da il manifesto – La violenza subita per oltre dieci anni da Gisèle Pelicot non è risarcibile né riparabile. Bisogna sgomberare il campo, che non è morale e neppure giudiziario, per evitare che si immagini una restituzione o, peggio, un apparato giustificatorio per chi l’ha stuprata, con la connivenza del marito che la drogava per offrirne il corpo privo di sensi a chiunque si prenotasse via internet. Una prassi talmente ben collaudata da ispirare uno dei 50 stupratori che ha pensato di drogare la propria di moglie offrendola pure a Dominique Pelicot.
La violenza subita da Gisèle Pelicot, che oggi ha 72 anni, e che con il marito ha condiviso gran parte della sua vita, oltre a tre figli e sette nipoti, non è quantificabile. Anche se fa una certa impressione la totale liceità in cui decine di uomini, che hanno ricevuto pene dai 3 ai 15 anni, si siano serviti al banchetto domestico organizzato da Dominique Pelicot, che dopo i 20 anni che gli sono stati attribuiti nella sentenza di ieri per stupri aggravati, ha detto un laconico «ne prendo atto». Da come si sono svolti i fatti e dalla loro reiterazione, sembra che nessuno abbia mai inteso di essere fermato, o di fermarsi. Era tutto piuttosto regolare e accettabile nel suo automatismo.
Dagli scenari di guerra alle case perbene, questo patto patriarcale tra maschi che si scambiano dei corpi di donne cui danno al massimo la dignità di rifiuti, di cose, indica una sottile ossessione per l’inanimato. Nella cultura dello stupro si parla raramente di questo aspetto, un istinto primigenio di soppressione che il caso di Mazan chiarisce forse meglio di altri: la normalizzazione della violenza originaria è infatti nei confronti di un soggetto doppiamente prevaricato, vessato sessualmente e in uno stato di incoscienza. A leggere gli stralci delle dichiarazioni rilasciate dagli uomini che hanno abusato di lei, alcuni dei quali hanno detto di non essersi accorti di averla stuprata, ci si domanda quanto abbia contato la possibilità di eccitarsi assaltando un corpo non consenziente cui si aggiungeva la privazione di coscienza.
La ragione per cui Gisèle Pelicot ha scelto che il processo si svolgesse pubblicamente è di acquistare finalmente una voce. Per dire Io esisto.
Ha preso parola con tutta la forza, dopo aver guardato i video girati dal marito durante i suoi ripetuti stupri. Avrebbe potuto non farlo, avrebbe potuto trattare la questione come un fatto privato. Eppure ha sentito, dallo sprofondo in cui certamente ha vissuto e vive ancora, di riferirsi a tante altre sue simili affinché non si sentano sole e, nel non sentirsi sole, sottraggano dall’isolamento anche lei: ridiventare donna a sé stessa ed essere rimessa al mondo da chi la ascolta e le crede. È un cambiamento di segno, che è la rabbia amorosa delle proprie simili e di nessun altro. È insufficiente ma è la scelta di un inizio, di un cammino. Che non è privato ma politico e collettivo.
Non c’è guarigione e non c’è neppure vergogna, si devono vergognare loro, ha ripetuto Gisèle Pelicot. Che in questi mesi, dopo aver scoperto che suo marito la considerava carne da macello, oltre a essere sopravvissuta – non era scontato – lo ha ascoltato in un’aula di tribunale, senza battere ciglio, mentre le chiedeva perdono. Ci auguriamo non succeda. Noi non lo faremo. Ma la vorremmo abbracciare.
Rielaborazione dell’introduzione all’incontro con Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo, in Libreria sabato 30 novembre 2024.
Il libro Donna si nasce, di Adreana Cavarero e Olivia Guaraldo, recentemente pubblicato da Mondadori è un contributo importante al dibattito contemporaneo nel pensiero femminista. Offre molteplici livelli di lettura e, lasciandomi attraversare dai diversi temi posti, l’ho intrecciato con la mia esperienza di madre e femminista.
Parto dalla mia esperienza di madre di una figlia adolescente che, come tutte le giovani donne della sua età, si confronta con la complessità del proprio essere donna e con la ricerca del suo desiderio. La ricerca di sé, tipica dell’adolescenza, si colloca oggi in un contesto nuovo, segnato dall’avvento della libertà femminile, che ha scompaginato un ordine simbolico apparentemente immutabile, rimasto invariato per millenni. Le femministe hanno messo al mondo libertà, come ben evidenziano Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo in Donna si nasce, complicando ulteriormente le cose, ma soprattutto aprendo nuovi orizzonti.
Quando ero bambina sono stata cresciuta da una madre che, pur avendo l’età per essere femminista, non ha preso parte al movimento delle donne; ho sentito il retaggio di un’educazione che ancora attribuiva ruoli e regole rigidamente differenziati tra bambine e bambini. Per me bambina, queste norme diventavano più stringenti man mano che crescevo. Il desiderio di sfuggire a quel destino si configurava confusamente come desiderio di essere un maschio.
Crescendo ho incontrato il femminismo (ho cercato e trovato ciò di cui avevo bisogno) e ho scoperto la libertà femminile, che Luisa Muraro, in La sapienza di partire da sé, definisce come “la libertà di essere e agire in quanto donne, non secondo modelli maschili o neutri”. Questa libertà ha prodotto una trasformazione profonda nella relazione madre-figlia. Parlo a partire da me, riconoscendo tuttavia tratti comuni nelle relazioni madre figlia che vedo: il femminismo ha permesso alle figlie di vedere la madre come mediatrice di libertà, ovvero la madre è una figura dello scambio che non limita, ma media il rapporto della figlia con il mondo, come emerge nell’Ordine simbolico della madre di Luisa Muraro. È quindi una figura che offre senso e significato all’esperienza, permettendo alla figlia di radicarsi nella propria identità femminile.
Questa trasformazione è qualcosa che vedo incarnata nella relazione con mia figlia: il passaggio da un rapporto gerarchico a uno di riconoscimento reciproco, in cui la madre è un punto di riferimento e una guida verso la libertà. Fin da piccola mia figlia ha vissuto la consapevolezza del suo essere nata di sesso femminile e ne vedeva il valore attraverso i miei occhi. Si è anche scontrata con un contesto sociale che, ancora oggi, nega e omette il femminile. Ricordo, ad esempio, le sue decise proteste quando frequentavamo quella che allora si chiamava “Libreria dei ragazzi”: il maschile sovraesteso le faceva patire un’esclusione che non riusciva a comprendere. Mi piace pensare che la voce di dissenso di tante bambine come lei abbia contribuito a trasformare quel nome in “La libreria delle ragazze e dei ragazzi”, come è ora. È una piccola storia che riflette un cambiamento più grande, quello di una libertà femminile che si radica nella genealogia femminile e si misura con il mondo.
Racconto un altro aneddoto. Durante gli anni delle medie, mia figlia e un gruppo di sue coetanee appassionate di lettura hanno creato un blog in cui narravano le loro esperienze di lettrici. Ricordo una discussione che ebbero in una riunione su Zoom, in pieno periodo pandemico. Una di loro propose di presentarsi sul blog con la frase: “Siamo ragazz* che amano i libri e scriviamo per ragazz* che amano i libri”. Mia figlia fece notare l’incongruenza della formula. La proposta era motivata dalla volontà di non escludere nessuno.
Col passare degli anni, queste ragazzine sono diventate giovani donne attente e impegnate, soprattutto nei movimenti contro la violenza sessista e per i diritti delle persone LGBTQI+. Gli asterischi, che inizialmente erano stati oggetto di discussione, sono riapparsi nel loro linguaggio. Ritengo che non si tratti di un semplice esercizio del politicamente corretto, ma dell’espressione di questioni profonde: da un lato, la ricerca personale e spesso mobile del desiderio sessuale, che in questa fase della vita può essere indefinito o fluttuante; dall’altro, un profondo e personale senso di giustizia che i movimenti per i diritti civili hanno intercettato, essendo capillarmente presenti sui social tanto frequentati dalle giovani generazioni.
Tuttavia, come sottolinea Adriana Cavarero in una recente intervista con Jennifer Guerra, le teorie queer sono spesso state assimilate in modo quasi ideologico attraverso slogan, senza un adeguato approfondimento. Quindi il senso di giustizia arriva all’esito paradossale del ritorno al neutro, alla neutralizzazione della differenza sessuale. Quel senso di giustizia rischia di tradursi in un’ingiustizia verso loro stesse, negando la differenza femminile. È una dinamica che il libro di Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo affrontano i modo approfondito, essendo il ritorno al neutro non solo un dato linguistico, ma una questione simbolica e politica centrale.
Il libro Donne si nasce offre strumenti preziosi per posizionarsi nel disorientamento contemporaneo, rafforzando una posizione di apertura e ascolto senza rinunciare a ciò che considero fondamentale: il femminismo della differenza. Ed ecco la seconda prospettiva di lettura cui accennavo. Oggi, il femminismo della differenza è sotto un duplice attacco che ne mina la portata politica e simbolica.
Da un lato, i tradizionalisti neocattolici e la destra neofascista si appropriano del linguaggio della differenza per restaurare un ordine morale rigido e gerarchico. In questo utilizzo strumentale e reazionario, la differenza sessuale viene piegata a giustificare ruoli tradizionali per la donna ed eteronormatività, negando così la libertà femminile. Dall’altro lato, una gran parte dei movimenti LGBTQI+ critica il femminismo della differenza accusandolo di complicità con quel tradizionalismo, poiché considera l’esistenza dei due sessi una condizione fondamentale dell’umano, ed è interpretata da loro come una divisione binaria rigida.
Questa duplice pressione è frustrante. Il femminismo della differenza non è né una nostalgia di ruoli tradizionali né un’ideologia escludente: è una risorsa simbolica e incarnata che sta alla base della libertà di donne, uomini e altre soggettività. Non si limita a riconoscere la differenza sessuale, la assume come chiave interpretativa per ripensare le relazioni tra i sessi e costruire un ordine simbolico che offra alle donne senso, radicamento e libertà, una libertà sessuata, non neutrale, pienamente incarnata.
Il libro Donne si nasce ci offre un’importante riflessione su come riconoscere il valore della differenza senza cadere nelle semplificazioni del dibattito contemporaneo. Adriana Cavarero e Olivia Guaraldo mostrano infatti con grande chiarezza come questa polarizzazione rappresenti una trappola ideologica. Il femminismo della differenza non ha mai difeso la “famiglia tradizionale”; al contrario, ha da sempre lavorato per sovvertire l’ordine patriarcale e costruire un nuovo ordine simbolico che riconosce la differenza sessuale come condizione di relazione e libertà, non di subordinazione.
Il libro si rivolge idealmente alle ragazze, accompagnandole con generosità attraverso la storia e i concetti del femminismo della differenza. Con un linguaggio chiaro e mai semplificatorio, offre strumenti per comprendere e interrogare il presente. Leggendolo, ragazze e ragazzi possono esplorare le molteplici fonti e approfondire i testi citati nei vari capitoli, proseguendo autonomamente il percorso di lettura e riflessione.
Ma Donne si nasce non si limita a parlare alle ragazze: è un testo prezioso anche per madri e padri che vogliono comprendere meglio il presente e trovare strumenti per dialogare con le figlie, imparando ad ascoltare e a pensare insieme a loro. È una lettura fondamentale per insegnanti e per chi è a contatto con i giovani, poiché aiuta a riflettere sulle sfide poste dal presente. È un libro destinato a tutte e tutti, per pensare al significato della differenza sessuale come dato storico, culturale e materiale, sfidando sia il determinismo biologico sia la dissoluzione nelle categorie identitarie. È uno strumento vivo, capace di orientare il pensiero e l’azione nel mondo complesso in cui ci troviamo a vivere.
Ci sono vari momenti della mia vita che hanno modellato profondamente il mio approccio con i soldi e attraverso i quali ho potuto osservare da vicino l’impatto che potevano avere non solo negli aspetti pratici dell’esistenza ma anche sulle relazioni, sulle scelte e sulla percezione di sé.
Nella mia famiglia i soldi non sono mai stati un argomento tabù. Al contrario, erano una presenza – o, a volte, un’assenza – costante nelle nostre vite. Fin da piccola ho capito che il denaro non era solo un mezzo, ma un simbolo, qualcosa che parlava del nostro passato e, allo stesso tempo, tracciava il percorso verso il futuro. Per i miei genitori, i soldi rappresentavano il segno di un’emancipazione tanto desiderata. Venivano da famiglie con un passato di povertà, dove ogni moneta aveva un peso specifico, dove i desideri si accantonavano per far spazio alle necessità. Quando mio padre avviò la sua azienda, il denaro non era più soltanto sopravvivenza: era la dimostrazione di “avercela fatta”. Era il mezzo per costruire una vita migliore, per darci opportunità che loro non avevano avuto, come quella di permettere ai figli di fare una vacanza-studio a Londra – anche solo per qualche settimana – per mostrarci un mondo più grande e ricco di possibilità.
Poi l’azienda fallì. Ricominciare da capo non fu solo una questione economica, ma anche emotiva. Era la frustrazione di vedere sfumare anni di sacrifici, la fatica di rimboccarsi di nuovo le maniche. Fu in quel periodo che iniziai a capire quanto fragile fosse il confine tra sicurezza e precarietà. Come scrive bene Annalisa Monfreda nel suo libro Quali soldi fanno la felicità?, l’emancipazione di un singolo promette sempre un’emancipazione collettiva: il successo personale si intreccia con il sogno di riscatto della famiglia, della comunità di provenienza. E proprio per questo quando tutto crolla il peso del fallimento diventa ancora più schiacciante. Non era solo un’azienda che chiudeva i battenti; era la promessa di un futuro migliore che sembrava improvvisamente sfuggire dalle mani. Quel momento instillò in me un profondo senso di responsabilità, spingendomi a muovere i primi passi nel mondo del lavoro. Così, durante i weekend del liceo, iniziai a guadagnare i miei primi soldi. Il mio rapporto con il denaro nacque sotto il segno della necessità: non era un lusso, ma un mezzo indispensabile per contribuire e, in qualche modo, alleggerire il peso che sentivo gravare sulla mia famiglia.
Crescendo, ho imparato che i soldi non sono né buoni né cattivi: sono un elemento fluido, mutevole, che assume significato solo attraverso il valore che scegliamo di attribuirgli. E, soprattutto, ho capito che il loro peso non è inevitabile, che dal loro attaccamento si può fuggire, liberandosi dal potere che rischiano di esercitare su di noi.
Il mio secondo approccio con il denaro nacque dalla ricerca di indipendenza. Fu questo desiderio a spingermi a trasferirmi lontano da casa e a cercare un lavoro che mi permettesse di vivere in una città diversa. Quando iniziai a lavorare nel settore della cultura, però, mi scontrai con una realtà che non avevo previsto: essere sottopagata. Nonostante gli sforzi e le competenze che avevo acquisito, mi ritrovai spesso in situazioni in cui il valore del mio lavoro non veniva riconosciuto. Per passione e per necessità, mi ritrovai a fare fino a quattro o cinque lavori contemporaneamente. Era una realtà frustrante e svalutante, che mi portò a mettere in discussione non solo il mio percorso professionale, ma anche il mio valore personale. Essere sottopagata non era soltanto un problema economico; era una questione di dignità. Ogni stipendio che non rifletteva il mio impegno e le mie capacità mi faceva sentire intrappolata in una spirale di insoddisfazione e disillusione. Tuttavia, proprio da quella frustrazione nacque una consapevolezza importante: il valore che attribuisco a me stessa doveva diventare la base su cui costruire le mie scelte, e non quello che gli altri erano disposti a riconoscermi.
