sul patriarcato che mobilita la folla delle nuove femministe e della rete “Non Una di Meno”, integrando i temi che vengono dalla vecchia guardia. «C’è interesse nelle più giovani per la riappropriazione dei nostri pensieri e gesti degli anni ’70 – rivela Masotto -, trasformando la memoria in qualcosa di più vivo. Siamo molto grate per le sensibilità nuove, le interlocuzioni col femminismo di oggi, in una fase di crisi radicale del modello patriarcale. Tanti i nodi ancora da affrontare. Quello delle violenze, soprattutto. Su questo le giovani hanno un’esigenza forte di confronto in presenza, perché nelle relazioni virtuali c’è una sensazione di inganno e di svuotamento, per cui si sta riscoprendo il bisogno di ricreare delle pratiche».

Tante le iniziative per i 50 anni, dalle conferenze su alcune “maestre di vita” (Simone Weil, Lina Merlin e altre), all’assemblea del 9 aprile sulla “Radicalità del lavoro” alla Cgil in corso di Porta Vittoria 43.

Da Il Quotidiano del Sud, rubrica “Io Donna”

Il 15 ottobre 1975 a Milano, in via Dogana, nasceva la Libreria delle donne per iniziativa di femministe della differenza sessuale, spinte dal desiderio di farne “un centro di raccolta e di vendita di opere di donne” e “un laboratorio di pratica politica”, fondata sulle relazioni tra donne. Una storia lunga 50 anni, che ha fatto della Libreria un punto di riferimento per il femminismo italiano e internazionale. Intenso è il programma per festeggiare la ricorrenza lungo tutto l’anno con incontri, dibattiti, convegni in Libreria, in città e all’estero e una grande festa a ottobre. Programma presentato, sabato scorso, in conferenza stampa, a cui ho partecipato anch’io, da Giordana Masotto, una delle fondatrici, Laura Colombo, giovane arrivata alla fine dello scorso millennio, e Giorgia Basch, ventenne, arrivata per ultima. Tre donne, tre “punti di vista diversi” che, a partire da sé, hanno raccontato le “tre età della Libreria” e di come le iniziative programmate si accompagnino alla pratica politica di “rinnovare insieme la ricerca, capire chi siamo, ripercorrere il già passato per capire meglio, per reinventare, anche il nostro andare avanti”. Pensare agli inizi, come ha fatto Masotto, è pensare a Milano degli anni ’70, al “fervore intensissimo” che veniva dalla pratica dell’autocoscienza dei piccoli gruppi di sole donne che si ritrovavano nelle case per parlarsi, rompendo “il concetto di privato” e abbattendo “i muri delle case”.  Tante erano le relazioni con donne che “lavoravano, pensavano, si incontravano altrove” tra cui le femministe francesi di Politique et psychanalyse dal cui esempio le milanesi trassero l’idea di aprire la libreria con la differenza di scegliere di vendere libri scritti solo da donne. “Significare la scrittura delle donne voleva dire creare nuovi paradigmi, creare genealogie, che prima non esistevano. Selezionando, dando voce, corpo, spazio al pensiero, alla scrittura delle donne abbiamo fatto un gesto di rottura. Vendere libri solo di donne era una bomba nel mondo editoriale e della distribuzione”, mondo che poi è diventato preparatissimo nel proporre libri di donne, segno che “quando si fanno gesti forti e affermativi con autorevolezza il panorama cambia”. Aprire la Libreria era un evento eccitante e Masotto si è licenziata dal lavoro, è diventata la prima libraia a tempo pieno e altre, ieri come oggi, si sceglievano a turno in che orari potevano andare. “La Libreria, scrissero nel manifesto di apertura, è un negozio, si apre sulla strada, chiunque può entrarvi, è stata fatta per le donne da alcune donne (…). Abbiamo voluto fare incontrare nello stesso luogo l’espressione della creatività di alcune con la volontà di liberazione di tutte.” Guardare il passato e il presente in una donna come Masotto non può non suscitare gratitudine. Gratitudine per le donne con cui ha “fatto tutte le cose che individualmente non si possono fare”, gratitudine per le “nuove generazioni perché (…) quando guardano e hanno curiosità e interesse per quello che noi abbiamo fatto, lo rivivono, lo rimettono in corso col loro punto di vista, lo rigenerano”. L’arrivo di Laura Colombo, insieme ad altre, porta la rete, si crea il Sito della Libreria, “una scommessa riuscita”, torna la rivista Via Dogana, la terza, non più cartacea ma online. Le redazioni sono luoghi di pratica politica tra donne di generazioni diverse e tra donne e uomini. In quella di Via Dogana3 c’è Giorgia Baschirotto che arriva in Libreria spinta dal “bisogno di pensare insieme e capire cosa il femminismo potesse rappresentare” per la sua generazione e “come avrebbe potuto rivoluzionare” la loro “vita”. E così, la storia della Libreria continua, storia di donne, di pensiero e di pratiche politiche per donne e uomini. Un grazie e tanti Auguri.

