Vorrei partire dalla frase con cui si è conclusa la riunione, che ricordo così: «Noi non stiamo vivendo una guerra. Questo deve esserci chiaro: noi non stiamo vivendo una guerra».
Parto da qui perché per me il punto cruciale è proprio questo: che cosa stiamo vivendo? E subito mi sembra di non avere molte parole. Per dire quello che provo di fronte a una guerra (anzi due) che forse non stiamo vivendo, ma che mi riguarda. E già in queste quattro sillabe (“mi riguarda”) c’è dietro un mondo, di sguardi appunto, o cecità, rimandi, connessioni. Che mondo è? E cosa provo? Rabbia? Paura? Spaesamento? Non bastano, non dicono, non aprono pensiero. Ci sono molte guerre nel mondo di cui probabilmente sappiamo ben poco, almeno io che gli sottraggo sguardo. Ma queste due, in Ucraina e in Palestina, coinvolgono il mio quotidiano, il mio stare nelle cose mentre lavo i piatti, mentre guardo un telegiornale, mentre scelgo che libro leggere, mentre parlo. Ho scoperto uomini e donne, che stimo, ingrovigliati nell’apparente imperativo di prendere posizione. Ho scoperto me stessa, nel parlarne, inchiodata dai miei interlocutori a pensieri o posizioni che non ho, come se non ci fosse altra possibilità che schierarsi. Questo la guerra lo fa. Prima ancora di cancellare corpi e vite, cancella le mediazioni, la complessità: polarizza, astrae, semplifica. Non tanto e non solo fuori di me, ma dentro, nascostamente. Si insinua il dubbio che non ci sia alternativa allo schieramento, da una parte o dall’altra, pena la condanna all’irrealtà, all’utopia, a una qualche idea di pace non vera, non possibile perché slegata dal reale, dalla Storia.
Mi sono sentita chiamare dall’intervento da Vita Cosentino, dalla sua dichiarata difficoltà a prendere parola sulla guerra. E mi tremava la voce, perché sapevo di non avere nulla da offrire di sensato, se non domande, necessità, bisogni magmatici (poco salvifici in fondo, poco stimolanti). Eppure questa necessità la sento nella carne: dare parola a quello che viviamo. Proprio a quello che donne stiamo vivendo rispetto alla guerra, qui e ora.
Come si vive una guerra a distanza? Fenomeno relativamente nuovo, dovuto alla pioggia, anzi alla tempesta di informazioni e immagini che piovono dal cielo, quasi come bombe. Da anni ormai, abbiamo l’impressione di vivere quasi in diretta stragi, bombardamenti, la conta dei morti, le case distrutte. Ricordo le immagini delle prime bombe “intelligenti” su Bagdad nel 2003. Era già successo, ma mi accorsi per la prima volta della “bellezza” di quelle immagini, le luci perfette, perfetti i colori, la messa a fuoco, la stabilità della telecamera. Come in un film. E come un film ipnotizzava. Praticamente in diretta e quasi in mondovisione, come le partite di tennis o di pallone. Sei lì, partecipi, ma non ci sei. Sono scaraventata lì, partecipo, ma non ci sono. Che razza di esperienza è? Cosa significa nella mia vita? Far parte di un paese che invia armi per la difesa di un paese amico invaso? Lo stesso paese (il mio) che appoggiò l’invasione dell’Iraq in una guerra preventiva, le cui motivazioni, si ammette dopo vent’anni senza troppo scalpore, erano false? Che luogo abito, o mi abita? Uno spazio nel quale, soprattutto, le notizie che arrivano non so più, non ho modo di sapere se sono vere o false?