Dopo anni di lavori mal pagati, con compensi che a volte si aggiravano tra i cinque e i sei euro l’ora, decisi che non mi sarei voltata dall’altra parte e, seppur proseguire su quella strada costasse grande sacrificio e caparbietà, non avrei abbandonato il settore, anzi, avrei dato il mio contributo per migliorarlo. Lavorare nel mondo della cultura, mi resi conto presto, era ed è un privilegio per pochi. Non perché richieda meno competenze o dedizione, ma perché non tutti possono permettersi il lusso di lavorare gratuitamente. Eppure, nel settore aleggia sovente la narrazione tossica secondo la quale è normale prassi quella di “farsi le ossa”, accumulare anni di esperienza non retribuita, in nome della formazione, della passione per il bello, del sacrificio per una causa più alta. È una trappola sottile. Il fascino della cultura ti attira con promesse di crescita personale ma presto ti trovi intrappolato in un sistema che ti chiede di dare senza mai restituire. Le porte dell’arte, del teatro, dei musei sembrano aperte a tutti, ma in realtà, ancora troppo spesso, si spalancavano solo per chi ha spalle abbastanza larghe da resistere all’assenza di stipendi, contratti e tutele. È un mondo che ti respinge se non puoi permetterti di essere sfruttato. E, nel farlo, ti fa sentire come se la tua passione non bastasse, come se non fossi abbastanza. Ma la verità è un’altra: è il sistema a essere ingiusto, costruito su sacrifici che non tutti possono permettersi di fare. E così, il settore culturale diventa una torre d’avorio, costruita sulle disuguaglianze, sempre più lontana da chi vuole entrarci con il solo biglietto del talento e delle competenze. La cultura, che dovrebbe includere, ispirare, accogliere, diventa una macchina che esclude, sfrutta e scoraggia.
E anche qui risulta importante il tema dei soldi, un argomento spesso evitato durante i colloqui di lavoro, quasi fosse sconveniente parlarne. Ma ignorare il problema significa perpetuare il ricatto per cui se non si accettano le condizioni offerte, ci sarà sempre qualcun altro disposto a farlo per meno. Parlare di denaro, invece, significa rompere quel silenzio che rende i lavoratori ricattabili. Significa rivendicare il diritto a una retribuzione giusta, a una dignità professionale che non deve essere un privilegio, ma un fondamento.
Spinta da queste convinzioni nel 2022 contattai l’associazione Mi Riconosci?, e da quel momento iniziai il mio impegno politico contro i salari inadeguati, il sottoinquadramento e le ingiustizie subite da tanti lavoratori e lavoratrici del mio settore. È stata una svolta importante per la mia vita, che mi ha permesso di trasformare la mia rabbia e la mia esperienza in una lotta collettiva, per dare voce a chi, come me, voleva rivendicare il giusto valore del proprio lavoro. L’iniziativa di “Mi Riconosci?” nasce alla fine del 2015 dalla volontà di un gruppo di professionisti (o aspiranti tali) del mondo dei beni culturali (studenti e laureati, lavoratori e in cerca di occupazione) di cambiare la realtà lavorativa del settore. Situazione che si presenta complessa e articolata: professioni del tutto ignorate o riconosciute solo in teoria e in attesa di decreti attuativi o della fine di processi lunghi anni. Tutti, dagli storici dell’arte agli archivisti, fino ai diagnosti, abbiamo in comune gli stessi problemi: sviliti, sottovalutati, sottopagati, socialmente denigrati. Da qui l’idea di creare una campagna unitaria sull’accesso alle professioni dei Beni Culturali, sulla valorizzazione e riqualificazione dei titoli di studio del settore e l’impegno per raggiungere giuste retribuzioni.
Negli ultimi anni, complice un accumulo di una serie di esperienze insoddisfacenti, ho deciso di cambiare rotta e intraprendere la strada dell’attività da freelance. Non è stata una scelta facile: i rischi erano molti, le paure altrettanto. Ma quella decisione rappresentava per me un atto rivoluzionario di autonomia, un modo per affermare il controllo sul mio percorso professionale. Essere una lavoratrice autonoma mi ha permesso di stabilire un rapporto diverso con il denaro: non più un valore imposto da altri, ma un riflesso diretto del mio impegno, delle mie competenze e della mia capacità di negoziare il giusto compenso per il mio lavoro. La precarietà è ancora un’ombra costante, ma pur senza la sicurezza di uno stipendio fisso, mi ha permesso di capire che il denaro non doveva essere un fine, ma uno strumento: un mezzo per costruire la vita che desidero, piuttosto che una misura del mio valore personale.
Il mio rapporto con i soldi non è mai stato solo una questione di bilancio o numeri, ma anche di equilibrio tra ciò in cui credo e ciò che mi serve per vivere. Conciliare i miei valori etici con la necessità di guadagnare non è facile e spesso mi fa sentire scissa in due. Sensazione provocata dal sistema economico attuale che ci mette di fronte a scelte difficili, dove il bisogno di sicurezza economica sembra entrare in conflitto con ciò che riteniamo giusto o importante per noi stessi e per la società. Ci sono stati momenti in cui mi sono chiesta se accettare un lavoro che non rispettava i miei principi fosse un compromesso necessario o una rinuncia a ciò che mi definisce. Altre volte, ho scelto di rifiutare proposte apparentemente vantaggiose perché sentivo che avrebbero tradito le mie convinzioni. Questo mi ha insegnato quanto sia sottile il confine tra pragmatismo e idealismo e quanto sia importante, anche nelle difficoltà, cercare di trovare soluzioni che non sacrifichino la nostra integrità.
Credo che la vera sfida sia proprio questa: non fuggire dalle regole del sistema, ma comprenderle e sfruttarle a nostro favore per costruire un futuro più etico e sostenibile. E quando riusciamo a farlo, scopriamo che è possibile trasformare il bisogno di guadagno in un mezzo per creare altri tipi di valore.
Nonostante le difficoltà, ho capito che è possibile utilizzare gli stessi strumenti del capitalismo per creare qualcosa di diverso, qualcosa che rispecchi i nostri ideali. Un esempio che mi ispira profondamente è il progetto dell’Associazione Poveglia per Tutti. Attraverso il crowdfunding, un mezzo di finanziamento collettivo, l’associazione è riuscita a mobilitare centinaia di persone con una visione comune per acquistare e proteggere l’isola di Poveglia, ovvero un bene comune. Così facendo, hanno impedito che fosse sfruttata a scopo commerciale, promuovendone invece un utilizzo pubblico e sostenibile. Questo dimostra che, anche in un sistema spesso percepito come ostile, esistono spazi per realizzare iniziative etiche, che mettano al centro il bene collettivo.
Un altro esempio significativo è l’esperienza del Collettivo di Fabbrica GKN e il loro progetto di azionariato popolare. In questo caso, lavoratori e comunità hanno scelto di unirsi per rilevare e gestire l’azienda in modo collettivo, dimostrando che esistono alternative concrete alla logica del profitto a tutti i costi. Iniziative come queste mostrano che, sebbene il sistema sembri immutabile, ci sono modi per piegarlo a favore di un cambiamento reale e condiviso.
Queste esperienze sono importanti da citare e ricordare perché si oppongono al monopolio di quelle narrazioni che celebrano storie straordinarie di sacrificio, fatte di sudore e rinunce, dove “volere è potere” diventa l’unico mantra accettabile. Quelle storie che esaltano l’eroismo quotidiano delle bidelle che fanno le pendolari da Napoli a Milano, come se l’ingiustizia intrinseca di un sistema che costringe a tali estremi fosse qualcosa da applaudire, anziché da mettere in discussione.
Per concludere, il mio rapporto con il denaro è ancora pieno di contraddizioni, come un nodo che non si scioglie del tutto ma che, in qualche modo, tiene insieme i fili della mia storia. Eppure, come afferma Derrida, «la coerenza nella contraddizione esprime la forza di un desiderio». Forse è proprio questo: il desiderio profondo di conciliare ciò che faccio con ciò in cui credo, di trovare un equilibrio tra la mia professione e la mia etica, di non sentirmi più costretta a scegliere tra guadagnarmi da vivere e restare fedele a me stessa.
Ma c’è un’altra consapevolezza che nel tempo ha preso forma: i soldi, spesso visti come simbolo di oppressione o compromesso, possono diventare anche uno strumento rivoluzionario. Non sono un fine in sé, ma un mezzo potente, capace di trasformarsi in leva per cambiare le regole del gioco. È possibile usare il denaro per costruire, per finanziare iniziative che rispecchiano un ideale collettivo. E quando penso a progetti come il crowdfunding per l’isola di Poveglia o l’azionariato popolare del Collettivo GKN, vedo un esempio concreto di come il denaro, se usato consapevolmente, possa diventare un’arma contro il sistema che lo vorrebbe dominio esclusivo.
Così, auspico di poter conciliare il mio lavoro con la mia etica, trasformando il denaro non in un vincolo, ma in un mezzo per costruire qualcosa di più grande. E, un giorno, sentirmi finalmente intera.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Sono soldi i soldi?, 1 dicembre 2024
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Ho fatto molta fatica in questi giorni a raccogliere le idee e sedermi a scrivere questa relazione introduttiva, forse perché ne sottovalutavo in qualche modo la portata emotiva. Proprio qualche minuto fa, prima che mi sedessi al computer a cercare di tendere questa matassa di pensieri con Luca – il mio compagno – abbiamo passato un quarto d’ora a discutere sulle spese, quelle fatte, quelle da fare e soprattutto quelle da non fare. Stiamo cercando di comprare una casa, da circa tre mesi. Così in quest’ultimo periodo sembra che ogni nostra conversazione vortichi lì, sul dente che duole.
E a un certo punto sono di nuovo bambina e non c’è più mio padre ma ci sono io, più o meno adulta, che faccio i suoi stessi discorsi, che condivido le sue stesse ansie e mi accorgo che quello che mi ero promessa di fare nella mia vita – ovvero cercare di non dare più peso di quello che è giusto (e su questo ritornerò) ai soldi – purtroppo è stata una battaglia persa in partenza.
A casa noi soldi non ne abbiamo mai avuti troppi, a volte troppo pochi, a volte il giusto per campare, a volte poco più del giusto da mettere da parte per qualche imprevisto che si sarebbe presentato a breve. E nella loro assenza erano allo stesso tempo la cosa più presente tra le nostre quattro mura. Per mio padre era necessario ricordare, a fronte di ogni spesa, che noi, no, quella spesa non avremmo potuto/dovuto farla. Io trovavo in qualche modo surreale vivere la mia vita in funzione del denaro, o ancora peggio in funzione della sua assenza, nonostante ciò ho sempre cercato di tirar su qualcosa, quanto meno per non sentir mio padre ciarmuniare (come si dice da noi). Inevitabilmente, seppur mi fossi sempre ripromessa il contrario, attualmente vivo il denaro con la stessa ansia di mio padre. Ma se è vero che in ognuno di noi ci sono due lupi, allora è vero che dentro di me vive anche mia madre. E per mia madre i soldi potevano mancare, ma sicuramente non mancava un piatto in più a tavola, un posto in più a dormire, una pizza offerta a un’amica, un pensierino preso per strada all’improvviso. Per mia madre i soldi, anche quei pochi, sono sempre stati un mezzo, per comunicare qualcosa, per raggiungere qualcuno, per aiutare qualcun altro.
Da brava figlia ho preso il peggio di entrambi: e quando offro il pranzo a un’amica poi passo le giornate seguenti in ansia a capire se riuscirò mai a riprendermi dalla spesa.
Per quanto io abbia sempre sperato di evitarlo, sono diventata adulta e i soldi sono diventati parte integrante anche della mia vita, non solo passivamente attraverso i miei genitori, e mi sono trovata ad avere nuovi nemici – come l’Irpef, che ancora non ho capito chi è e perché si tiene tutto il mio stipendio – e nuovi amici – i prodotti in offerta al supermercato perché sono in scadenza.
Mentirei dicendo che io e il mio compagno ci troviamo effettivamente in una situazione di difficoltà economica, anzi paradossalmente rientro tra quelle poche persone che, nonostante la cristallizzazione sociale, sembra essere riuscita a fare uno scarto rispetto alla sua condizione economica di partenza. Lavoriamo entrambi e non ci manca assolutamente nulla, d’altronde siamo anche riusciti a mettere da parte qualcosa per smettere di svenarci con un affitto. Forse però questo ci è costato un po’ più del previsto, o quanto meno mi è costato. Ho sempre sentito che più soldi sembrano essere uguali a più libertà, io piuttosto li vivo sempre di più come una schiavitù. Lavoro più di quaranta ore a settimana e guadagno lo stesso stipendio (se non di più) con cui mio padre campava una famiglia di cinque persone, eppure allo stesso tempo mi sembra di dover continuare a fare la spesa con la calcolatrice. Ogni sforzo che faccio mi sembra inutile, e questi mesi in cui stiamo cercando di comprare casa hanno cristallizzato in me questo pensiero. Non solo, per me il lavoro stesso è diventata una forma in qualche modo di isolamento: sono troppo stanca per uscire, per gli aperitivi, per le feste di compleanno, per i regali, per i matrimoni. È come se anche quelli rientrassero nel ciclo di sfruttamento in cui mi sento intrappolata. Così, preferisco togliermi qualche sfizio personale, più costoso, piuttosto che spendere trenta euro per passare una serata con un’amica. E a volte mi chiedo se sia solo una questione economica, la scelta di quanto ho io da investire e in cosa voglio investirlo, quando il lavoro è tanto e il tempo è poco. Quando neppure la gratificazione del bonifico in favore di sembra risollevarmi dal pensiero che la banca mi potrebbe rifiutare la richiesta di mutuo, l’unica cosa che sembra utile fare è fare qualcosa per se stessi. Fino a oggi non mi sono mai chiesta perché? da quando tutto quello che faccio deve essere una transazione in mio favore?, probabilmente perché non sono l’unica a farlo. È questa la nostra nuova normalità, la nostra nuova schiavitù – e anche chi come me ha sempre cercato e cerca ogni giorno attraverso la pratica politica di allontanarsi dall’individualismo ne viene risucchiata al prezzo di un nuovo telefono a discapito di un passaggio a casa a un amico in difficoltà. Ma sono solo i soldi?
La mia libertà, la mia ricerca di collaborazione, la mia voglia di investire tempo – e perché no, anche denaro – nelle relazioni è come se fosse inversamente proporzionale ai soldi che entrano a fine mese nel mio conto in banca. Quando facevamo fatica a fare la spesa, perché io non lavoravo o al massimo facevo qualche collaborazione in università e Luca guadagnava nemmeno duecento euro a settimana facendo il rider, sembrava tutto più semplice. Era più semplice spendersi per gli altri, era più semplice investire tutto se stesso in una cosa a prescindere dal tornaconto. Adesso invece mi trovo a fare dei pensieri che entrano in contraddizione con tutto quello che sono, o almeno che credo di essere: cosa farebbero gli altri per me? Cosa spenderebbero gli altri per me? E mi chiedo se tutto questo sia realmente io o se tutto questo sia il famoso giusto prezzo del denaro che mio padre mi ha sempre detto che avrei dovuto imparare.
La verità è che le relazioni hanno un prezzo, e non solo materiale. E ogni giorno facciamo i conti con quanto siamo disposti a spendere, quanto siamo disposti a spenderci soprattutto. E da un lato per me, a questo punto, il denaro è una forma di assoluzione, perché a volte è più semplice metterlo in mezzo come veicolo della nostra reticenza. È una risposta concreta a problemi metafisici, su cui non vogliamo soffermarci troppo; è uno scudo invalicabile, a proteggere il capitale umano che altrimenti ci troveremmo a investire. Questo perché le relazioni a volte ci mettono di fronte a delle scelte che non vogliamo prendere e delle domande che non vogliamo farci: quanto vale il mio tempo, quanto valgo io, quanto valgono le mie energie? Così le relazioni si trasformano in transazioni, l’ennesimo estratto conto della nostra giornata. Siamo stanchi, stufi e svalutati, da noi stessi, dal nostro lavoro, dalla società, dai nostri amici – che sono stanchi, stufi e svalutati come noi. Siamo individualisti perché siamo soli, ogni giorno, a capire qual è il peso giusto da dare a noi stessi in una società che ci rende sempre più simili al peso che ha il nostro stipendio ora che le Goleador non costano più dieci centesimi a pacchetto. Forse, però, dovrei imparare da mia madre, che non si è mai chiesta «a me cosa rientra?» nell’aggiungere cento grammi di pasta in più solo per vedere sorridere un’amica, certo è che alla fine dei conti, mentre scrivevo questa frase, una domanda mi assale: me lo posso realmente permettere?