da ND Noidonne

Un denso programma femminista di iniziative all’insegna della politica e della partecipazione

La Libreria delle donne di Milano festeggia i suoi primi cinquant’anni. Un traguardo importante celebrato con un denso programma di iniziative pensate guardando al futuro più che al passato perché “questa è solo una tappa nel percorso e nella storia del femminismo: siamo convinte che il movimento delle donne, nato dalla libertà guadagnata con pochi mezzi e ben radicato nell’ascolto di sé in relazione con altre, sia imprescindibile per ripensare l’agire politico per tutte e tutti”. Con queste parole è introdotto il programma dei numerosi appuntamenti in agenda per tutto il 2025, presentato in una affollata sala in Via Pietro Calvi 29, sede della Libreria, che è la fotografia di una realtà palpitante di vita e progettualità.

Da quando nella prima sede, aperta nel 1975 in Via Dogana 2, un gruppo di giovani femministe ha sentito il bisogno di uno spazio fisico in cui incontrarsi e riconoscersi, le continue attività hanno costruito solide relazioni e hanno permesso di condividere elaborazioni e riflessioni di filosofe come Lia Cigarini o Luisa Muraro, intellettuali che hanno fatto la storia del femminismo.

La Libreria delle donne, oltre a raccogliere e vendere volumi di autrici, conserva materiali d’archivio e cura alcune pubblicazioni tra cui Via Dogana, rivista stampata a lungo in versione cartacea (111 numeri) e dal 2015 Via Dogana 3, in versione on line. Tra le tante attività ordinarie ci sono: una rassegna stampa on line dal titolo Punto di Vista, proiezioni di film a cura dell’Associazione Lucrezia Marinelli e cicli di discussioni politiche di cui si occupa il Circolo della rosa.

Non tutti gli appuntamenti previsti per questo anniversario si svolgeranno nella Libreria, a sottolineare l’importanza attribuita alle relazioni e alla più ampia partecipazione. I vari appuntamenti spaziano dalle letture sceniche agli incontri con le case editrici femministe, dalla presentazione e discussione del primo numero cartaceo speciale di Via Dogana 50 anni alla redazione aperta del primo numero on line di Via Dogana 3, dai dialoghi con Luisa Muraro a incontri con l’Enciclopedia delle donne e con artiste contemporanee.

L’impostazione del programma riflette la decisa identità della Libreria, riconfermata nei decenni, che vuole essere “un luogo politico, per come noi abbiamo inteso la politica. Niente a che vedere con istituzioni, partiti o gruppi omogenei. La chiamiamo politica del partire da sé e nasce dalla riflessione sull’esperienza che ciascuna fa, dallo stare insieme in un’impresa di donne ma anche nel mondo e si basa sulla relazione. Ma in quello che siamo c’è qualcosa che non si può scrivere da nessuna parte, qualcosa che non è riducibile a ciò che si può esprimere in parole, perché bisogna esserci per viverlo”.

da Giulia Globalist

Il senso del tempo trascorso, mezzo secolo, e del trasloco della libreria dal centro al semicentro di Milano, ossia da via Dogana a via Calvi, sta anche nella postura del pubblico presente, domenica 25 gennaio 2025. Allora ci si riuniva accovacciandosi per terra, ieri si era tutte sulle sedie. Al di là del significato simbolico, la spiegazione sta soprattutto nell’età media (alta) delle partecipanti all’incontro/conferenza, affollatissimo, “Libreria delle donne di Milano 1975/2025”. Un po’ di ricordi e un bel catalogo di proposte per guardare avanti: un atteggiamento concreto, per così dire meneghino. Fra il pubblico anche le colleghe di altre case e librerie delle donne – svizzere italiane presenti, parigine da remoto – e qualche raro maschio. Con l’occasione l’accenno al programma dei prossimi mesi. Che, come ha sottolineato Giordana Masotto, sta nel segno della gratitudine alle nuove generazioni di donne che di quel progetto “se ne appropriano e lo rigenerano”. Ricordando che alla Libreria, appunto, si vendono (si presentano, si discutono…) soltanto libri di donne: “Volevamo far incontrare nello stesso luogo la capacità di partecipare di alcune col desiderio di tutte”. Milano come calamita: “Sono arrivata a fine Novecento – è il ricordo di Laura Colombo – da un gruppo in Brianza, Sottosopra Rosso, e subito ci siamo messe al lavoro per ampliare col sito, coi social, assieme a grafiche e a giovani, anche molto giovani come il gruppo delle liceali del Manzoni…”. E cita anche Daniela Santoro e Fosca Giovannelli; critiche ma operative, inclusive, insomma; questa la vera differenza, “rispetto ad altri movimenti politici che han bisogno di far fuori chi c’era prima…”.