Non sono analitica. Nel senso che non riesco a usare capacità analitiche per aprire uno squarcio creativo, di pratiche, azioni, parola, di cui sento il bisogno, enorme. Ma sono grata agli interventi che hanno analizzato l’uso della lingua in questo momento nei media. Grata al prezioso intervento registrato di Giulia Siviero e Ida Dominijanni, che svela sapientemente i meccanismi, le dinamiche della finzione, della costruzione ideologica di ogni racconto sulla guerra. Penso alla verità, a questa parola che mi si frantuma tra le labbra. E svela la sua inconsistenza (sicuramente più antica di quel che credo). Tanto che la ricerca della parola come verità, in un momento storico in cui nulla è fermo, ma tutto si muove e si confonde, rischia di essere fuorviante, di chiudermi, chiuderci nella stessa logica di opposizione dalla quale desidero uscire. Faccio un esempio. Quando Paola Mammani si è alzata e ha detto in modo perentorio: «Non siamo in guerra, questo deve esserci chiaro!», ho pensato ce l’avesse con me. E subito: ma io non ho detto questo! E perché dice che non stiamo vivendo una guerra? Non è vero! La viviamo invece, eccome! Forse in altro modo senza saperlo…
Per fortuna la riunione è finita. E dopo pochi minuti ho potuto riconoscere come funzionava in me l’abitudine malata, contratta quasi per osmosi, di pensare secondo una logica di opposizione: questo sì, questo no, vero/falso, giusto/sbagliato, democrazia/totalitarismo.
Vado per salti, lo so e me ne scuso. Ma riesco a pensare solo così, saltando da un livello all’altro. Un pensare ballerino, salto a ostacoli, a dimensioni. Provo a prendere pausa, respirare e spiegarmi. Ho tentato di pensare, non da sola, alla necessità di un universale donna, di una parola autorevole come quella divina. Le guerre gli uomini le fanno in nome di Dio, della patria, della democrazia, della giustizia. In nome di cosa posso fare la pace io donna? Un salto in alto, a cui non sono allenata. Mi faccio piccola allora, salto nella pozzanghera, nel piccolo stagno, nella minuscola palude in cui affondano i piedi. E mi mancano le parole delle palestinesi, delle ucraine, delle madri dei soldati russi, persino quelle dei soldati, per capire cosa sta accadendo, cosa mi accade in questa distanza prossima, o vicinanza lontana, attraverso la quale passano emozioni senza voce, guidate da un narrare falsato e parziale, ma passano eccome e fanno male. Mi mancano parole di donne a me fisicamente vicine, spesso sospese tra il silenzio, che momentaneamente evita quel male, e la voglia di opporsi, di prendere posizione. Parole che dicano semplicemente cosa e come stiamo vivendo, o vogliamo vivere in questa guerra (a distanza). Mi manca il vissuto. E non credo in una verità senza vita, così come in una lingua che fatica a dire l’esperienza.
Provo sconnessamente a dirne e chiedo. Per favore, continuiamo a parlarne.
Da più di vent’anni collaboro con Il Quotidiano del Sud – Calabria dove dal 2019 ho una rubrica settimanale che ho chiamato “Io, Donna”, nata dal mio desiderio. La redazione di Via Dogana è arrivata una settimana dopo il convegno a Torreglia dal titolo “Incontriamoci… così come siamo… sulla soglia”, organizzato da Identità e Differenza e dalle Città Vicine. In quella occasione ho raccontato il senso politico della mia scrittura, che ben si lega al tema “Lingua è politica” di cui abbiamo discusso nella redazione. La rubrica oggi è il mio luogo privilegiato in cui faccio politica – per me scrivere è sempre stato un atto politico – che porto avanti con le pratiche del femminismo: partire da sé e relazione. Mi relaziono con le donne a cui mando i miei articoli, con la redazione del sito della Libreria delle donne a cui li faccio arrivare con la mediazione di Clara Jourdan, e a volte vengono pubblicati.
Mi relaziono in particolare con Katia Ricci della Comunità di Storia vivente di Foggia. A lei faccio leggere i miei articoli prima di inoltrarli al giornale, ne parliamo, mi dà suggerimenti e io mi affido al suo giudizio. Una pratica che mi dà forza e sicurezza. Di fronte a ciò che succede nel mondo e di cui voglio scrivere non sono obiettiva ma mi ci metto dentro, mi faccio coinvolgere con il mio sentire, il mio sapere, i miei sentimenti, le mie passioni, il mio femminismo. Insomma mi lascio toccare dalla realtà che cerco di leggere e capire, facendomi aiutare dalle parole di donne del passato e del presente a cui faccio riferimento. Scrivo sempre dopo essermi data un tempo di silenzio, di cui ho bisogno per capire quello che mi sta a cuore e trovare le parole giuste per dirlo e farmi capire da chi mi legge. Infatti, non dimentico mai che sto scrivendo per un quotidiano. Immergermi nella realtà con tutta me stessa fa tutt’uno con la lingua sessuata che uso per narrarla. Quando molti anni fa da docente di filosofia chiesi a Luisa Muraro come insegnarla, lei mi rispose: «Tu insegni la filosofia che sei». Ecco, io parlo e scrivo la lingua che sono, la donna che sono, donna della differenza sessuale.