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Sono soldi i soldi?, 1 dicembre 2024
«Bisogna che tutti ci decidiamo: sono soldi i soldi o non sono soldi?»
Questa provocazione di Gertrude Stein, che troviamo nella raccolta di scritti e interviste realizzati tra il 1935 e il 1946 durante e dopo un suo viaggio negli Stati Uniti, recentemente riedito dalla casa editrice Vanda Edizioni, è stata il punto di partenza per i lavori di domenica 1° dicembre, durante la redazione allargata di Via Dogana 31. Nel suo stile frammentato e denso di ironia, Stein tratta il denaro non solo come strumento di scambio, ma come simbolo che permea le strutture sociali, culturali e affettive.
E così, chiedersi come fa Gertrude Stein Sono soldi i soldi? significa aprire uno spazio di interrogazione ampio: come il denaro modella il nostro modo di stare insieme, di collaborare, di costruire comunità? Il discorso quindi non si limita a una questione di ricchezza o proprietà, ma si collega ai meccanismi che fanno funzionare la società e alla possibilità di convivenza. Detto in altri termini: il denaro non è mai un’entità neutra o isolata, ma un elemento che struttura il modo in cui lavoriamo e condividiamo spazi e risorse. Anche se non se non ne parliamo.
Questo numero di Via Dogana 3 dedicato ai soldi l’ho voluto fortemente io, che intrattengo con il denaro un rapporto ambivalente. Sono cresciuta in una famiglia con pochi soldi, dove il denaro era una presenza silenziosa: non se ne parlava mai, eppure si percepiva che c’era un limite da non oltrepassare. I miei genitori non facevano discorsi espliciti, e conducevamo una vita dignitosa anche con poco, non ci hanno mai fatto mancare l’essenziale. Per dare a noi figlie e figli la possibilità di studiare, hanno fatto sacrifici e ci hanno insegnato a fare altrettanto. Io, di riflesso, mi sono sempre arrangiata: ripetizioni, babysitting, lavori precari, tutto pur di non gravare sul bilancio familiare.
La mia infanzia si è svolta in una provincia prevalentemente operaia e contadina, dove questo stile di vita era condiviso dalla maggior parte delle persone intorno a me. Il denaro, in quel contesto, non era un segno distintivo ma un elemento necessario. Solo con l’ingresso al liceo ho cominciato a percepire il denaro come misura del valore, il discrimine che segnava differenze profonde. Erano gli anni Ottanta, la società italiana virava sempre più verso un modello individualista e performativo, in cui la ricchezza visibile diventava un parametro del valore delle persone e delle famiglie. Pativo una viva contraddizione: da un lato, la vergogna per le mie origini e per ciò che consideravo un “mancare” rispetto agli altri; dall’altro, una ribellione profonda verso ciò che mi sembrava un’ingiustizia sociale.
Non mi dilungo sulla mia storia, ma riconosco in questa storia un tratto comune a molte. L’educazione che ho ricevuto, il non parlare dei soldi, aveva il preciso scopo di insegnarmi una serie di dettami morali: i soldi sono legati al lavoro che si fa, ed è il lavoro che ti rende libera, non il denaro; i soldi non si sprecano, ma sempre si deve aiutare chi ha bisogno; dei soldi non si parla perché sono un mezzo, qualcosa che serve, ma che non ha valore in sé. Anzi, il denaro veniva dipinto come qualcosa di “basso”, quasi sporco, da tenere ai margini delle conversazioni e delle relazioni.
Questo silenzio ha avuto conseguenze. Ancora oggi non mi pongo problemi a dare denaro, a condividerlo, ma mi riesce enormemente difficile chiedere ciò che mi è dovuto. È un’attitudine che sappiamo essere tipica di molte donne, radicata in un’educazione che lega il valore personale al sacrificio. E così c’è dentro di me un misto di forza e limite: conosco e sono parti di me l’indipendenza e la solidarietà, ma il mio rapporto con il denaro è anche legato a una sorta di colpa non detta, a una resistenza implicita nell’affermare il mio diritto al giusto compenso.
Il silenzio sul denaro è il riflesso di una cultura che ha relegato le donne alla marginalità economica, privandole non solo di risorse, ma di un linguaggio per parlare del loro rapporto con il denaro.
Questa ambivalenza verso il denaro non è solo personale: è il riflesso di un ordine simbolico e parlarne, come facciamo in questo numero, è un primo passo per riprenderci il desiderio di esserci anche in questa dimensione della vita.
Durante la preparazione di questo numero con la redazione ristretta, è emersa con chiarezza una frattura generazionale che attraversa il rapporto con il denaro. Io sono in una sorta di terra di mezzo, e vedo chi mi precede e chi viene dopo di me in modo che probabilmente giudicherete cinico. Da una parte, le donne delle generazioni più grandi, che potrei definire utopiste; dall’altra, le generazioni più giovani, spesso caratterizzate da un individualismo nato dalla necessità.
Le utopiste, a cui appartengono molte donne che mi hanno preceduta, portano avanti una visione che affonda le radici nelle pratiche femministe delle origini, fatta di comunità solidali e reti di scambio che sopperiscono alle carenze del sistema economico e sociale. È una prospettiva affascinante, che ha contribuito a costruire un immaginario alternativo al capitalismo, ma che oggi, in un contesto di mercati globalizzati e individualismo esasperato, rischia di sembrare una favola fuori dal mondo. La solidarietà è senza dubbio un valore irrinunciabile, ma può bastare da sola a rispondere a un sistema che lascia sempre più persone ai margini?
Dall’altro lato, vedo le generazioni più giovani costrette a navigare in un panorama socioeconomico che non offre scampo. Sono le individualiste per necessità, che si arrabattano in un sistema che non garantisce sicurezza né prospettive a lungo termine. Sono cresciute con il principio che la libertà si gioca nell’autonomia individuale, ma questa autonomia spesso si traduce in un adattamento a condizioni di precarietà cronica. Perciò il consumo diventa un linguaggio ambiguo: da un lato, un modo per affermare la propria identità; dall’altro, una risposta edonistica a un senso di esclusione sistemica. Non posso permettermi una casa, allora mi compro uno smartphone da mille euro. È un comportamento che a uno sguardo superficiale potrebbe sembrare irrazionale, ma che, in realtà, risponde a una logica: se non posso costruire un futuro, almeno mi concedo un piacere immediato.
Qui non c’è in ballo solo una questione generazionale, ma si tratta del riflesso di un cambiamento epocale nel rapporto tra donne e denaro. Le donne più grandi, cresciute in un contesto che permetteva di immaginare alternative collettive, hanno costruito una critica radicale al capitalismo, mostrando i limiti del denaro come misura universale. Le più giovani, invece, vivono in un contesto in cui le possibilità di costruire alternative sembrano ridotte all’osso, e dove il denaro non è più solo un mezzo, ma una fonte di frustrazione e conflitto interiore.
La sfida non è negare l’importanza della solidarietà né condannare l’individualismo delle più giovani, ma riconoscere che entrambe nascono da un confronto reale con il sistema economico in cui viviamo. Il punto non è scegliere tra utopia e necessità, ma trovare un modo per intrecciare queste due dimensioni, costruendo spazi in cui il denaro torni a essere uno strumento al servizio delle relazioni e non il loro limite. Un femminismo che vuole vivere nel nostro tempo deve saper tenere insieme la critica al sistema con le pratiche che rispondono alle sue contraddizioni.
Niente moralismo o predica edificante, sia chiaro. Il fatto è che un conflitto obbliga ciascuna a confrontarsi con la propria esperienza e il proprio passato, se il conflitto è generazionale il dialogo tocca il nesso tra quello che siamo oggi e quello che eravamo allora. La relazione che anche oggi, qui, mettiamo in gioco riattiva in ciascuna di noi la giovinezza, e contemporaneamente pone un’alterità che evidenzia il cambiamento, personale e sociale insieme. È un modo, mi auguro, di affrontare un mondo in costante e rapido mutamento, dove le più giovani, nel loro modo di interpretare il cambiamento, diventano una mediazione per continuare a pensare.
Riporto un brano significativo dal saggio di Giannina Longobardi pubblicato nel libro collettaneo La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro: «Il pensiero e la pratica di relazione delle donne ci hanno permesso di non pensare la nostra libertà come subordinata all’accesso diretto al mercato, e di attribuire valore simbolico a scambi personali nei quali si gioca qualche cosa che non è denaro. Sono state delle donne che ci hanno insegnato a vedere la disparità nello scambio, la non equivalenza delle posizioni nella contrattazione e lo squilibrio che è insito nella maggior parte delle relazioni per noi vitali.
Inoltre, mentre pare presente nell’agire maschile la presunzione che tutto abbia un prezzo e sia dunque acquistabile, le donne sanno che ciò che è più prezioso non si vende, si gioca in scambi che non hanno nella moneta la loro misura. C’è nella differenza femminile una forma di resistenza dell’umano al capitale. Le relazioni familiari, come le relazioni d’amicizia, come quelle d’amore e come quelle politiche, si basano su una forma di scambio che la logica mercantile tende a negare e a distruggere. Pure queste relazioni non solo resistono, ma in esse sta quasi sempre la parte più importante della nostra vita. Sono le relazioni in cui ci giochiamo personalmente, in cui diamo noi stesse, e nelle quali le persone contano per noi per la loro unicità. In queste relazioni scambiamo parole, attenzione, affetti, emozioni, ed anche beni: come cose, assistenza, ospitalità»2. Questo passaggio restituisce con lucidità uno dei guadagni del femminismo delle origini: l’apertura della possibilità di andare oltre la logica mercantile, illuminando la disparità insita nei rapporti di scambio e riconoscendo il valore incommensurabile di ciò che è umano: parole, cura, affetti, beni condivisi in una dimensione che eccede la misura dei soldi. È un pensiero che ha aperto una strada fertile, percorsa da molte voci che ne hanno approfondito le implicazioni. Pensiamo ai lavori di Ina Praetorius, al convegno La vita alla radice dell’economia3, dove si sposta il focus dall’economia come produzione di profitto all’economia come cura della vita, che si radica nell’attenzione, nell’interdipendenza, nella capacità di rispondere ai bisogni reciproci senza tradurli necessariamente in transazioni equivalenti.
Queste riflessioni sono importanti anche oggi, in un’epoca in cui la logica capitalistica sembra voler assorbire ogni aspetto dell’esistenza. L’idea politica che ci siano relazioni resistenti al capitale, che non si possano ridurre a calcolo o a prezzo, è pensiero critico e insieme possibilità di lotta per il cambiamento.
E però. Nel 2009 Vita Cosentino scriveva: «Qui in Italia ci sono (ancora per quanto?) dei meccanismi di redistribuzione che funzionano e sono per tutti. Nel mio caso, nel giro di qualche ora ero ricoverata nell’ospedale di Borgo Trento, in un reparto all’avanguardia in Europa, sottoposta a cure tempestive che hanno limitato il danno, ben assistita giorno e notte. Non ho mai pagato un ticket o quant’altro»4. Fino a quindici anni fa il sistema sanitario pubblico italiano funzionava e c’erano dei meccanismi di redistribuzione che garantivano a tutti un accesso equo ai servizi essenziali. Dal 2010 al 2019, il SSN ha subito tagli cumulativi di circa 37 miliardi di euro, influenzando negativamente la qualità e l’accessibilità dei servizi sanitari. Durante la pandemia, l’aumento del finanziamento è stato assorbito dai costi della gestione Covid-195. Secondo il rapporto della Ragioneria Generale dello Stato, nel 2022 la spesa sanitaria pubblica in Italia ha raggiunto i 129,2 miliardi di euro, con un incremento rispetto all’anno precedente (127 miliardi). Parallelamente, la spesa sanitaria privata, sostenuta direttamente dalle famiglie (la chiamano tecnicamente out-of-pocket), ha superato i 40 miliardi di euro, mettendo quindi in luce un crescente aumento della spesa privata, che indica una crescente dipendenza dalle risorse familiari per l’accesso alle cure6. Nel 2022, il 76,3% della spesa sanitaria totale in Italia è stata coperta dal settore pubblico, una leggera diminuzione rispetto all’anno precedente. Il restante 23,7% è stato finanziato privatamente7.
Oltre ai tagli sistematici ai finanziamenti, la carenza di personale e un sovraccarico strutturale hanno reso i servizi sempre meno accessibili e sempre più inadeguati a rispondere alle necessità delle persone. Tutte abbiamo esperienza di liste d’attesa insostenibili al punto da spingere chi può a ricorrere al settore privato. Per chi non può, l’unica alternativa è rinunciare alle cure.
L’esempio emblematico della sanità mostra le diseguaglianze sempre più in crescita che producono un senso di insicurezza sociale. L’idea di una rete di protezione collettiva, che offriva stabilità e coesione, è stata sostituita da un individualismo che alimenta il disgregarsi del tessuto sociale. In assenza di fiducia, le persone si trovano sempre più sole nel fronteggiare rischi e difficoltà, in un contesto dove la solidarietà istituzionale sembra svanita.
Questa trasformazione non è solo una questione economica, ma profondamente politica perché riguarda la struttura del contratto sociale.
Oggi c’è un grande senso di solitudine nei ragazzi e nelle ragazze, ce l’hanno raccontato direttamente le amiche giovani della redazione ristretta, spiegandoci che è alimentato anche dall’iperconnessione digitale, in cui si perde il senso di appartenenza a un mondo condiviso. Il bisogno di relazione spesso si ferma al livello virtuale, che abbonda di community, che lancia tendenze, che spinge a condividere contenuti e mettere in scena diverse versione di sé stessi. Il paradosso: virtualmente connessi senza soluzione di continuità, molti restano irrelati, incapaci di costruire legami autentici; vicini virtualmente (tramite like, chat, condivisioni), distanti da un punto di vista relazionale. Vediamo anche il bisogno di trovare figure di riferimento, relazioni concrete, scambio, come appunto è successo a noi della redazione di Via Dogana 3.
Ma è in questo sistema disgregato, che tende a monetizzare sempre più aspetti della vita, che affiora quello che prima chiamavo effimero edonismo. Perché il denaro rischia di entrare anche in spazi che dovrebbero esserne liberi, come l’amicizia, l’amore o la solidarietà. Questo fenomeno non misura direttamente il valore delle relazioni, ma influenza come le relazioni si formano e si mantengono, e le nostre amiche più giovani ci potranno illuminare su questi aspetti.
Come abbiamo scritto nell’invito a questa giornata, la sfida è come guardare al denaro e alle regole che impone in modo libero e creativo.