La frase più ripetuta, in interventi di donne della prima e della seconda ora, di età diverse, ieri è stata “pensare assieme”. Si citano Lia Cigarini e Renata Sarfati. Non si dice “lavoro politico”, è lessico d’altra provenienza, ma di questo si tratta, per cui durante la settimana ciascheduna ha il suo impiego remunerato altrove, poi il sabato lo si passa qua a lavorare e pensare assieme. In un luogo fisico che è anche e opportunamente, come sottolinea Lia Cigarini, “aperto su strada”. Guardando al programma (vedi il link sopra) si va dal dialogo con le bambine – l’Accademia delle piccole filosofe – all’incontro con l’Enciclopedia delle donne a quello con le artiste (“Creare non è comunicare ma resistere”). Ci sono le opere, tre su 3 diverse “grandi” donne, di Ombretta De Biase. C’è la memoria interna, con i 111 numeri di “Via Dogana”, la rivista fondata da Luisa Muraro che è stata poi digitalizzata e quindi passata online dal marzo 2015 (veste digitale ridisegnata completamente nel 2024). C’è molta attenzione al lavoro, mica siamo per niente a Milano…: il 9 aprile si terrà in Cgil/Porta Vittoria un convegno su “Radicalità al lavoro” ossia su come guardare oltre e forzare i confini dia libertà. Con un’attenzione, di nicchia ma c’è, anche all’arte (come dimostra la vetrofania sulla vetrina d’ingresso)…

Oltre ai libri “soltanto” di donne, qui in via Calvi c’è anche un archivio (2500 titoli) di film a regia femminile. (Nota: il 12 aprile verrà presentato il Ritratto della giovane in fiamme di Céline Sciamma). E per sottolineare come il nucleo operativo e creativo della Libreria sia centrato sulle donne ma non discriminante si ricorda che nella redazione del sito della Libreria fanno parte “ben due uomini”. Il mercoledì si fa orario continuato, cosa pensata per permettere a chi lavora di approfittare dell’intervallo per fare un salto in libreria; la cosa bella è che nell’occasione arrivano tante giovani, molte dalla non lontana Statale alla ricerca di spunti o di testi per la loro tesi. E pure dei giovani perché, come ha sottolineato Lia Cigarini, “abbiamo portato molti uomini sulle nostre posizioni”. Pragmatica: “Altrimenti non si fa la rivoluzione”.

Molte le traduzioni in altre lingue, in tedesco in particolare, che ha saputo riconoscere la peculiarità del femminismo italiano di portare nel sociale le proprie pratiche attraverso il simbolico. Mentre prima, per capirci, si utilizzavano pratiche tradizionali, nate coi movimenti sindacali, a partire dalle grandi (“oceaniche”) manifestazioni di piazza. Come Usciamo dal Silenzio.

Concludendo, vanno segnalati sia l’approfondimento ad hoc della Libreria delle donne https://puntodivista.libreriadelledonne.it/via-dogana-3/ sia l’ottimo lavoro sulla storia della Libreria girato da Sabina Fedeli con le colleghe di MemoMi ( https://memomi.it/libreria-delle-donne ). Libreria che subito, con meneghina efficienza, ha ora prodotto anche un libretto tratto dal parlato del film…

Noi che scriviamo siamo donne della Libreria delle donne di Milano e siamo stufe di vedere l’intero femminismo della differenza trascinato strumentalmente in polemiche e critiche, anche in modo sgangherato, secondo cui il nostro pensiero sarebbe di destra.

In questi giorni abbiamo letto nuove falsità o inesattezze sul nostro pensiero e abbiamo ricevuto di nuovo rimostranze in occasione della nomina di Marina Terragni a garante per l’infanzia da parte della maggioranza di destra, evento che non ha nessuna relazione con noi.