Quando sono arrivata al giornale, il direttore mi consegnò un “Prontuario per l’unificazione del linguaggio” in cui il linguaggio neutro maschile era la “norma”. Sin da allora mi sono autorizzata a non seguire quel prontuario e a scrivere nella mia lingua. Ero l’unica a usare il linguaggio sessuato ed è capitato che donne della redazione lo correggessero, ritenendolo sbagliato. Spiegai loro che quella era la mia lingua che rendeva riconoscibili i miei articoli, correggerla voleva dire che quegli articoli non mi appartenevano più perché non rispecchiavano la mia soggettività. «Io non vi dico di scrivere come me ma lasciatemi la libertà di scrivere come voglio». E loro me l’hanno lasciata.
Più volte ho scritto pezzi sul senso dell’uso del linguaggio sessuato, partendo dalla cronaca. L’ ultimo “Quando una donna slega la parola dal suo corpo”, in risposta alla richiesta di Giorgia Meloni di essere chiamata al maschile, richiesta che ha cercato di imporre ai giornali e ai tg della Rai con una circolare ai direttori, ma non tutti/e hanno obbedito. Meloni parla il linguaggio che è, una donna fieramente emancipata in un mondo di uomini qual è il suo partito, che non a caso si chiama “Fratelli d’Italia”, e qual è il potere che lei ha scalato fino a rompere il tetto di cristallo per essere, sulla guerra, prova da sempre di virilità per gli uomini, più realista del re nei comportamenti e nel linguaggio bellicista. Ma non è l’unica. È vero che molte parole sessuate al femminile che nel passato facevano sorridere oggi vengono utilizzate da giornaliste/i anche nel mio giornale, ma molta è ancora la confusione, che è disordine simbolico, per cui in una stessa pagina o nello stesso articolo si alternano parole al femminile e al maschile neutro.
La mia esperienza di docente mi ha insegnato che il linguaggio sessuato si può insegnare, io l’ho fatto con il testo di Alma Sabatini, ma non lo si può imporre, lo si può solo mostrare parlandolo. Questo vale anche per le/i giornaliste/i per cui credo che i corsi di formazione, senza una trasformazione di sé, non siano sufficienti. A tal fine non aiuta né il linguaggio paritario né quello “inclusivo” che di fatto cancellano la soggettività femminile.
La questione essenziale, per me, resta cosa e come vogliamo narrare la realtà e questo vale soprattutto per la guerra dove è vero che è prevalso il linguaggio militarizzato, che ha lasciato ai margini quello della vita con cui donne e uomini, le cui storie sono centrali nei miei articoli, sin dall’inizio si sono opposte/i alla guerra, in Ucraina come in Russia. Il fatto che in Tv a parlare di guerra vengono invitati più giornalisti che giornaliste, sempre gli stessi, è funzionale alla narrazione che si vuole fare passare, zittendo e insultando chiunque se ne discosti, con l’accusa di “putinismo” e adesso di “antisemitismo”, se si parla di “genocidio” per Gaza. Giornalista coraggiosa è Francesca Mannocchi, i cui reportages che leggo sempre, su Gaza, Cisgiordania e Israele, mostrano una donna che si lascia toccare dalla tragedia della guerra che racconta con i volti, le storie, le sofferenze delle vittime e le brutalità e la violenza dei carnefici, chiunque siano. Una donna la cui autorevolezza non le viene dalla rottura del tetto di cristallo né dalla pubblicazione dei suoi reportages in prima pagina, ma da come si autorizza a narrare ciò che il suo sguardo di donna vede.
Noi donne nei giornali ci siamo, credo siamo la maggioranza, e siamo anche brave, resta però il problema di come ci stiamo là dove siamo. Io non ho mai fatto parte di una redazione, i miei articoli poche volte sono stati pubblicati in prima pagina, ma questo non mi ha mai fatto sentire ai margini. L’essenziale, per me, è avere la libertà di scegliere cosa raccontare e come, nella lingua che mi è propria.