- Gertrude Stein, Sono soldi i soldi? Scritti americani, trad. Rosella Bernascone, Vanda Edizioni, 2024 ↩︎
- “Sono soldi i soldi?” in AAVV, La rivoluzione inattesa. Donne al mercato del lavoro, Pratiche Editrice, Milano 1997 ↩︎
- La vita alla radice dell’economia, a cura di Cosentino Vita, Longobardi Giannina, Libera Università dell’Incontro, 2008. La pubblicazione può essere acquistata alla Libreria delle donne di Milano ↩︎
- Tratto dall’intervento al Seminario di Diotima Alleanze e conflitti nel mondo comune di donne e uomini – Università di Verona – incontro del 20 novembre 2009: Giannina Longobardi e Vita Cosentino, “Nulla” è la forza che rinnova il mondo. ↩︎
- https://www.tpi.it/cronaca/crisi-sanita-ssn-al-capolinea-numeri-e-dati-202311041051184/ ↩︎
- https://www.quotidianosanita.it/governo-e-parlamento/articolo.php?articolo_id=119152/ ↩︎
- https://www.milanofinanza.it/news/sanita-l-italia-sotto-la-media-ue-spendiamo-solo-il-6-7-del-pil-202407221545292229/ ↩︎
NOTA:
Nella preparazione di questo numero, ci siamo rese conto di quanto il tema dei soldi sia oggi centrale e affrontato da molte prospettive. Un contributo prezioso è il libro di Annalisa Monfreda Quali soldi fanno la felicità?, disponibile in Libreria, che esplora il rapporto tra denaro e felicità con uno sguardo attento alle donne. Annalisa Monfreda affronta temi fondamentali come il tabù del denaro, di cui anch’io scrivo nel mio intervento: il denaro è spesso evitato, considerato quasi immorale, e questo silenzio ha conseguenze profonde sulla vita personale e professionale delle donne. Il libro approfondisce inoltre come le esperienze familiari influenzino le scelte finanziarie e la percezione del proprio valore, toccando anche la disparità salariale di genere. Ancora, Annalisa Monfreda attraverso il suo podcast Rame raccoglie testimonianze sulle emozioni negative legate a guadagni, perdite e scelte economiche, evidenziando l’isolamento che queste situazioni possono creare. La sua proposta è chiara e urgente: parlare apertamente di denaro per ridurne il potere sulle nostre vite, promuovere una maggiore felicità e avviare un cambiamento profondo nel sistema economico.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Sono soldi i soldi?, 1 dicembre 2024
Il Progetto Vestales è una piattaforma di archiviazione, critica e diffusione dell’arte realizzata da donne colombiane. È iniziato come un progetto collettivo femminile nel 2021; nel tempo alcune artiste o sono migrate in altri paesi o per impegni lavorativi non hanno più continuato a farne parte.
Ho maturato questa idea nel mezzo dell’isolamento e del silenzio della pandemia, mentre stavo elaborando la fine della relazione con un partner, che aveva occupato quasi tutti gli anni dei miei studi universitari in Arti plastiche. Questa rottura ha segnato anche la mia definitiva separazione da una visione maschile del mondo.
Quando ho posto fine a questo legame, tutte le strutture su cui avevo costruito l’immagine di me sono crollate e ho dovuto affrontare la ricostruzione dalla mia prospettiva, con una visione femminile. In quel momento, ho sentito come se fosse la fine della mia vita, poiché l’accademia e la cultura maschile avevano danneggiato profondamente la percezione di me stessa come artista e come donna. Mi sono immersa in una profonda oscurità, sentendomi cieca. Mi muovevo intuitivamente alla ricerca di qualche luce che mi mostrasse la strada per ricostruirmi e riconoscermi nello specchio. È stato come un fulmine divino che ha colpito la mia testa, con l’idea che per capirmi avrei avuto bisogno di vedermi riflessa in altre donne: comprendere come si sentissero e quale posto occupassero in questa vocazione artistica. Ho usato i social media per trovare donne di diverse parti della Colombia e ho iniziato a instaurare conversazioni online con loro. È stata da una di queste conversazioni che è nata l’idea di creare questo progetto. Inizialmente eravamo sei donne, ma i diversi percorsi che ognuna ha intrapreso nella vita, hanno fatto sì che rimanessimo solo in quattro a lavorare al progetto per quasi un anno.
Quando mi sono trasferita in Spagna, insieme abbiamo cercato di continuare a generare contenuti, ma il fuso orario e il fatto che altre compagne si fossero trasferite hanno portato alla sospensione del progetto. Vestales è stato inattivo per quasi otto mesi. Ero occupata a cercare una stabilità in questo nuovo paese, risolvendo questioni burocratiche, di lavoro con tutti gli ostacoli che si affrontano quando si emigra. Pensavo che il progetto fosse giunto al termine, poiché ero emotivamente esausta e non mi sentivo in grado di farlo risorgere senza aiuto. Pian piano, nella quotidianità e nell’urgenza di trovare stabilità, ho iniziato a svolgere lavori che avevano poco a che fare con la mia vocazione e che, come molti lavori in questo sistema economico, hanno assorbito il mio tempo e mi hanno isolato…
Questa situazione che mi impediva di avere spazio per riflettere su me stessa, e di connettermi con altre persone, minacciava di farmi ammalare; quindi ho deciso di aggrapparmi nuovamente a Vestales e, con l’energia che mi rimaneva in quel momento, di farlo rivivere.
Nel Progetto Vestales invito le artiste a conversare con me su di loro, sui loro processi creativi e su qualsiasi argomento correlato. Le conversazioni vengono registrate e presentate sotto forma di podcast su diverse piattaforme digitali come Spotify o YouTube. L’idea è che queste conversazioni fluiscano organicamente, creando un’atmosfera intima con ciascuna delle mie ospiti, molte delle quali non conosco di persona e per le quali questo è il nostro primo contatto. L’invito è aperto, sono le donne interessate che si avvicinano per partecipare al progetto, infatti mi interessa che sia uno spazio completamente volontario. La maggior parte di loro appartiene alla mia stessa generazione, il che facilita l’empatia, anche se l’età non è un fattore limitante. Spero anzi che in futuro partecipino donne di diverse fasce d’età.
Ogni episodio ruota attorno a tre assi principali: memoria, canzone e riferimento. Nel primo, le ospiti condividono ricordi che hanno influenzato la loro decisione di dedicarsi all’arte, discutendo la loro esperienza dentro e fuori dall’accademia, nonché le forme alternative di sentirsi libere facendo arte. Nella seconda parte, ogni ospite sceglie una canzone che rappresenta il suo immaginario e la sua opera, condividendo le sensazioni che evoca. Queste canzoni vengono aggiunte a una playlist che si arricchisce ad ogni nuova partecipante. Nella terza parte, le ospiti presentano un riferimento femminile che ha influenzato il loro lavoro, contribuendo così alla costruzione di un archivio che mette in evidenza artiste e promuove la costruzione di una genealogia femminile nell’arte.
Il Progetto Vestales si è trasformato nel legame che mi collega alle donne del mio paese, fornendomi il sostegno emotivo necessario per mantenere la mia salute durante questo viaggio turbolento di migrazione e adattamento a un’altra cultura. La voce delle altre donne è diventata un costante promemoria di ciò che dà senso alla mia vita. Con le parole di ciascuna delle mie ospiti si aprono nuove possibilità per comprendere me stessa come artista. Le donne e le loro voci sono diventate il vero luogo a cui appartengo, al di là di una patria o di una nazione.
Ho scoperto che il Progetto Vestales è un invito per altre donne ad alimentare il fuoco che ci mantiene vive e complete. Il fuoco della creatività che arde nelle viscere di ciascuna di noi, ma che è alimentato dalla relazione e dall’impegno delle altre.
Il progetto è disponibile su diverse piattaforme di podcast, come Spotify, Ivoox, Apple Podcasts e Google Podcasts, con il nome “Vestales: Conversaciones sobre arte”. Inoltre, gli episodi possono essere ascoltati sul canale YouTube del progetto, chiamato “Proyecto Vestales”. Sul profilo Instagram, @somovestales, pubblico costantemente informazioni sulle donne che invito, e incoraggio altre a far parte del progetto. È di fondamentale importanza per me che la partecipazione sia completamente volontaria e che avvenga nei ritmi che ogni artista ritiene necessari; per questo, sono sempre aperta a ricevere proposte per la creazione di nuovi episodi.
Link del progetto:
- Spotify: https://open.spotify.com/show/7DvVX07sRexE3gAgG6yCih
- Ivoox: https://www.ivoox.com/perfil-vestales_a8_listener_26166740_1.html
- Apple Podcasts: https://podcasts.apple.com/il/podcast/vestales-conversaciones-sobre-arte/id1563559361
- Google Podcasts: https://podcasts.google.com/feed/aHR0cHM6Ly9hbmNob3IuZm0vcy81NzFjZGVhOC9wb2RjYXN0L3Jzcw?hl=es
- Canale YouTube: https://www.youtube.com/channel/UCC9a5HUZzb6t4Bjb9jbcwQw
- Profilo Instagram: https://www.instagram.com/somosvestales/
Su di me:
Sono nata e cresciuta a Bogotá, capitale della Colombia. Nella stessa città ho studiato per cinque anni Belle Arti presso l’Università Jorge Tadeo Lozano. Dal 2021 vivo a Barcellona, dove ho conseguito un master in Commissariato d’Arte Digitale presso Esdi, centro affiliato all’Università Ramon Llull. Quest’anno ho ottenuto una borsa di studio per frequentare il master in Politiche delle Donne presso DUODA, presso l’Universitat de Barcelona. In questo master, ho avuto la fortuna di seguire il corso di Politica Visiva con Laura Mercader Amigó, che mi ha aiutato ad arricchire la mia prospettiva sulla pratica artistica e a comprenderla dall’ottica della differenza sessuale.
Domenica 1 dicembre 2024, 10:30-13:00
Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano
Il rapporto tra le donne e il denaro è difficile, storicamente segnato da un tabù: il denaro è ciò di cui non si parla e sovente è stato lasciato nelle mani degli uomini. Luce Irigaray riflette sul denaro nel saggio “Le donne, il sacro e il denaro” mettendo in evidenza lo squilibrio insito nelle nostre società, essendo misconosciute, gratuite o sottopagate infrastrutture portanti come il lavoro delle donne e quello intellettuale. Le femministe delle origini hanno risposto creando un “mondo comune delle donne”, ovvero dando vita a una nuova socialità femminile fatta di sistemi di scambi in cui circolasse denaro e tanti altri beni di valore come tempo, relazioni, passioni condivise.
Oggi lo squilibrio è ancora più accentuato e crescono le disuguaglianze. La nostra è una società della prestazione, segnata da individualismo e godimento immediato. La misura del valore spesso passa dal successo economico e il denaro può diventare simbolo di valore personale, soprattutto per le giovani donne che subiscono una doppia pressione contrastante: dimostrare di essere all’altezza di standard storicamente maschili, e conformarsi ad aspettative sociali di cura. All’impoverimento del tempo per sé corrisponde un consumo compulsivo come risposta a una sensazione di vuoto o insoddisfazione. Per converso è sempre più in crescita il numero delle donne che lasciano lavori ottimamente retribuiti per dare un’altra direzione di senso alla loro vita.
Tornare a riflettere sul rapporto con il denaro porta a domandarci:
Quali motivazioni e desideri profondi orientano le nostre scelte?
Quanto denaro è abbastanza?
Come guardare al denaro e alle regole che impone in modo libero e creativo?
Introducono la discussione Laura Colombo, Linda Marana, Daniela Santoro.
Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza.
Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.
È possibile anche il collegamento su Zoom, sempre su prenotazione.
Domenica 6 ottobre 2024, ore 10.30-13.00
Libreria delle donne, via Pietro Calvi, 29 – Milano
Più di cinquant’anni anni sono passati da quando Carla Lonzi ha messo in luce l’intrinseca relazionalità delle pratiche artistiche e ha criticato la figura dell’artista concepito come unico depositario della creatività. Inoltre il fare arte per lei ha lo scopo di «arricchire il vivere insieme» e a partire da questo ha dilatato l’ambito artistico fino a comprendere anche «una frase trovata», «una serata riuscita». Da allora le pratiche artistiche relazionali elaborate dal femminismo si sono diffuse ben al di là dei contesti della politica delle donne, dando vita a nuovi significati e nuove dimensioni. L’entrata prepotente di artiste e curatrici nei luoghi dell’arte e della cultura a partire dagli anni Settanta ha contribuito a nutrire nuove pratiche fondate sul dialogo e sulla relazione, in risposta ai nuovi desideri ed esigenze di ripensare non solo la dimensione artistica, ma anche il rapporto vita-lavoro e l’equilibrio tra soggettività e alterità.
Come oggi le pratiche artistiche possono arricchire il vivere insieme?
Come le pratiche femministe possono potenziare quelle artistiche, e viceversa?
Come il «fatto creativo» interessa le nostre vite?
Ne discutiamo con Giorgia Basch e Donatella Franchi
Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza.
Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it.
È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.
Appuntamento: domenica 6 ottobre 2024 ore 10.30 presso la Libreria delle donne,
via Pietro Calvi 29, Milano, tel. 02 70006265.
Immagine del fotografo Guido Piacentini, per gentile concessione dell’artista.
Da La Stampa – Per quanto la maggioranza dei maschi di sesso maschile si ingegni ad apparire in primo piano nelle cronache, non riuscirà più a strappare il protagonismo alle donne. Da leader, da uccise-una-al-giorno, da bottino di guerra, da campionesse sportive, da pensatrici, da scienziate, da affaccendate nella cura, da premier, da combattenti rivoluzionarie… saremo sulla scena della storia da protagoniste, nel bene e nel male. Esistono, certo, quelle che considero la vergogna del mio sesso, ci sono sempre state e stanno aumentando, da collaboratrici all’ingiustizia e alla violenza attraverso l’avidità di potere, da invidiose, da puntelli del patriarcato, da femministe di Stato, come chiamano le femministe radicali tedesche le donne che fanno il gioco del governo di turno. Ma questo lo posso dire e scrivere io e altre come me, che si affannano da decenni a mostrare l’esistenza operativa della differenza di chi, tra le donne, si assume storicamente le conquiste della rivoluzione femminista nel mondo. Non è in alcun modo accettabile, invece, il revanscismo misogino di un noto giornalista –per fare un recente esempio – che sembra felice di titolare un pezzullo Le tre macho (Venerdì di Repubblica, 5/7/24), riferendosi a Giorgia, a Marine Le Pen, a Marina Berlusconi. La soddisfazione con cui scrive che “la moderna donna italica (sic!) non persuade, ordina”, e che “fa suo l’archetipo maschile del comando assoluto” testimonia dell’imbarazzo e dell’ansia (italica?) con cui è vista l’avanzata inarrestabile delle donne, ovunque e in qualsiasi modo le muova il desiderio o la brama, o l’eccellenza. Oggi sarebbe più che mai doveroso guardare a occhi aperti e limpidi la vergogna o la differenza positiva del mio sesso. Prendiamo le elezioni francesi, sapendo che sono le donne in tutto il mondo a determinare l’esito delle competizioni elettorali. In Francia, sono state il 30% dei votanti al ballottaggio mentre prima erano “quasi assenti”. Significa, niente meno, che hanno determinato la vittoria dei progressisti. Poi, ci stiamo impegnando a ringraziare gli sforzi delle vittoriose Jasmine Paolini, di Paola Egonu, delle pallavoliste italiane, oscurate dai media alla sequela delle vittorie di Sinner, a senso unico. Intanto, suggerirei ai giornalisti di provare a notare l’impegno delle tante che hanno raggiunto il potere pubblico e sono rimaste non assoggettabili dalla seduzione maschile: Ada Colau a Barcellona, Sonia Gandhi, Elisabetta I e II, Rosy Bindi, Simone Veil, e centinaia di altre che fanno la differenza femminile nella storia. Sono l’onore del mio sesso. Ma perfino le tre definite “macho” sono differenti nella loro ambiguità anche se sono di frequente la vergogna del mio sesso, ma il giudizio di quando e di come lo sono, può essere espresso solo da chi vuole bene al mio sesso, e ne sa riconoscere anche l’eccellenza, quando c’è.