Il femminismo della differenza sessuale è stato elaborato in Italia principalmente dalla Libreria delle donne di Milano e dalla comunità filosofica Diotima di Verona. Marina Terragni non ha mai fatto parte né dell’una né dell’altra. Per quanto riguarda la Libreria, non è iscritta alla nostra cooperativa e non ha mai partecipato a riunioni interne. È sempre stata una “battitrice libera”, e non ha fatto riferimento solo al femminismo della differenza ma anche a quello della parità (vd. “Un gioco da ragazze. Come le donne rifaranno l’Italia”, Rizzoli 2012). Ha frequentato per anni ma saltuariamente i nostri incontri pubblici, forse già da quand’era a Radio Popolare, sicuramente quando ancora collaborava con il Manifesto e quando era attiva nel Pd. Ma né Radio Popolare, né il Manifesto né il Pd vengono accusati di avere un dna irrimediabilmente di destra perché Marina Terragni ha attraversato loro redazioni o organizzazioni.

Con lei ci siamo per anni confrontate, abbiamo talvolta polemizzato e talvolta collaborato, come nella creazione della Rete per l’Inviolabilità del corpo femminile, fondata grazie all’apporto di molte femministe di diverse provenienze tra cui alcune di noi, anche se poi molte (noi comprese) ne sono uscite proprio per divergenze con lei.

Il pensiero della differenza è a disposizione di tutte e di tutti e non si può controllare né limitare nella circolazione; invece le scelte politiche sono di esclusiva responsabilità di chi le compie. Rimettiamo le cose nella giusta prospettiva.

Redazione Via Dogana 3

da il manifesto – La violenza subita per oltre dieci anni da Gisèle Pelicot non è risarcibile né riparabile. Bisogna sgomberare il campo, che non è morale e neppure giudiziario, per evitare che si immagini una restituzione o, peggio, un apparato giustificatorio per chi l’ha stuprata, con la connivenza del marito che la drogava per offrirne il corpo privo di sensi a chiunque si prenotasse via internet. Una prassi talmente ben collaudata da ispirare uno dei 50 stupratori che ha pensato di drogare la propria di moglie offrendola pure a Dominique Pelicot.

La violenza subita da Gisèle Pelicot, che oggi ha 72 anni, e che con il marito ha condiviso gran parte della sua vita, oltre a tre figli e sette nipoti, non è quantificabile. Anche se fa una certa impressione la totale liceità in cui decine di uomini, che hanno ricevuto pene dai 3 ai 15 anni, si siano serviti al banchetto domestico organizzato da Dominique Pelicot, che dopo i 20 anni che gli sono stati attribuiti nella sentenza di ieri per stupri aggravati, ha detto un laconico «ne prendo atto». Da come si sono svolti i fatti e dalla loro reiterazione, sembra che nessuno abbia mai inteso di essere fermato, o di fermarsi. Era tutto piuttosto regolare e accettabile nel suo automatismo.

Dagli scenari di guerra alle case perbene, questo patto patriarcale tra maschi che si scambiano dei corpi di donne cui danno al massimo la dignità di rifiuti, di cose, indica una sottile ossessione per l’inanimato. Nella cultura dello stupro si parla raramente di questo aspetto, un istinto primigenio di soppressione che il caso di Mazan chiarisce forse meglio di altri: la normalizzazione della violenza originaria è infatti nei confronti di un soggetto doppiamente prevaricato, vessato sessualmente e in uno stato di incoscienza. A leggere gli stralci delle dichiarazioni rilasciate dagli uomini che hanno abusato di lei, alcuni dei quali hanno detto di non essersi accorti di averla stuprata, ci si domanda quanto abbia contato la possibilità di eccitarsi assaltando un corpo non consenziente cui si aggiungeva la privazione di coscienza.

La ragione per cui Gisèle Pelicot ha scelto che il processo si svolgesse pubblicamente è di acquistare finalmente una voce. Per dire Io esisto.

Ha preso parola con tutta la forza, dopo aver guardato i video girati dal marito durante i suoi ripetuti stupri. Avrebbe potuto non farlo, avrebbe potuto trattare la questione come un fatto privato. Eppure ha sentito, dallo sprofondo in cui certamente ha vissuto e vive ancora, di riferirsi a tante altre sue simili affinché non si sentano sole e, nel non sentirsi sole, sottraggano dall’isolamento anche lei: ridiventare donna a sé stessa ed essere rimessa al mondo da chi la ascolta e le crede. È un cambiamento di segno, che è la rabbia amorosa delle proprie simili e di nessun altro. È insufficiente ma è la scelta di un inizio, di un cammino. Che non è privato ma politico e collettivo.

Non c’è guarigione e non c’è neppure vergogna, si devono vergognare loro, ha ripetuto Gisèle Pelicot. Che in questi mesi, dopo aver scoperto che suo marito la considerava carne da macello, oltre a essere sopravvissuta – non era scontato – lo ha ascoltato in un’aula di tribunale, senza battere ciglio, mentre le chiedeva perdono. Ci auguriamo non succeda. Noi non lo faremo. Ma la vorremmo abbracciare.