L’astrattismo come postura del pensiero in economia e l’uso di parole ritenute neutre, come genere, hanno come immediato esito la negazione del pensiero derivato dall’esperienza e quindi legato ai corpi incarnati. Gli scritti di Ina Praetorius sono in tal senso illuminanti, e vale la pena riandarvi per farsi ispirare da un pensiero che funziona da antidoto al veleno astratto. Così come non è più possibile parlare di femminicidio come violenza di genere, anche qui astrattamente riferito a dei corpi generici: no, la violenza è molto materiale ed è rivolta contro le donne, in quanto tali.
Per le narrazioni fatte dalla stampa sulle guerre che altre e altri vivono, essere sul campo non è, secondo me, condizione sufficiente per contribuire a scompaginare le carte in tavola per una possibile ripresa di una negoziazione non rinviabile. Occorre anche evitare un linguaggio di totale contrapposizione: di qua solo i buoni, di là solo i cattivi, riportando un pensiero dicotomico perché sposa solo una ragione contro l’altra (e questo ben prima dell’ottobre ’23).
Ciò che resta fuori dall’orizzonte del giornalismo prevalente è il racconto delle esperienze (tante) del dissenso, della diserzione dalla guerra, le esperienze (di nuovo, non di concetti astratti) di cooperazione, di faticoso dialogo intessuto da entrambe le parti in causa. E questa omissione, insieme alle mancate parole, è politica. Come diceva Cecilia Alagna nel suo intervento, prevale la dittatura del pensiero sintetico, incapace di riunire nel breve un’intenzionalità verso la comprensione e il riconoscimento dell’altro, in totale assenza di mediazione (educati come siamo dalla lingua dei social, lingua priva di pensiero in atto).
Anche in Italia esistono associazioni, gruppi eccetera che tentano di far coesistere, di far incontrare soggettività altrimenti distanti e contrapposte, ma anche qui prevale il pensiero dicotomico, di totale e acritica contrapposizione, figlia anche di una colpevole ignoranza della storia.
Se la guerra, come penso che sia, è nella sua essenza una modalità relazionale, manca ancora una efficace mediazione in grado di far risaltare la complessità da un lato, e la volontà di uscire dallo scontro totale dall’altro lato.
Quando fra i banchi dell’università appresi la distinzione fra langue e parole accettai supinamente e senza troppo pensarci l’idea che potesse esistere un aspetto “oggettivo” e uno “soggettivo” della lingua quasi annebbiando la natura convenzionale, e quindi politica, della langue; al tempo stesso questa passività strideva con il mio costante pensare e ripensare al significato delle parole e all’uso che di esse si faceva comunemente, spesso dannandomi o per l’uso improprio che si faceva di alcune o non concordando col significato convenzionale di altre. Grazie soprattutto al femminismo oggi possiamo dire che la lingua è politica e la parola è personale e che esse non sono due campi separati né separabili, nemmeno formalmente: dire che la lingua è politica significa far decadere la pretesa di carattere oggettivo pur mantenendo la dimensione convenzionale e significa anche insistere sul fatto che la lingua e le parole hanno a che fare con le relazioni di potere.
Le parole sono per me una mediazione fra l’esperienza che ciascuna di noi è/fa, la capacità di dirla e quanta possibilità di dirla esista; il mondo umano è un continuum semiotico1 nel quale veniamo immerse fin dalla nostra nascita, esso cambia forma, densità, funzionamento e struttura con l’umanità stessa. Ne Il materialismo dell’anima la filosofa Chiara Zamboni dice che ciò che chiamiamo anima è l’invisibile del visibile2; ripensando a queste parole mi sembra di poter osare di dire che persino il discorso ha “un’anima”: la parola è l’udibile e il visibile, cioè ciò che ci appare ai sensi, la relazione è l’anima. Se la relazione è l’anima del discorso e la relazione è politica allora i mezzi con cui si veicola la parola, la frequenza e il ritmo agiscono sulla forma in cui procede il mondo umano e ciò rende intuibile la direzione dell’umanità. Date queste premesse e se osservo l’oggi mi è evidente che la parola sorge in un campo di assenza di mediazione, cioè secondo il principio di immediatezza. Oggi si scrive e si comunica molto di più rispetto al passato, grazie a una tecnologia che ha reso irrefrenabile e infestante il dovere di comunicare con riferimento soprattutto alle applicazioni di messaggistica istantanea e ai social. Termini come “istantaneo”, “tempo reale”, “a caldo” non sono più descrittivi della potenzialità della tecnologia ma sono diventati espressione di una pratica relazionale che si manifesta nell’invito alla spontaneità coatta, all’essere sempre “dirette”, “in diretta” e “sul pezzo” soprattutto sui social, così che ciascuna si ritrova più o meno volontariamente nella condizione di continua e compulsiva autopresentazione3 senza avere il tempo per pensare.