Dalla contraddizione dell’uguaglianza al “nostro strano potere”: abbiamo invitato Terranova a trascorrere un giorno con la filosofa per raccontarla
Cominciamo dalla fine. L’ultima cosa che Adriana Cavarero fa prima di salutarmi, dopo una giornata trascorsa insieme a parlare di femminismo, filosofia e narrazione, è portarmi nel suo studio, la stanza della sua casa veronese dove si ritira per scrivere. Proprio sopra la scrivania c’è una cornice con tre foto: in una c’è Hannah Arendt che fuma, in un’altra lei da giovane, la terza non si vede bene, è scivolata dietro le altre. Insieme la tiriamo fuori e scopriamo Adriana e la filosofa Judith Butler sedute su un muretto, la mano dell’una sulla spalla dell’altra, alla fine degli anni 90 a Berkeley, dopo qualche impegno universitario che le aveva viste insieme, uno dei molti. Cavarero indossa un cardigan a righe azzurre e viola, Butler una camicia scura. Non sono molto diverse da adesso le due filosofe, l’autrice di Nonostante Platone (Castelvecchi) e quella di Questione di genere (Laterza), spartiacque del pensiero femminista pubblicati parallelamente (il primo fu tradotto quasi subito in America) che hanno avvicinato due pensatrici straordinarie e spesso su posizioni diverse, se non opposte.
Mi piacerebbe sapere qualcosa in più del vostro dialogo, che non si è mai interrotto.
«Dialogo è una parola insufficiente, preferisco parlare di sforzo per capire il linguaggio dell’altra. Judith viene dallo strutturalismo postmoderno e io ho una formazione classica, non parliamo la stessa lingua madre, ma tra me e lei non è mai mancata la volontà di capirsi e di capire».
Uno sforzo che dovrebbe innervare sempre le discussioni fra donne. Per le femministe della mia generazione, la comunità filosofica femminile che ha creato a metà degli anni 80, Diotima, è rimasta un modello.
«Diotima è nata dall’incontro con Luisa Muraro, io ero una militante dell’uguaglianza, ma la posizione emancipazionista mi risultava insoddisfacente, mi rendevo conto che mi veniva chiesto di trasformarmi in un uomo e sentivo qualcosa che strideva. L’incontro con Muraro e con i testi di Luce Irigaray mi hanno permesso di esplorare la contraddizione dell’uguaglianza, rimettendola al suo posto di elemento strategico per la conquista della parità economica e dei diritti, per rivolgermi al più complesso pensiero della differenza sessuale».
In Tu che mi guardi, tu che mi racconti (Castelvecchi), scrive: “l’Uomo è contemporaneamente l’intera specie maschile e uno dei due generi. È neutro e maschile. È tutt’e due, nessuno dei due e uno dei due”. Trovo in queste righe uno sbocco per l’asfissia che provo nella guerra al femminile in perenne atto nella nostra lingua. Una guerra che mi sembra coincidere con l’occultamento fazioso della maternità.
«La propaganda sulla maternità pesa sulle donne attraverso molte forme: una, ricorrente, è l’idealizzazione della donna in carriera che molla tutto perché sente la vocazione di dover crescere i figli. Per non parlare del ricatto della natalità, come se partorire fosse un dovere sociale. Ma questo non può giustificare la censura, dobbiamo scappare dalle trappole senza dimenticare che siamo nate e nati tutti da un corpo femminile, perché solo un corpo femminile può partorire. È quello che Virginia Woolf chiamava “lo strano potere”, e rimane un potere anche se si sceglie legittimamente di non esercitarlo».
Oggi però molte femministe sembrano vedere solo la trappola, il limite. Credo serva più divulgazione approfondita, meno da slogan, per tenere la discussione sul materno su piani meno banalizzanti.
«In settembre uscirà per Mondadori un libro che ho scritto insieme a Olivia Guaraldo, Donna si nasce: gioca ovviamente con la famosa frase di Simone de Beauvoir secondo cui donne si diventa. Affrontiamo antiche e nuove questioni, è diretto a tutte e tutti, in particolare ai più giovani».
Non vedo l’ora. Nel frattempo, torno a Tu che mi guardi, tu che mi racconti: un libro chiave, non a caso Elena Ferrante ha scritto che per lei è stato uno spartiacque quando ha scelto il punto di vista dell’amica per raccontare la vita di un’altra.
«Hannah Arendt, che insieme a Platone e María Zambrano è la filosofa di cui più mi sono occupata, ha sostenuto che la Storia, quella con la maiuscola, non è che l’intreccio di molte storie. Io non sono una narratrice, ma la letteratura è una mia passione, mi è venuto naturale interessarmene, come è accaduto per la musica. Indagando la distinzione fra biografia e autobiografia, mi sono accorta della potenza che si sprigiona quando è l’altro a raccontare la tua storia, quando addirittura si arriva a chiedere: dimmi chi sono. Succede con la madre, che conosce di te un segmento che tu stesso non puoi ricordare, o con gli amanti, tra cui si stabilisce un rapporto di narrazione biografica reciproca».
Edipo e Ulisse sono i personaggi che lei porta come esempio perché ignari di una parte della propria storia e desiderosi di sentirla raccontare. È un caso che siano uomini?
«Le donne sono di solito grandi narratrici. Vede, noi due ci siamo viste poche ore fa e già a pranzo ci siamo raccontate dei momenti intimi della nostra storia personale. Gli uomini non hanno questa consuetudine, si scambiano interessi, opinioni, non narrazioni. Ovviamente parlo sempre di un maschile e femminile stereotipico, non di singole esperienze».
Anche se abbiamo parlato di femminismo e di letteratura, forse il libro che tutti dovrebbero leggere in questi tempi è quello in cui lei teorizza e dimostra l’oscenità della violenza, Orrorismo (Castelvecchi).
«Purtroppo, sì».
E non sappiamo più dove guardare, mentre le parole, cui entrambe abbiamo affidato la nostra vita, d’improvviso spariscono.
Alcune studentesse e studenti dell’Università di Verona come di altre università hanno chiesto ai docenti di dedicare le lezioni del 5 maggio 1999 alla riflessione sulla guerra nei Balcani; quello che segue è il testo del mio contributo.
Care studentesse, cari studenti, non ho cose risolutive da dirvi su quello che ci sta capitando. Che è una guerra, né più né meno. La stiamo facendo contro un paese che si chiama, ufficialmente, Repubblica federale di Jugoslavia, capitale Belgrado. Non è una guerra che loro fanno a noi, potrebbero anche provarci, ma tutti lo escludono, infatti l’Occidente ha inventato guerre unilaterali, che sono molto comode dal suo punto di vista, perché l’altro non è in condizione di rispondere. E noi facciamo parte dell’Occidente, sia pure un po’in bordo. Siamo dalla parte giusta, direbbe l’anziano filosofo torinese Norberto Bobbio.
Quello che ho da dire, ho deciso di dirlo in una lezione pubblica (ringrazio gli studenti che mi hanno dato questa idea) e ho chiesto al quotidiano il manifesto di pubblicarla. C’è bisogno di parole. I giornali, televisione compresa, sono pieni di discussioni sulla guerra, per fortuna, e io li leggo volentieri, ma le parole che mancano sono di un altro tipo. I giornali ragionano sulla guerra come se fosse una cosa sensata, più o meno giusta (o, secondo altri, più o meno sbagliata). Mancano le parole per quelli che sono rimasti di sasso, come me e come molti di voi. I soldi che prendo ogni mese li prendo da voi o da chi vi mantiene, li prendo dalle mie ex compagne di scuola elementare che, a undici anni, mentre io andavo alle medie, sono andate a fare marmellate da Boschetti, li prendo dagli operai che hanno costruito questo edificio dentro il quale voi studiate e io insegno. In cambio di che cosa? Di parole. Non parole che ci sono già. Le altre, per non restare sassi.
Nella mia vita è la seconda volta che l’Italia entra in guerra. La prima volta ero vecchia di due giorni, la guerra durò quasi cinque anni e i miei ricordi d’infanzia somigliano a quelli di un reduce. Credevo che la vita fosse fatta di bombardamenti, fosse anticarro, caccia che scendono in picchiata a mitragliare, dormire in cantina e sognare grandi mangiate di latte e pane.
Poi venne la pace e mi sono adattata. Poi, verso i dieci anni, mi portarono sull’Altipiano d’Asiago, dove ho fatto la conoscenza della Prima guerra mondiale. A distanza di quanti anni, trenta, l’Altipiano era ancora coperto di cicatrici e di reliquie. Diventarono i nostri giocattoli. Non ho ricordi orribili, perché sono stata protetta dall’infanzia e da mia madre. Però conosco la guerra: l’ho vissuta, l’ho guardata, l’ho toccata, me l’hanno raccontata.
Conosco un po’ anche la storia dell’Italia e sono arrivata alla conclusione che noi non possiamo più andare in giro a fare guerre. Invece sui giornali è scritto che sì, ne stiamo facendo una, lo dicono con parole contorte, che però equivalgono. Ma non riesco a convincermi. Agli inizi, ogni mattina leggevo i giornali sperando d’aver capito male. Adesso, sperando di leggervi la parola fine. Quando, nel 1992, cominciarono ad arrivare notizie terribili dalla Bosnia, io, aiutandomi con la mia ignoranza della geografia, cominciai a spingere la Bosnia distante dall’Italia, verso oriente, credo d’averla mandata in Asia, quasi in Mongolia. Questa volta il gioco non mi riesce, la geografia dei Balcani l’ho imparata, ma non mi abituerò all’idea.
Mai avrei creduto, e fino a due mesi fa in Italia nessuno, ne sono certa, ha pensato che la Nato ci avrebbe portato a fare la guerra nei Balcani. Proprio lì da dove è partita la Prima guerra mondiale, che si è tirata dietro sciagure immani, il nazismo, lo sterminio degli ebrei e degli zingari, la Seconda guerra mondiale. Chissà se negli Usa conoscono la storia dei Balcani… I professori d’università sì, gli altri mi chiedo, perché negli Usa fuori dalle università la cultura libresca circola molto poco, meno che da noi.
La peggiore ipotesi che potevo fare sull’Italia era l’introduzione della pena di morte. L’ho sempre escluso, sia chiaro, e continuo, però mi è capitato una volta di pensare: se dovesse succedere, emigrerò, non potrei vivere in un paese che ha la pena di morte. Adesso di colpo mi trovo a vivere in un paese che fa la guerra, è incredibile. Stiamo uccidendo i nostri vicini che non ci hanno fatto niente, stiamo distruggendo le loro case, le loro fabbriche, gli stiamo portando via il sonno, il lavoro, il combustibile, la salute, la vita. Le ragioni che ci hanno dato di questa guerra non stanno in piedi. Non si può aiutare degli innocenti ammazzando altri innocenti, così non si fa che moltiplicare il male. Forse ci aumenteranno le tasse per finanziare la guerra. Ho letto su un giornale: ci rifaremo con la ricostruzione. Ma non ci rifaremo della nostra disumanità.
Molti, per non disperarsi, si aggrappano all’intervento umanitario: dovevamo pure fare qualcosa per gli abitanti del Kosovo. Certo che dovevamo, per esempio non dovevamo fare i furbi quando la ex Jugoslavia è entrata in crisi; per esempio dovevamo proporre, come Europa, un piano di aiuti economici razionali e disinteressati; per esempio, non dovevamo dare soldi e pubblicità a giovanotti in cerca di avventure, e dare invece tutto il sostegno possibile agli oppositori politici più responsabili…
La notte, quando mi sveglio, preparo un discorso per spiegare agli alleati della Nato che l’Italia non può starci. Ma ci siamo già… Lo so, ma di notte posso ancora credere che no, senza contare che il discorso potrebbe tornar buono, chissà, per il nostro prossimo otto settembre.
Eccolo, anzi eccoli, perché ne ho preparati più d’uno: «Cari alleati, noi non ce la sentiamo di intervenire contro la Serbia perché noi che siamo suoi vicini, anzi un po’ congiunti, sappiamo che la penisola balcanica è un mosaico unico al mondo di popoli e di culture, che ogni tanto esplode e quando esplode bisogna assisterli con pazienza e sapienza perché le tessere si rimettano insieme. Bisogna ascoltare tutti e non mettersi con nessuno contro nessuno, e non pensare di avere noi la soluzione del conflitto perché soltanto loro sono in grado di ritrovare il delicato disegno della loro convivenza, lo hanno già fatto in passato, si sono insaccati in quella penisola da secoli e secoli e in tanti secoli di non facile convivenza hanno imparato il suo segreto anche se ogni tanto se lo dimenticano. È come eseguire una musica difficile. Se proprio vogliamo contribuire, diamo soldi, non è la soluzione, ma è sempre meglio delle bombe».
Secondo discorso: «A parte il fatto che la nostra Costituzione ci vieta espressamente di fare guerre che non siano di difesa, a parte il fatto che con voi abbiamo firmato un’alleanza a scopi difensivi soltanto e non risulta che la Jugoslavia abbia aggredito nessuno di noi, tenete conto che la nostra capitale, Roma, è anche la capitale del mondo cattolico e il Papa non è d’accordo con le guerre in genere e soprattutto con questa. È vero che non siamo tutti veramente cattolici e molte prendono la pillola anticoncezionale, molti usano il preservativo, divorziano, bestemmiano, sono gay ecc., tutte cose che al Papa non piacciono. Ma la guerra è un’altra faccenda e al Papa diamo ragione, ce l’ha! Voi, inoltre, vi state dimenticando che l’anno prossimo abbiamo il giubileo. Non dite che l’anno prossimo sarà finita, perché delle guerre si sa quando cominciano ma non quando finiscono. E poi, finisse pure tra una settimana, che sarebbe già troppo in là, noi dobbiamo prepararci fin d’ora, anzi siamo in ritardo. Come possiamo pensare alla guerra dovendo prepararci spiritualmente? E fare fronte all’invasione dei pellegrini? Rischiamo un caos spaventoso, nei lavori pubblici come nelle nostre anime».
Avrei concepito un altro discorso ancora, è il più forte, ma ho idea che a D’Alema non piacerebbe pronunciarlo. Ve lo dico: «Cari alleati, lasciateci fuori dalle guerre, non siamo adatti perché le nostre mamme ci hanno educati a dare bacini all’avversario. Appena si cominciava una baruffa, subito intervenivano le mamme a dividerci e poi “bacino, bacino”. Lo chiamano mammismo, ma è una civiltà anche questa. Giudicatela come vi pare ma siete avvisati che noi, dopo un po’, vogliamo dare bacini all’avversario».
Tu hai voglia di scherzare, mi dite. Sì, moltissima, respingo la retorica dell’“atroce guerra” che risuona in bocca di quelli che la guerra l’hanno decisa. Ma forse non è retorica, forse i nostri governanti non hanno deciso niente. Infatti, ripetono che era una scelta obbligata. A rigore, dunque, una non scelta. Se fosse così, dobbiamo tirare le conseguenze: altri hanno deciso per noi, ci hanno obbligati, forse siamo dalla parte della punta della spada (la parte sbagliata, direbbe Bobbio) e non dalla parte dell’impugnatura. Io questo non lo so, non sono in condizione di saperlo, né voi, del resto. Mi viene in mente un verso dei Sepolcri di Foscolo a proposito del potere politico: «…di che lagrime grondi e di che sangue».
O: di che sperma. Non è una parolaccia. Me l’ha suggerita quel film che s’intitola Sesso e potere dove si racconta di un presidente degli Usa il cui staff s’inventa una guerra (Sapete dove? In Albania, cioè un posto sconosciuto agli americani) per distogliere l’attenzione dell’opinione pubblica da uno scandalo sessuale del presidente. Storia inventata prima che venisse fuori quella di Clinton con l’ormai famosa staggera Monica Lewinski. Nel cinema gli americani sono geniali. Va detto, però, che tra la pellicola e la realtà c’è una differenza tutt’altro che secondaria. Nella realtà, tutti i tentativi per coprire lo scandalo sono falliti e il presidente Clinton è stato messo alla gogna, in una maniera indecente, alla lettera, con tutti quei particolari, e per noi in Europa inaccettabile, ma non altrettanto negli Usa, la cui classe al potere ha una cultura, nel suo fondo, dura e bigotta. Basta leggere il bellissimo romanzo La lettera scarlatta di Hawthorne (1850). Solo che una volta la condanna del sesso libero ricadeva sulla donna mentre ora, in seguito al femminismo, può ricadere anche sull’uomo. Falliti i tentativi di coprire lo scandalo, il presidente Clinton ha salvato il potere riconoscendosi colpevole. E ora si sta rifacendo dell’umiliazione patita facendo una guerra giusta (che è peggio di una guerra finta, perché l’inganno non è esteriore ma interiore).