Sottrarsi per continuare a pensare viene visto quasi con sospetto, soprattutto quando viene chiesta una presa di posizione su questioni che la macchina della comunicazione obbligatoria ci presenta come indifferibili e di primaria importanza tanto più quando la presa di posizione significa inserirsi in schieramenti contrapposti a beneficio del funzionamento dei social. Nonostante sia non di rado logorroica mi capita altrettanto spesso di non pronunciarmi su molte questioni e non perché non abbia un mio punto di vista, ma perché non desidero essere istantanea; mi piace restare sulle questioni soprattutto insieme ad altre per ascoltare e per porre domande. Ad aprile, per esempio, mentre scrivevo un contributo sulla mia esperienza in autocoscienza e riflettevo su questioni come “mentire su di sé”, “autotutela” e “autodifesa” mi è sembrato di non riuscire a cogliere gli aspetti della questione correndo quindi il rischio di scrivere una lamentazione sulle donne in autocoscienza; così ho chiesto alle amiche dell’autocoscienza di parlarne insieme. Il risultato è stato che ciascuna di noi ha riversato in quelle parole il suo vissuto facendo emergere un quadro complesso e multiforme: i confini erano porosi e lo scorrere dei significati mutava in base alle esperienze di ciascuna. Avevamo parlato delle parole ma anche delle nostre esperienze, del nostro modo di vedere e stare nel mondo. La parola umanizza, personalizza. Hannah Arendt diceva che «per quanto intensamente possano colpirci le cose del mondo, per quanto profondamente ci possano commuovere o stimolare, esse diventeranno per noi umane solo quando potremo discuterne con i nostri simili»4.
Cosa sarebbe successo se avessi adottato la pratica dell’immediatezza individualista a una questione delicata come lo è lo scrivere del “mentire su di sé”? La scelta di parlare delle parole, che è quello che poi ho sostanzialmente fatto in quell’occasione, è una pratica di mediazione; parlare delle parole significa sia stare in un processo specifico, sia poter scegliere in quali altri processi stare e come agire. Non bisogna illudersi che essa sia una pratica sempre portatrice di quiete, anzi conflitto, divergenze, esperienze dolorose sono all’ordine del giorno tanto quanto lo è esperire similitudini, riconoscimenti reciproci e somiglianze euforiche, ma solo così possiamo agire il potere. Nella riflessione su Lessing Arendt dice che «forza e potere non sono la stessa cosa; il potere infatti sorge esclusivamente là dove delle persone agiscono insieme, ma non là dove la loro forza cresce solo individualmente»5. In questa prospettiva la guerra e la forma in cui avviene oggi la comunicazione sono una manifestazione della forza in una contrapposizione di individui e macro-individui in cui solo la dimensione quantitativa ha valore e in cui la qualità e la diversità vengono fagocitate dalla forza numerica. Col Novecento si sono disciolte le ideologie ma non la società di massa che anzi ha trovato vigore nell’avanzamento galoppante delle tecnologie e delle scienze, dimentica di quanti orrori fossero stati commessi grazie alle scienze, esattamente come grazie alle filosofie e alle religioni, a partire dalla riduzione – ancora attualissima – degli esseri umani alle sole dimensioni di utilità e funzionalità. In un “mondo di massa” in cui bisogna prendere parola in modo immediato e in cui i tempi del pensiero personale e del pensare insieme vengono sempre più ridotti e stritolati in una morsa fra scientismo e profitto capitalista, l’infiltrazione della guerra non riguarda solo i campi semantici (battaglia, shitstorm, abbattere) ma anche il ritmo del ciclo pensiero-parola (il tempo che intercorre fra l’udire la caduta della bomba e la deflagrazione, per intenderci). Arendt però credeva, e lo credo anche io, che «nessuna forza sarà mai abbastanza grande per sostituire il potere; ovunque la forza si confronterà con il potere soccomberà sempre»; insistere perché le questioni non vengano chiuse e non siano pensate come date una volta per tutte e coltivare le relazioni di scambio/mediazione mi sembrano ciò che è alla nostra portata per mutare la direzione. Parlare-delle-parole è agire il potere e non la forza.