Per rendervi conto di quello che dico, guardate le foto del presidente Clinton in mezzo agli altri capi politici della Nato che festeggia i cinquant’anni a Washington, il 24 aprile scorso. Alto, pimpante, con il braccio destro alzato, sorridente. Si vede che si sta rifacendo della sua virilità messa alla gogna. Gli altri, tolto Solana, troppo onorato di essere in quella compagnia, hanno tutti l’aria di esibire una contentezza che non sentono.
Fra le distruzioni di questa guerra, quando dovremo fare i conti, prevedo che si dovrà mettere anche l’eredità del Sessantotto. La decisione di bombardare la Jugoslavia, infatti, è stata presa o sostenuta da uomini in gran parte di sinistra e provenienti dalle rivolte studentesche del famoso Sessantotto, da Clinton a D’Alema, passando per il segretario generale della Nato, Solana, e il ministro degli esteri tedesco, Fischer. La cosa che più mi urta, in questa faccenda, è che anche da noi gli intellettuali si siano messi a fingere, sui giornali e in televisione, una discussione sul bene e sul male, sulla guerra giusta e la guerra ingiusta, traendo in inganno le persone oneste e semplici, le quali persone possono credere che veramente l’intenzione di questa guerra fosse umanitaria e, soprattutto, che si possa giustificare una guerra con simili intenzioni.
In una celebre lettera del 1932, Perché la guerra?, quando ancora la Prima guerra mondiale era l’unica e non la prima di un elenco, lo scienziato Albert Einstein chiese a Freud se fosse possibile «dirigere l’evoluzione psichica degli uomini in modo che diventino più capaci di resistere alle psicosi dell’odio e della distruzione». Aggiunse subito che non stava tanto pensando alle «masse incolte». «La mia esperienza dimostra anzi che è proprio la cosiddetta “intellighenzia” a cedere per prima a queste rovinose suggestioni collettive, poiché l’intellettuale non ha contatto diretto con la realtà, ma la vive attraverso la sua forma riassuntiva più facile, quella della pagina stampata» (Freud, Opere 1930-1938, pag. 291).
Il contatto diretto con la realtà che dice Einstein, ce lo dà il nostro essere corpo. La realtà è corpo, sono corpi, non interamente certo, ci sono anche i minerali, stavo dicendo il sole, le stelle, la luna, ma sono corpi celesti e anche la società è corpo. E i corpi, quando si avvicina la guerra, tremano e sono in pena. Sanno che la guerra è fatta per distruggere, in un crescendo che non si saprà come fermare, tutto quello che piace ai corpi, come la casa, la tavola apparecchiata, il caffè, i vestiti, le fidanzate, i fidanzati, la luce, il tepore, l’amore. Perciò, io credo, il 24 marzo siamo rimasti di sasso, per passare nella realtà minerale, non essere più corpi, diventare tondi e insensibili. Le idee del bene e del male, mi dispiace per Platone, troppo spesso hanno ucciso e distrutto. Io vi consiglio di ascoltare piuttosto il vostro sentimento di corpi vivi, bisognosi, dipendenti, e ragionare di conseguenza.
Articolo uscito su “il manifesto”, 4 maggio 1999, e poi ripreso nel Quaderno di Via Dogana «Guerre che ho visto», di varie autrici, disponibile in Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano, info@libreriadelledonne.it
Chissà se era una provocazione quella dello scrittore Walter Siti quando ha dichiarato a Rivista Studio, in questi giorni, in riferimento al Premio Strega, che «[…] vincerà una donna, e sarà così per ancora due o tre anni, e poi finito un ciclo si tornerà a un regime normale». Certo è che ha sentito la necessità di aggiustare il tiro dopo che si è alzato il vento della polemica. «Viviamo in una società che accetta ancora la disparità di genere e mi è evidente la necessità di riportare l’attenzione sui libri scritti da scrittrici» ha aggiunto. «Il mio augurio è che nella società del futuro si possa tornare a concentrarci sull’opera letteraria indipendentemente dal genere, dall’orientamento sessuale o dall’etnia di chi l’ha scritta». L’idea che lo spazio (conquistato) delle donne sia una tendenza, una moda del momento, mi appare un’affermazione pericolosa che però riesce a farmi sorridere: una forma di esorcismo maschile verso la rivoluzione femminista, oramai inesorabile persino ai loro occhi, al punto che c’è bisogno di minimizzare, o fare dell’ironia. La seconda idea invece, che per superare la disparità di genere sia necessario il ritorno al neutro, mi fa sorridere e basta. Poi a smorzare il sorriso subentra una rabbia pacata. Una rabbia che immagino condivisa dalle donne che come me sanno bene che nel mondo contemporaneo e anche in quello del futuro l’opera letteraria delle donne, come ogni altra opera intellettuale o pratica, non è neutra affatto, come non è neutro il trattamento che ai lavori delle donne è stato riservato ed è ancora riservato in molti campi della cultura. E se gli effetti dell’atteggiamento discriminatorio nei confronti dell’opera creativa delle donne sono stati ampiamente denunciati, smontati, superati grazie all’impegno e all’ingegno del lavoro condiviso di donne di tutte le generazioni, e della cooperazione anche con gli uomini, rimane in buona parte ignorato nel dibattito odierno il peso del neutro (o per meglio dire del neutro-maschile) e dell’universale nelle generazione di opere creative, lo schiacciamento esercitato da questo costrutto moderno, figlio prediletto dell’Illuminismo, sulla soggettività femminile. Solo la creazione di un nuovo ordine simbolico, a partire da sé, ha permesso alle donne di pensare al di fuori dall’ordine patriarcale prestabilito, e di dare vita così a un linguaggio proprio, nuovo, vivo, vissuto, ardente, politico, sessuato. Prendendo in prestito un’espressione di Adriana Cavarero, «eliminando la parola donne si elimina il soggetto che ha davvero compiuto la rivoluzione»1. Anche parlare della vittoria delle donne come di un trend passeggero cancella la storia del femminismo, oltre che rinforzare la posizione neoliberista che il femminismo possa diventare l’ennesimo brand, operazione che sta sfociando in ideologia da più parti, consegnandoci sui media di ogni genere una versione semplificata, altamente digeribile oltre che politicizzata (per non dire strumentalizzata) del “femminismo” contemporaneo. Ma il punto non è solo la storia e la portata del femminismo, a cui dobbiamo riconoscere ed essere grate per il cambiamento sociale a cui assistiamo: è l’esistenza di una società femminile, a cui tutte le donne e tutti gli uomini partecipano attivamente. Nelle parole di Luisa Muraro, «prima della scelta femminista, c’è la risposta del fare società femminile, che resta sempre cosa buona, con o senza femminismo»2. Se a vincere lo Strega è una donna anche quest’anno (Donatella Di Pietrantonio con L’età fragile) lo dobbiamo anche, e soprattutto, all’esistenza di questa società, ed è questa la più grande rivoluzione. Se teniamo presente infatti che «la nostra civiltà si è sviluppata facendo mediazioni al neutro-maschile, come se le donne non esistessero per se stesse», come afferma sempre Muraro, è evidente che il futuro non sarà affatto riaffacciarci sul panorama uggioso del neutro, ma continuare a salpare verso rotte nuove e inesplorate, alla ricerca di parole che provengono da dentro di noi, che sono corpo e che in quanto corpo tracciano un cammino, lo segnano, lo animano. Sono parole che noi donne andiamo in giro scovando e che germogliano dall’interno quando incontriamo l’Altra e l’Altro, nella scintilla del dialogo, dello scontro, dello scambio, del corpo a corpo. Fare società femminile, e poi femminista, è anche questo, generare nella mediazione, saper confliggere, e imparare da questo processo. Inanellando parola dopo parola, corpo dopo corpo, ne sta giovando oggi anche il panorama letterario, che non sempre coincide però con quello intellettuale, e su questo dovremmo ancora lavorare facendo uno sforzo in più nel creare confronti e spazi di conversazione. Vedo nella possibilità di un confronto con autori come Siti, tuttavia, nella sopita città di Milano, un’opportunità di moltiplicazione del senso libero del partire da sé nell’incontro con l’alterità della soggettività altrui. Perché il contrasto, non inteso come ostacolo ma come componimento, è un qualcosa da tenere vivo, tantopiù in un mondo in cui espressioni come “disparità di genere”, grazie alla libertà femminile, si sono svuotate di senso. La logica della spartizione dei poteri edificata dalla cultura maschile deve essere finalmente superata con prospettive nuove, tra cui la possibilità proprio di rapporti diversificati e forti, «rapporti dove le diversità entrino in gioco come una ricchezza e non più una minaccia»3[3]. A questo proposito, come ha scritto la Libreria delle donne di Milano già negli anni Ottanta, la “disparità”, se vista dalla prospettiva relazionale tra donne, diventa un’attribuzione di valore e una vera e propria pratica femminista. Tolto il bisogno di sentirsi alla pari non solo con l’uomo ma con le altre donne, entra in gioco quel “di più” che ognuna di noi ha con sé, ed ecco che il nostro essere diverse ci appare come una risorsa e una leva nei nostri rapporti a fare di più, meglio e insieme. Ed è così che una parola logora assume un nuovo, scintillante significato.
- A. Cavarero, Mai dire donna, intervista di P. Tavella, in Il Foglio, 16 agosto 2023, https://www.ilfoglio.it/societa/2023/08/16/news/mai-dire-donna-la-filosofa-femminista-adriana-cavarero-contro-la-neolingua-che-parla-di-persone-con-utero–5590326/ ↩︎
- L. Muraro, Imparare a parlare bene delle donne, in Via Dogana 3, maggio 2018, https://puntodivista.libreriadelledonne.it/imparare-a-parlare-bene-delle-donne/ ↩︎
- Sottosopra. Più donne che uomini, Libreria delle donne, gennaio 1983. ↩︎
Da il manifesto – Troppo facile vantarsi a urne chiuse e risultati festeggiati, ma ho sempre dubitato dell’attesa grande vittoria della signora Le Pen. Arrivata prima alle elezioni europee, certo. Ma altrettanto certamente non gradita alla maggioranza degli elettori, quel circa 69 per cento che non l’aveva votata. E tanti altri tra i non votanti, che poi sono in parte corsi alle urne proprio per manifestare questa scelta: non possiamo consegnare il paese alla destra estrema.
Inoltre, detesto Macron e il suo modo di fare politica, ma quando ha deciso di andare subito al voto non nego di aver apprezzato il suo coraggio tattico, e forse più che tattico. Un primo risultato paradossale è stato spingere la sinistra a unirsi e a diventare motore della reazione al rischio di destra.
Qui in Italia, alla vigilia del secondo turno, c’è stato un proliferare di voci preoccupate sul rischio che si rimanesse abbagliati da questa sinistra francese, larga, plurale, e sbilanciata verso il partito dell’esecrabile Mélenchon. Il quale però, tra uno slogan a effetto e l’altro, ha detto subito che bisognava fare le desistenze a favore degli odiati macroniani contro i candidati del Rassemblement National.
Un estremismo stranamente realistico? Mi è già capitato di ricordare che anche il Marx del “manifesto” scriveva che i comunisti, laddove siano in gioco alleanze determinanti per gli interessi di classe, scelgono “i democratici”.
I problemi oggi sono diversi da quelli aperti nel 1848. Ma non proprio del tutto. L’aspetto farsesco della situazione mi sembra questo: Tony Blair si è precipitato a dare una serie di “consigli”, con uno scarso senso dell’opportunità, al neo primo ministro laburista Starmer, che forse si è sbilanciato in affermazioni troppo di sinistra, come chiedere un cessate il fuoco a Gaza e il riconoscimento di uno Stato ai palestinesi, il rifiuto di proseguire la politica di deportazione di immigrati in Africa. Blair insiste invece sulla priorità di reprimere l’immigrazione irregolare per non rischiare il successo del populismo di Farage.
Riecco la ricetta oltre che assurda mi sembra già usurata: la sinistra può vincere contro la destra attuando direttamente, e più rigorosamente, le sue stesse politiche!
La sinistra invece dovrebbe sottrarre alla destra il voto che una parte sempre troppo ampia dei cittadini le assegna dando risposte diverse al disagio che soprattutto strati popolari e di ceto medio impoverito esprimono con quel voto.
Qui ci vorrebbe un pensiero a sinistra molto radicale, per riconiugare da capo parole appesantite da qualche secolo di fraintendimenti più o meno tragici: capitalismo e mercato.
Il capitalismo, per dir così abbandonato a se stesso, cioè all’egoismo materiale e alla competizione accesa fino alla guerra, non funziona. Distrugge il pianeta e per quanta ricchezza monetaria e materiale produca, solo in troppo piccola parte viene redistribuita, e comunque costringe a un modo di vivere che alla fine produce infelicità e malattie.
Ma bisognerebbe prendere finalmente atto che il rimedio non può essere quello di immaginare un potere supposto saggio che rimette il mondo a posto facendo decidere tutto allo Stato, limitando se non eliminando il mercato.
Andrebbe ripresa una intuizione troppo dimenticata del femminismo della differenza quando ha detto che al mercato, per sovvertirlo, bisogna portare tutto: non solo lavoro, merci e denaro, ma sentimenti, affetti, relazioni, capacità di gestire non mortalmente i conflitti, e i desideri più profondi.
Non solo regole, necessarie, per mitigare il suo carattere selvaggio (oggi invocate anche da chi il capitalismo lo difende). Ma una vera rivoluzione simbolica.
Per ragioni di storia personale sono molto coinvolta nel conflitto israelo-palestinese, che ho sempre seguito negli anni – anzi nei decenni! – talvolta dimenticandone un po’ perché col tempo s’instaura una sorta di “normalità” che copre stati d’animo più profondi.
Ma di fronte al tragico attacco e la carneficina ad opera di Hamas del 7 ottobre e i successivi spaventosi bombardamenti di Gaza da parte dell’esercito israeliano con l’uccisione sistematica di donne e bambini, sono stata colta da un sentimento di disperazione, d’impotenza, sentendomi in qualche modo responsabile in quanto ebrea. Uscivano appelli che non mi sentivo di firmare: troppo neutri, troppo anonimi. Le istituzioni ebraiche difendevano penosamente e in modo univoco l’operato del governo israeliano e ciò mi offendeva, già altre volte in Italia e nel mondo era stato detto “non in nostro nome”.
Nell’approssimarsi del giorno della memoria con alcune amiche ebree abbiamo sentito il bisogno di vederci in presenza per parlare, per condividere pensieri e alleggerire l’angoscia insostenibile delle associazioni mentali tra quello che stava succedendo e quel giorno della memoria. Eravamo in 8 circa, non tutte ci conoscevamo bene e pure si è creato un momento quasi magico di parole e ascolto non esente da conflitti. Volevamo parlare senza pudori, senza reticenze, dire anche cose che qualcuna poteva non condividere, cercavamo di tirar fuori la nostra verità. Ne è scaturita una pratica di autocoscienza emozionante, una partecipazione intensa. “Prendiamo appunti” abbiamo detto. Così è nato l’appello Mai indifferenti con l’urgenza di diffonderlo. Eravamo troppo poche perché la proposta ai giornali potesse avere una certa efficacia e così ciascuna di noi ha diffuso l’appello ai propri contatti, alle proprie relazioni par raccogliere delle firme. In pochissimi giorni abbiamo ricevuto 54 adesioni di donne e uomini oltre a un gran numero di messaggi dalle persone più diverse: rapper, religiosi, intellettuali, associazioni ecumeniche, persone che ci ringraziavano per le nostre parole. I giornali più importanti lo hanno pubblicato immediatamente: Il Corriere della sera cartaceo e online, Il Fatto quotidiano, l’Avvenire, Il sole 24 ore e molte testate online che non sto a dire. In breve tempo hanno aderito oltre 500 persone, ebrei e non.