- Rocco Ronchi, Teoria critica della comunicazione, Bruno Mondadori 2003, pag. 19. ↩︎
- Chiara Zamboni, “Il materialismo dell’anima”, in La sapienza di partire da sé, a cura di Diotima per Liguori Editore 1996, pag. 160. ↩︎
- Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino 2009. ↩︎
- Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui, Mimesis 2023, pag. 47. ↩︎
- Ibid., pag. 45. ↩︎
Sono una scrittrice e mi occupo di narrativa, poesia, articoli e recensioni. Le parole e il linguaggio sono il mezzo che mi permette di scandagliare il mondo e di dargli un senso, ma anche (almeno nella narrativa) il luogo di una ricerca che possa produrre uno scarto rispetto all’esistente per concepire delle visioni alternative. Quando creo una storia o compongo una poesia, scrivere diventa incanto e metamorfosi, un rituale dove ogni parola conta e il loro insieme costituisce un modo per modificare la realtà. Il fine ultimo è quello di creare un universo potenzialmente rivoluzionario ed eccentrico rispetto al centro del potere decisionale e politico. In questo universo parallelo, le donne e tutte le persone discriminate e collocate in posizione marginale per via del genere, dell’etnia, dell’orientamento sessuale, della cultura o spiritualità di appartenenza possono dar corpo alla molteplicità delle proprie voci per costruire nuove verità e nuove visioni, finalmente libere dal dominio e dall’oppressione.
Nel far questo, ma anche nell’interpretare ciò che scrivono altre persone, il linguaggio si rivela sempre come uno strumento politico. In quanto donna femminista, analizzo ciò che vedo, leggo e scrivo a partire dalla mia posizione politica, culturale ed esistenziale, scegliendo storie o percorsi che in qualche modo rivelano quanto ho espresso sopra, o smascherando le contraddizioni di quelle opere che si vorrebbero eccentriche ma che in realtà si scoprono essere problematiche. Per quanto mi riguarda, fare letteratura è sempre un modo per creare i possibili mondi futuri, o indovinarne percorsi inediti analizzando il presente e il passato, riscrivendoli in modo più aperto ma anche più critico, che non cancelli le voci divergenti o gli sguardi diversi, ma anzi li renda visibili, tangibili, irrinunciabili.
In un mondo ormai fatto di fake news, hate speech e continuo revisionismo non solo della storia passata ma potenzialmente dell’intera civiltà umana, compreso l’istante presente corrotto dal volgare chiacchiericcio e dalla polemica sterile, coltivare ed esercitare il proprio spirito critico è necessario e vitale, per non soccombere all’ignoranza e all’oblio. Sono d’accordo con Laura Colombo quando afferma che il dilagare dell’astrazione rispetto alla precisione nel linguaggio contemporaneo dei social media e della politica possa produrre disorientamento in chi non si riconosce in questo uso deleterio dello strumento comunicativo per eccellenza; citando Chiara Zamboni, Colombo precisa inoltre come il linguaggio dominante produca sempre una forma di alienazione, e mi ritrovo pienamente in questa condizione: in quanto donna femminista, sono sempre partita dal constatare di ritrovarmi in una posizione di alterità ed eccentricità rispetto al potere, perché mi aliena e non mi rappresenta e mio compito è dunque quello di combatterlo (e se possibile abbatterlo). Marina Santini parla anche di “afasia” nel constatare un rifiuto (per me quasi inconscio) di rapportarsi agli attacchi frontali e all’aggressività continua che esponenti dei mass media e della politica utilizzano di continuo, finendo per stritolare il linguaggio e cancellandone la bellezza.
Credo che tutte noi ci sentiamo parte di questa condizione. Personalmente, da diversi mesi ho interrotto quasi totalmente l’abitudine di postare contenuti sui social media, pur essendo consapevole che per una scrittrice questa decisione costituisca una condanna all’oblio, ma in un mondo fatto di corti circuiti e casse di risonanza, ha davvero senso pensare a inseguire i like, piuttosto che costruire senso, e sperare che qualcuna/o possa leggere ciò che ci siamo sforzate di scrivere? Credo che uno dei paradossi più drammatici della nostra fase storica sia che ci ritroviamo dentro un enorme contenitore che si sta trasformando in un contenuto fagocitante che rende la condivisione e la convivenza sempre più aleatorie: la parola scritta e il linguaggio sono ovunque, moltiplicati all’infinito; chiunque può scrivere quello che vuole quando vuole e dove vuole, e questo invece di produrre pluralismo e pluralità di voci produce azzeramento, perché tutto si perde e nulla rimane, salvo poche eccezioni che costituiscono la cresta effimera di un’onda che presto si schianterà a riva. Solo che non si tratta di costruire un mandala per ricordarsi della caducità degli accadimenti umani, come nella pratica buddhista; direi che è tutto il contrario, un ridurre il mondo della comunicazione, dello stare insieme e del parlare, a una discarica, dove se urli forse puoi sperare di farti sentire per quindici secondi.
Bisogna dunque vedere le cose da un’altra prospettiva, fare propria la consapevolezza che tutto ciò che diciamo e scriviamo si perda ma provarci lo stesso, perché non abbiamo alternative. E porsi anche delle domande. Innanzitutto, se lo scopo è quello di comunicare qualcosa di vero, che vada al di là dell’argomento di tendenza momentaneo e del linguaggio frenetico e istantaneo (spesso anche grammaticalmente scorretto e frettoloso sia concettualmente che sintatticamente), il social network o l’instant book sono sempre e comunque il mezzo giusto per farlo? Magari, prendersi una pausa ogni tanto, soprattutto non leggere i commenti né farli, fare un passo indietro insomma, come suggerisce Vera Gheno, può essere salutare. Inoltre, davvero le cose sono così cambiate rispetto al passato, quando i social network non esistevano? Sì, lo storytelling sta minando la nostra capacità di condividere sostanza e di comunicare qualcosa che produca senso e non un mero insieme di suoni – Byung-chul Han parla giustamente di “crisi della narrazione”, e già nel 2017 profetizzava che lo shitstorm sarebbe diventato la norma del comunicare urlato e distorto in cui ci ritroviamo nostro malgrado. Però mi viene anche da dire che forme di controllo e di distorsione del linguaggio siano sempre esistite, ad esempio nella propaganda e nella retorica usata dai quotidiani e dalle radio sotto i regimi dittatoriali o durante i conflitti bellici. Il potere ha sempre esercitato un controllo sulle persone cercando di annebbiarne le coscienze e di condannare la loro esistenza alla barbarie, e tante epoche storiche hanno visto il prevalere della distruzione del tessuto sociale, culturale e politico sulla convivenza civile, anche attraverso un uso aggressivo del linguaggio e della forza. Mi viene da pensare al Terrore Bianco, quella fase violentissima della storia della Cina moderna in cui il governo nazionalista ordinò la cattura, la tortura e l’uccisione pubblica di tutte le oppositrici e gli oppositori del regime, non ultime le femministe, che vennero anche stuprate e mutilate pubblicamente per mostrare alla popolazione cosa succede se una donna osa ribellarsi alla camicia di forza che il patriarcato le ha cucito addosso. Quello che è cambiato non è tanto il mezzo attraverso cui esercitare il controllo ma l’invasività di tale mezzo, la cui diffusione capillare in potenzialmente ogni angolo del globo (laddove i quotidiani e la radio irradiavano la propria influenza in modo più circoscritto nell’arco dell’esistenza umana, perché un giornale o una radio li puoi chiudere o spegnere, mentre un telefono, avendolo sempre in tasca, avrai sempre lo stimolo a usarlo viste le sue innumerevoli e oramai insostituibili applicazioni e funzioni) rischia di distruggere tutto quello in cui ci riconosciamo come creature umane e parte di una comunità. Già ciò che facciamo è disgregato in messaggi, slogan o like effimeri, che nulla aggiungono alla qualità delle nostre vite, anzi la snaturano. Ha senso dunque ostinarsi a adattarsi a tale forma di comunicazione, o non sarebbe meglio piegarla (per quel che è possibile) al nostro volere, scrivere e condividere solo quello che riteniamo veramente sensato e necessario per la nostra crescita, e per dare spunti a chi ci legge?