Non ci aspettavamo una risposta e una partecipazione così sentita, né l’emozione che alcune lettere hanno espresso nel ringraziarci. È stato il frutto della politica delle donne, una pratica dell’autocoscienza che è scaturita tra noi naturalmente come unica via per poter entrare nel vivo dei problemi politici che stiamo vivendo.
Di fronte a questa calorosa risposta abbiamo sentito la responsabilità di organizzare un incontro pubblico e di raccontare le ragioni che ci avevano spinto a fare l’appello. L’incontro ha avuto luogo alla Casa della cultura Il 14 aprile scorso col titolo Parole e oltre. Jardena Tedeschi Eva Schwarzwald e la sottoscritta hanno aperto il dibattito esplicitando che tutto era nato dal desiderio di un gruppo di donne e ricevendone il riconoscimento. Sono poi autorevolmente intervenuti uomini e donne.
Il rapporto mette in discussione l’etica di coloro che avviano i giovani a percorsi che cambiano la loro vita basandosi solo su intuizioni professionali.
Da The Guardian – “Primo, non nuocere” è il principio sacrosanto che dovrebbe essere alla base della medicina moderna. Ma la storia è piena di esempi di medici che l’hanno violato. La scorsa settimana, la pubblicazione del rapporto finale di Hilary Cass sull’assistenza sanitaria ai bambini con dubbi sul genere ha messo a nudo la portata devastante dei fallimenti del Servizio Sanitario Nazionale nei confronti di un gruppo vulnerabile di bambini e giovani, sostenuti da attivisti adulti che hanno intimidito chiunque osasse mettere in discussione un modello di trattamento così chiaramente basato sull’ideologia piuttosto che sull’evidenza.
Cass è una pediatra di fama e la sua accurata revisione è durata quattro anni. L’autrice spiega come la clinica specialistica del Servizio Sanitario Nazionale (NHS) per bambini, ora chiusa, abbia abbandonato la medicina basata sull’evidenza per affidarsi a speranze e preghiere. Un numero significativo di bambini con dubbi sulla propria identità di genere – è impossibile sapere con esattezza quanti siano perché la clinica non teneva registri, il che è uno scandalo – è stato sottoposto a un percorso medico non comprovato con farmaci che bloccano la pubertà e/o ormoni del sesso opposto, nonostante i rischi di danni legati allo sviluppo cerebrale, alla fertilità, alla densità ossea, alla salute mentale e al funzionamento sessuale da adulti.
Cosa ha portato a questo? Il percorso medico si basa sulla convinzione che molti, o la maggior parte dei bambini che si interrogano sulla propria identità di genere, avranno un’identità trans in età adulta e che è possibile distinguerli da quelli per i quali si tratta di una fase temporanea. Ma gli studi suggeriscono che la disforia di genere si risolve naturalmente in molti bambini. È spesso associata alla neurodiversità, a problemi di salute mentale, a traumi infantili, al disagio per la pubertà, in particolare nelle ragazze, e a bambini che stanno elaborando la loro nascente attrazione verso lo stesso sesso; un gran numero di bambini che si sono rivolti al Servizio di Sviluppo dell’Identità di Genere (Gids) erano gay. Inserire questi bambini in un percorso medico non comporta solo rischi per la salute, ma può anche patologizzare un disagio temporaneo in qualcosa di più permanente. Cass è anche chiara sul fatto che la transizione sociale di un bambino – trattandolo come se fosse del sesso opposto – sia un intervento psicologico con conseguenze potenzialmente durature e con una base insufficiente di prove, che la transizione in clandestinità può essere dannosa e afferma che per i bambini in età pre-puberale questa decisione dovrebbe essere informata dal contributo di medici con una formazione adeguata.
Al centro del rapporto c’è un dilemma. La Cass ha rilevato che una diagnosi infantile di disforia di genere non è predittiva di un’identità trans duratura e i medici che hanno partecipato alla revisione hanno dichiarato e di non essere in grado di determinare in quali bambini la disforia di genere sarebbe durata fino all’età adulta. Se questo è davvero impossibile, è etico avviare una persona giovane a un percorso medico che cambierà la sua vita? Se non esistono criteri diagnostici oggettivi, su quale base un medico può prendere questa decisione se non su un’intuizione professionale?
Il rapporto raccomanda una revisione totale dell’approccio alla cura dei bambini e dei giovani con dubbi sul genere da parte del Servizio Sanitario Nazionale: servirebbero servizi olistici e multidisciplinari basati sulla salute mentale che valutino le cause alla radice di tali dubbi e adottino un approccio terapeutico. I bloccanti della pubertà dovrebbero essere prescritti solo nell’ambito di una sperimentazione del Servizio Sanitario Nazionale e la dottoressa raccomanda “estrema cautela” circa gli ormoni del sesso opposto per i ragazzi tra i 16 e i 18 anni; ci si potrebbe aspettare che ciò dipenda dalla possibilità di sviluppare criteri diagnostici per la disforia di genere che dureranno fino all’età adulta.
Come Cass prospetta nel suo studio, i bambini che pongono dubbi sul proprio genere meritano di essere trattati con lo stesso livello di cura di tutti gli altri, non come piccoli progetti per attivisti adulti che cercano di convalidare le proprie identità e i propri sistemi di credenze. Ma per il Servizio Sanitario Nazionale sarà una sfida immensa, e non solo a causa del tremendo sottofinanziamento dei servizi di salute mentale infantile. Ci saranno resistenze tra i medici legati a credenze quasi religiose; è sorprendente che sei cliniche per adulti su sette si siano rifiutate di collaborare alla revisione di uno studio per far luce sui bambini sottoposti a cure mediche dal Servizio Sanitario Nazionale. Un ricercatore senior dell’NHS di un ente non nominato ha detto che l’opposizione a partecipare alla revisione non è venuta dal consiglio di amministrazione, ma da alcuni medici del loro ente, e questo non si è mai visto in altre parti dell’NHS.
Cass ha anche commentato l’estrema tossicità del dibattito. Ovvero il fatto che, a suo dire, i medici professionisti avessero paura di essere definiti transfobici o accusati di praticare terapie di conversione se avessero adottato un approccio più cauto, in un clima in cui attivisti e associazioni come Stonewall erano pronti a lanciare accuse di bigottismo a chi segnalava preoccupazioni e gli informatori del Servizio Sanitario Nazionale venivano diffamati dal loro datore di lavoro. Questo non solo ha prolungato i danni evitabili che alcuni giovani hanno subito, ma renderà difficile il reclutamento di medici per il nuovo servizio. Cass ha messo in guardia i ministri sui rischi di vietare penalmente la terapia di conversione, cosa che invece gli attivisti stanno spingendo; le sfide definitorie rischiano di criminalizzare le terapie esplorative e potrebbero aumentare ulteriormente la paura tra i medici. L’ex direttore generale di Stonewall ha già avallato l’idea che il modello Cass sia esso stesso una terapia di conversione.
Considerato ciò che viene detto sulla transizione sociale, le implicazioni della revisione Cass vanno oltre il Servizio Sanitario Nazionale e arrivano fino alle scuole e ai servizi per l’infanzia, dove esistono simili situazioni di presa ideologica. Notizia di oggi: i genitori di un bambino la cui scuola, a loro insaputa, ha facilitato la transizione sociale hanno dato due settimane di tempo al consiglio comunale di Brighton per ritirare il kit-trans approvato per l’uso in tutte le scuole, altrimenti il comune subirà un’azione legale alla luce del parere del noto avvocato per l’uguaglianza e i diritti umani, Karon Monaghan KC, secondo cui il kit è di per sé illegale e spinge le scuole ad agire illegalmente.
L’avvocato spiega come la legge sia estremamente sbagliata in diversi punti, tra cui la tutela del benessere dei bambini che hanno dubbi sul loro sesso e che vogliono effettuare una transizione sociale. Sui servizi e gli sport divisi per sesso, questa legge suggerisce erroneamente che l’identità di genere scelta da un bambino debba prevalere sul suo sesso, cosa che potrebbe portare a discriminazioni nei confronti degli altri alunni, in particolare delle ragazze. Questo kit è utilizzato dalle scuole di diverse autorità locali; i genitori hanno pubblicato consigli per consentire ad altri genitori di contestare alle scuole la sua illegalità.
La revisione di Cass rappresenta un risultato immenso; ha eliminato la tensione da una delle aree più controverse della medicina moderna e ha riportato il ruolo delle prove al posto giusto. Tuttavia, c’è ancora molta strada da fare per smantellare l’influenza di un’ideologia adulta contestata e controversa – e in alcuni casi profondamente radicata – riguardo al genere, dal modo in cui i bambini vengono assistiti dal Servizio Sanitario Nazionale, dai servizi per l’infanzia e dalle scuole.
Link all’articolo originale:
https://www.theguardian.com/commentisfree/2024/apr/14/hilary-cass-review-gender-trans-young-people-children-nhs-evidence
Il partire da sé, pratica inventata dal movimento delle donne alla fine degli anni ’60 del ’900, è stata una politica vincente per le donne. Oggi può esserlo anche per gli uomini? Chiara Zamboni scrisse che per gli uomini è una pratica difficile; il ruolo maschile tradizionale chiede loro di essere oggettivi; hanno paura di cadere nel narcisismo dell’io; lo interpretano come uno stare presso di sé piuttosto che un andare verso il mondo; temono di rimanere in una dimensione pre-politica. Abbiamo torto? Personalmente, non mi oppongo a questa pratica, ma è vero che le faccio resistenza.
Il partire da sé è un concetto che mi risulta sfuggente. Riguardo il cosa e il come. Su cosa sia il sé e su come si parta non esistono risposte chiare e univoche; né esiste un testo che traduca la pratica in teoria o almeno spieghi la procedura. Nel partire da sé ciascuno fa da sé. Questa indeterminatezza insieme con la critica «Manca (nel tuo testo, nel tuo discorso) il partire da sé» mi fa irritare. Tuttavia, ci provo e vado a tentoni. Parlo in prima persona, dichiaro i miei sentimenti, confesso qualcosa. Con impaccio e imbarazzo. Credo che questo modo sia gestibile nei rapporti duali e nei piccoli gruppi, meno nella sfera pubblica delle relazioni formali. Ragione per cui, gli uomini, come pure molte donne, si esprimono in modo neutro e oggettivo. Là dove non c’è conoscenza, fiducia e confidenza, per regolare conflitti e competizioni, si cerca di partire da ciò che è già condiviso o che si pensa dovrebbe esserlo: i principi.
Il mio sé, credo, non sente il bisogno di partire da sé. Quando parto da un principio, vi aderisco, non sono un dissociato. Diversamente, da quel principio non parto. Immagino che le donne abbiano inventato la pratica del partire da sé, per sottrarsi alla definizione di sé imposta dal «primo sesso»; per non essere più «seconde», ma libere e autonome nel proprio definirsi. Se da uomo non ho quel problema, perché dovrei adottare la pratica che lo ha risolto? Posso sentirmi alienato nei gradini inferiori delle gerarchie maschili. Allora voglio scalare la gerarchia oppure abbatterla. Il partire da sé come mi aiuta? Peraltro, alla base della gerarchia, se ho soddisfatto le necessità della sopravvivenza, sono preso dalla routine della quotidianità e del lavoro ripetitivo, il mio vissuto è piatto, le mie relazioni povere. Così, il mio sé. Partire? Meglio ancora, fuggire da sé.
Oltre la dimensione delle relazioni duali e dei piccoli gruppi, dove il partire da sé può essere utile e la sfera pubblica, lavorativa, dove invece sembra impraticabile, esiste la dimensione mass-mediatica, il contesto che Ida Dominijanni dice essere egemonico. È un contesto strano, con il quale sono sempre in contatto, tentato di pronunciarmi su cose molto più grandi di me, fuori dal mio raggio di controllo, già catastrofiche per tanti, in potenza anche per me nel prossimo futuro. Le grandi crisi globali, clima, energia, guerra. Qui, cosa vuol dire partire da sé? Se guardiamo alla pratica dei social e della televisione, come ha accennato la stessa Dominijanni, sembra essere il narcisismo dell’io, la paura attribuita agli uomini da Chiara Zamboni.
Un barlume mi è venuto in mente, ascoltando Letizia Paolozzi dire che l’otto marzo NUDM ha visto solo un orrore, mentre abbiamo davanti tanti orrori e, per fare politica, occorre vederli tutti. Affermazione ineccepibile che, tuttavia, sembra partire da un sacrosanto principio oggettivo. Infatti, se indago il mio sé, scopro che alcuni orrori li vedo più di altri. I crimini commessi dai russi in Ucraina non mi scuotono come i crimini commessi da Israele a Gaza. Perché? Questo mio sentire si espone all’accusa di doppiopesismo, un’accusa ricorrente e reciproca nelle contrapposizioni sulle guerre. Circa un anno fa, Alberto Leiss raccontò di queste contrapposizioni nel dibattito interno a Maschile Plurale, tra favorevoli e contrari all’invio di armi occidentali all’Ucraina. Opinioni politiche divisive. Poi, raccontò di una seconda fase del dibattito, dove emersero gli stati d’animo di angoscia e impotenza di fronte alla guerra. Sentimenti unificanti.
Secondo me, tra i due piani, non c’è necessariamente contraddizione. L’angoscia di fronte alla guerra può portarmi a desiderare la pace con il «nemico» o la protezione dell’amico più potente. Così immagino che tra il nostro sé e i principi oggettivi a cui aderiamo ci sia più associazione di quel che pensiamo. Il mio pacifismo di principio, che mi porta a trattenere e criticare la mia parte, può essere associato al senso di colpa. Il sentimento suscitato dai nostri orrori. Quelli commessi con i nostri soldi, le nostre armi, la nostra legittimazione politica. Nostra, di noi italiani, europei, occidentali. Il 7 ottobre in Israele è stato terribile, ma non sono stato io. Perciò, capisco l’otto marzo di NUDM.
Se le donne, le femministe, le mie amiche, sollecitano gli uomini a partire da sé, vorrei corrispondere, anche se non ne sono sempre e del tutto convinto. Il partire da sé nella misura in cui il sé è accessibile o sembra tale, quando è dato il tempo e il modo di riflettere, aiuta l’introspezione e la consapevolezza. Mi fu detto che il sé è primariamente il proprio desiderio. Eppure, non mi sento mosso dai desideri. Se lo sono, sono trattenuto, perché tendo a considerare i desideri causa di frustrazione, qualcosa da cui è meglio tenere una distanza. Penso che tra i miei principali motori interiori, forse il primo, ci sia proprio il senso di colpa. Così, per me, il partire da sé, rischia di essere il partire dal mio senso di colpa.
Con la primavera il sito della Libreria delle donne si veste di nuovo e nasce la pagina di Via Dogana 3, la sua rivista online. Lo festeggiamo insieme all’uscita del Quaderno di Via Dogana “Femminismo mon amour”.
Vi aspettiamo dalle ore 19:00 alla Libreria delle donne, in via Pietro Calvi 29, Milano.
Parole, musica, aperitivo!
La spontaneità è un privilegio che io, da donna, sento di non avere. Spontaneità sottintende immediatezza, un agire istintivo, un porsi nel mondo con naturalezza senza calcoli preparatori, tutte situazioni che io, da donna, non posso permettermi. Non è che non possieda tale caratteristica, la spontaneità, perché essa non rientra nella mia natura femminile, ma perché in quanto donna nel momento in cui sono spontanea devo poi fare i conti con le conseguenze della mia spontaneità.
Questo avviene in ogni ambito della vita: quando esprimo un’opinione, quando decido cosa indossare, che strade percorrere, chi frequentare, cosa fare nel mio tempo libero… tutto potrà essere usato contro di me e ognuno si sentirà in diritto di esprimere un giudizio sulla mia persona. Ogni volta che cammino nel mondo io so di non essere mai in uno spazio neutro e sento di abitare un contesto che per definizione mi è ostile e con cui entrerò inevitabilmente in conflitto ogni volta che agirò da donna libera. È per questo motivo, secondo me, che le donne hanno inventato la pratica del partire da sé e perché questa scelta si è rivelata vincente, ieri come oggi. Il mondo è cambiato ma la mentalità maschile mantiene la sua egemonia e le donne si trovano ancora a doversi conquistare spazi di libertà, non solo fisici ma anche mentali e immaginari. È per questo che molte donne, consapevolmente o meno, scelgono di partire da sé. Le donne scelgono una pratica, attività che implica non solo un agire concreto ma anche esercizio, conoscenza e relazione, e lo fanno perché sentono che il contesto che abitano crea in loro una sensazione di malessere, malessere a cui devono dare un nome per poterlo affrontare e poterlo esporre nel mondo. Partono da sé perché devono farlo, perché nel silenzio, nel sottrarsi ad un contesto che non le rispecchia, possono interrogarsi, imparare ad accettarsi per quello che sono, rafforzando le loro idee e la loro identità. In quel silenzio si diventa consapevoli e ci si chiede «sono pronta a gestire le conseguenze di quello che dirò e di quello che farò da questo momento in poi?» per poi scegliere di agire. Questa domanda me la sono fatta anch’io per tanto tempo, e finché non mi sono sentita sicura o in luogo sicuro ho sempre scelto il silenzio. E quello che mi fa sentire al sicuro, ho scoperto, ha a che fare con la fiducia. Fiducia in me stessa, quando sento di averla, ma soprattutto fiducia di altre donne nei miei confronti. Le donne che si rendono disponibili all’ascolto senza essere giudicanti, che sono aperte alla relazione, che possono capire il mio vissuto perché condividono l’esperienza di essere donna e che creano spazi alternativi; ecco, loro sono il luogo sicuro dove è possibile rompere il silenzio e partire insieme verso qualcosa di trasformativo.
Questo luogo sicuro, per me, sono state Silvia Protino e Angelica Pirro, grazie al loro podcast A Day in a Female Life – Racconti di ordinaria violenza1. L’evento dirompente accaduto nella mia vita, il malessere di cui ho fatto esperienza, mi ha portata nella dimensione del silenzio. Silenzio in cui mi sono richiusa da sola per sottrarmi al mondo esterno ma anche a me stessa, e l’ho fatto per molto, troppo tempo. In quel silenzio ho cercato di dare un nome a quello che mi era accaduto e a quello che stavo provando, cercando di definire un qualcosa che era tanto difficile da nominare quanto da accettare. E quando ho trovato le parole mi sono resa conto che non c’era un luogo sicuro dove indirizzare la mia nuova consapevolezza perché il mondo esterno non era accogliente per me. Nel mondo esterno, maschile e subdolamente patriarcale, le mie esperienze venivano minimizzate, il mio vissuto veniva messo in discussione, i miei bisogni erano inascoltati. Siamo nel 2024 e ci sembra che essere donna non sia più sinonimo di discriminazione. Ci siamo dette che ora siamo libere e che gli uomini non hanno più potere su di noi, che il patriarcato è finito. Eppure quando si parla di violenza maschile ci sentiamo ancora sole e ci chiudiamo nella nostra solitudine. Quando si parla di violenza maschile sappiamo che non possiamo affidarci alle forze dell’ordine, alla legislazione, alla politica o al contesto culturale in cui viviamo. Quando si parla di violenza maschile, quando si vive questo malessere, si può trovare accoglienza solo nell’egida altre donne che sperimentano questo stesso malessere. È così che ho trovato il mio luogo sicuro, nella voce di altre donne che hanno raccontato le loro esperienze e che mi hanno fatto capire che non sono sola. Che non sono io il problema. Che il malessere di una interessa tutte e riguarda un intero contesto. È con questo partire da sé che si creano le relazioni trasformative, che interessano prima noi stesse e poi tutto il contesto che viviamo.
- Angelica Pirro e Silvia Protino raccontano il loro podcast nell’incontro di Via Dogana 3 “Autocoscienza, ancora” del 1° ottobre 2023, con l’intervento “Ritrovare sé stessa nelle parole delle altre: un podcast contro la violenza maschile”, che si può leggere qui [Ndr]. ↩︎
Prima di partecipare via zoom a questo incontro di VD3 sul tema “La scommessa del partire da sé” sono andata a rivedere l’incontro in dialogo con Luisa Muraro svoltosi all’Alveare di Lecce il 7 marzo 2021 dal titolo Scommettere, rischiare investire sulla differenza sessuale.
Mi ricordavo quell’incontro perché a un certo punto Luisa Muraro si è soffermata sul discorso dell’autenticità femminile di cui parlava Carla Lonzi e che lei, Luisa, invece di autenticità chiama “verità soggettiva”.
La verità soggettiva come io l’intendo non è solo narrazione. Laura Minguzzi nel suo intervento ha parlato di nodo interiore da sciogliere; io invece percepisco la verità soggettiva come un andare a toccare la realtà che ci circonda e le relazioni in cui siamo immerse. Fare ciò comporta grossi rischi. Uno di questi è quello di esporsi, vale a dire esporre sé stesse agli attacchi di coloro che hanno fatto narrazioni e valutazioni diverse dalle nostre. La narrazione di per sé non è un esporsi, è un esporre più che un esporsi. Spesso è un esporre mosso da interessi personali, oppure sono visioni che si fanno passare per verità oggettive.
Io ho sperimentato cosa vuol dire scrivere un libro partendo da sé, cioè partendo dalla propria verità soggettiva. Quello che ho scritto aspettava di essere detto da più di quarant’anni, ma tacevo perché mi mancava il pensiero che poteva dare reale significato e valore alle mie parole. Questo pensiero, come potete immaginare, era il senso libero della differenza sessuale che Luisa Muraro mi ha trasmesso con i suoi scritti e con la sua amicizia, dandomi forza e coraggio.
Quando feci mio il pensiero della differenza sessuale davanti a me si aprì un mondo nuovo in cui mi ritrovavo e potevo stare. Finalmente potevo scrivere quello che sentivo in quanto donna e mi urgeva dentro come soggetto pensante. E come tale mi sono esposta. Non mi aspettavo lodi, ma neppure le reazioni cattive e il rifiuto al confronto con l’abbandono da parte di coloro che nella Comunità di base dell’Isolotto (Firenze) amavo di più. All’Isolotto fui isolata, rimasi sola.
In quel momento sperimentai in concreto quello che significava il partire da sé, dalla propria verità soggettiva.
Spiego meglio. Dalla comunità cristiana di base dell’Isolotto mi è stato subito rimproverato di aver scritto una delle tante narrazioni possibili sulla vicenda sociale/politica/religiosa di quel quartiere di Firenze. Cioè si è liquidata la mia narrazione come una delle tante possibili, cancellando così la verità soggettiva come qualcosa di relativo, non valido per tutte e tutti.
Bollare la verità soggettiva come discorso relativo serve soprattutto alla cultura neutra per cancellare l’esperienza femminile e disconoscere le cose che noi donne riteniamo importanti e che sappiamo hanno valore simbolico e politico per entrambi i sessi.
Negli anni ’70 nei gruppi di autocoscienza abbiamo eliminato la separazione netta tra personale e politico. Luisa Muraro nella presentazione del mio libro il 4 marzo 2017 alla Libreria delle donne di Milano, ha parlato di “rivolta nella rivolta”. Ha detto che anche in una stagione rivoluzionaria è possibile “scartare” percorsi femminili di libertà. È vero. Lo scrivere il libro ha avuto per me il significato di una lunga presa di coscienza del valore della differenza sessuale, un esporre dei fatti che riguardavano non solo me, ma tutto l’Isolotto; la mia narrazione non aveva lo scopo di infangare o screditare figure maschili, ma voleva invece, e ancora vuole, evidenziare la necessità di una seria autocoscienza maschile storica e nel presente.
Viviamo in un momento storico in cui si vuol rimuovere la differenza sessuale. Dobbiamo ritrovare il coraggio del partire da sé, la forza di esporci e di attraversare i conflitti, possibilmente in modo non distruttivo. Il partire da sé é verità soggettiva, è pensiero della differenza perché smaschera il pensiero neutro maschile. Perciò il femminismo della differenza fa tanta paura ai maschi: esso scardina i loro privilegi e rende le donne libere. Tutti i femminicidi sono fondamentalmente disperati tentativi di cancellare la libertà femminile sulla terra.
Nota: Il libro di Mira Furlani si intitola Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei (Gabrielli editori, 2016).
Due gruppi di donne stanno cambiando, dall’interno del nostro corpo: l’utero, l’idea concreta e simbolica di maternità che abbiamo come donne e lo stanno facendo con l’aiuto interessato della scienza maschile. Un gruppo è quello abitato dal mito della maternità ad ogni costo, desiderata fino all’impossibile e disposto a pagare qualcuna che gli faccia figli pur di riuscire a realizzare lo smisurato desiderio di averli.
Le donne pagate per farli sono l’altro gruppo, nato in seguito al desiderio del primo, che sta facendo cambiare il materno mettendo in vendita pezzi generativi del loro corpo. Ogni gruppo ha sottogruppi di donne che variano secondo la qualità del desiderio materno e del bisogno fisico per realizzarlo.
I desideri, e i diversi bisogni fisici individuati dalla scienza, hanno creato il mercato di pezzi di corpo di donne che la legge patriarcale si è incaricata di governare in modo più o meno disincantato. Il mercato per essere tale ha bisogno di de-simbolizzare la maternità della gravidanza banalizzando nel naturale la gravidanza stessa. E riesce a farlo coi soliti automatismi maschili, accettati però anche dalle donne dai desideri impossibili di “fertilità”.
Esse cancellano dal dialogo pubblico la sofferenza e la bellezza fisica e psichica che la gravidanza contiene per ognuna di noi, lasciano visibile solo la parte aulica maschile mentre si appellano al mito neutro del femminile del fare figli/e in modo così fisicamente naturale da essere quasi indolore. Lo scopo è quello di poter attribuire la maternità, spostandola dalla pancia di chi la produce, a chi ha desideri irrisolti di maternità per l’infertilità della coppia o di una singola persona; visto che la maternità è solo e da sempre frutto di una relazione tra corpi sessuati differenti che incarica quello femminile di
realizzarla.
Di mezzo ci sono bambini e bambine pensati dall’origine, con questa nuova forma d’amore, già orfani di madre. Serve a cancellare la relazione fondamentale di crescita sicura e protetta nel suo ventre. Il primo gruppo di donne è straconvinto che tutti gli essere umani sono fertili. Alcuni o alcune invece sono naturalmente infertili e non è per forza una malattia né un’esclusione sociale, anche se il patriarcato si è speso molto in questo senso. Questa incapacità di accettare l’infertilità, scelta o “subita”, ha messo in gioco i desideri di molte persone che per scelta appunto, anche di coppia, sarebbero naturalmente infertili. E magari le donne non se ne sono accorte, troppo intente ad ascoltare desideri personali anche molto neutri.
Tra i due gruppi di donne passa un modo molto differente di leggere la gravidanza e la maternità. Le donne del primo – di serie A ?! – la sopravvalutano all’inverosimile, soprattutto quando riguarda la propria pancia, ma banalizzano all’infinito, con l’aiuto del potere legislativo, quella del secondo gruppo – di serie B?! -, arrivando ad accettare la definizione di portatrice per la donna madre che si lascia affittare l’utero.
Le venditrici di ovuli nel gioco del mercato dei figli sono silenziate perché più invisibili della pancia gravida, anche se all’ovulo è stato fatto assumere lo stesso valore proprietario dello spermatozoo. È un modo per far pesare di più l’atto del concepimento sulla gravidanza generativa – visto che l’uomo non può mai generare, ma solo concepire – al fine di estromettere la madre gravida che genera, e legittimarsi alla pari col corpo femminile, nella funzione ovulatoria e genetica per diventare, con meno resistenze simboliche, madre sociale.
Parlare di portatrice, neanche più di cicogna, è un po’ come parlare di chi porta in giro una sporta, una sogliola o un camion. E allude anche a una quasi inutilità dell’utero femminile avendo già diviso la generazione tra almeno due corpi di donna.
Quasi ci si potesse autorizzare a pensare che anche senza l’utero un figlio o una figlia potrebbero ugualmente essere messi al mondo. Niente di più impossibile, ancora per molto e molto tempo: senza utero non nasce nulla di questo prezioso nuovo concepito e allora perché dobbiamo assistere a queste modificazioni concrete e simboliche del materno nella gravidanza? Autorizzandoci da donne perché altre donne lo hanno fatto, modificando il simbolico di tutte noi?
Non riesco a credere che queste nuove visioni della funzione materna siano scevre degli stessi problemi di quella vecchia, siamo tutte persone per fortuna imperfette e nessuno sfugge a questa realtà, neppure se alcune pensano che le autorizza un desiderio molto più grande di quello delle donne che restano incinta facilmente. Neppure se la famiglia si sfascia e si rifà in altri nuovi modi. A meno che non teorizziamo l’assenza di una qualsiasi relazione tra le persone perfino nel generare, cancelliamo la nostra idea di cura e pensiamo il generare come un atto di sola cultura, anche se non so in che modo. Ma sarebbe un incubo, non certo quella pretesa di amore più intenso degli amori degli altri.
La banalizzazione della gravidanza l’abbiamo sempre conosciuta nell’obbligo patriarcale a figliare e qui si perpetua rendendo incerto quel simbolico femminile che si è voluto, dal ’68 in avanti, liberare dalla maternità subita e seriale. Una liberazione che ha spinto le donne a pensare di dover dimostrare che sapevano fare quasi tutto quello che sapevano fare gli uomini senza valorizzare più di tanto pubblicamente quello che sapevano già fare, ma che non era considerato socialmente utile e fondante della relazione umana. Adesso abbiamo dimostrato che siamo capaci di fare tutto quello che fanno gli uomini e forse anche meglio e che senza di noi non si può pubblicamente neppure governare. Ma non abbiamo dimostrato abbastanza bene che quello che sapevamo fare noi donne era fondamentale per tutti ed abbiamo lasciato che continuasse ad essere banalizzato come molte altre nostre competenze, divise tra natura e cultura anche nel nostro sentire, e i nodi per noi donne sono venuti al pettine.
Oggi il nostro corpo è ancora e più di prima a disposizione pubblica e noi non ne siamo estranee.
Ma perché e “per chi” abbiamo accettato di rinunciare a spiegare nel pubblico che il ruolo delle donne era già fondamentale nel mondo e subiamo invece questo smembramento del corpo in nome della libertà femminile e di desideri che non appartengono a chi si lascia smembrare il corpo dal bisogno dei soldi? Perché il nostro desiderio di maternità l’abbiamo lasciato diventare così violento contro noi stesse, visto che se è violento con alcune questa violenza può per estensione capitare a tutte noi? “Al servizio di chi” siamo? Di noi stesse o di chi? Riusciamo a governare diversamente questa nostra biologia? Magari da donne che sanno capire quando il loro desiderio è diverso da quello dell’uomo e sentono della realtà del proprio corpo una conoscenza personale indisponibile a chiunque pagando o meno voglia interpretarla per noi. Che si chiami pure amore, ma di certo è un amore differente dal nostro. Dobbiamo capire qual è il nostro! Per noi soprattutto e poi per chi generiamo. Nessuna di noi è una ideologica portatrice, anche se pagata, e chi ha partorito lo sa!