Sarà anche vero che se sei una scrittrice ma non sei sui social network o non posti regolarmente nessuno ti vede (che è un po’ come il «se un albero cade su una foresta ma non se ne parla su instagram ne sentiamo il suono?» di cui parla Daniela Santoro) ma postare di continuo ti rende davvero più visibile se non avevi già visibilità in partenza? In altre parole, solo se hai già un nome in quanto personaggia/o di fama allora puoi aspirare a tanti followers, altrimenti, ti ridurrai ad avere la tua piccola tribù, fatta di dieci persone che ti seguono, che non porterà a nulla se non ad alimentare il tuo ego. Non credo abbia senso. Rinunciare a comunicare non può essere la soluzione, ma bisogna trovare la forza di farlo in maniera intelligente e non accontentarsi dell’effimero. Ritengo che se vogliamo fare senso e dunque politica quando scriviamo sia nostro dovere scavare a fondo per ritrovare la vitalità che solo la parola e il raccontare storie riescono a darci, usare il linguaggio da una posizione eccentrica e critica rispetto al potere, e quindi in qualche modo sperare nell’utopia del possibile. Per chi scrive in particolare, penso sia anche un modo di “inventare il futuro”, per dirla con Nick Srnicek e Alex Williams, un modo per aprire le faglie della realtà e dipanare una possibile via di fuga dal potere e dalle sue forme di controllo, smascherarle dunque ma anche ribaltarne i meccanismi e costruire mondi dove non solo uno sguardo eccentrico sia possibile, ma si riesca anche a superare il confine stesso fra centro e margine, viaggiando direttamente lungo le venature di giada che soggiacciono alle cose. Aggiungerei che per me il linguaggio e la scrittura sono i luoghi dell’utopia dell’indagare forme nuove di convivenza e di trasformazione. È questa per me l’essenza del fare letteratura e tessere l’arazzo della scrittura a tutti i livelli e oltre i confini di ogni genere: intonare il proprio canto alla metamorfosi, o all’irriducibile mistero dell’esistere. L’idea stessa di poter cambiare il mondo scrivendo, o indagando il reale e il suo invisibile rovescio nelle pieghe della scrittura, è per me un’utopia. In un mondo in cui la narrazione e il cantare storie sono costantemente minacciati dall’imperversare dello storytelling effimero e superficiale imposto dai social network, scrivere diventa di per sé un atto utopico, e dunque un atto politico.
Ma l’utopia, per me che non sono né linguista né filosofa, si estende anche ad un dialogo possibile fra due universi all’apparenza inconciliabili: da una parte, il riconoscersi nell’istanza femminile e femminista posizionandosi come donne a partire dal dato biologico, oltre che culturale; dall’altra, il riconoscersi nell’istanza (trans)femminista posizionandosi come persone all’interno dello spettro LGBTQAI+, che comprende anche le donne ma non solo le donne. L’aver assistito sia a una conferenza pubblica di Judith Butler presso l’Università di Bologna (e online) che all’incontro della redazione di Via Dogana 3, non ha fatto che rafforzare una convinzione in me già radicata da tempo: le due posizioni non sono così lontane come potrebbe sembrare, almeno da chi come me le osserva dall’esterno. In entrambi i casi, ci si interroga sull’uso del linguaggio, si analizza e si decostruisce il potere e si fa politica non riconoscendosi come parte della narrazione e della rappresentazione dominante. Per quanto mi riguarda, se lo scopo è cambiare la realtà e rendere l’utopia possibile anche solo per un istante, ossia all’atto pratico combattere il dilagare della destra e del suo discorso oppressivo sui corpi, sulle identità e sull’esistenza, bisogna trovare un linguaggio comune e superare le divergenze, altrimenti non si produrrà mai quel salto necessario ad inventare il futuro. Nella mia scrittura, e nel mio analizzare la scrittura altrui, cerco di accogliere entrambe le istanze perché le ritengo entrambe valide in quanto eredi di un’esperienza di lotta per molti versi parallela e comune, se pensiamo a quante realtà del pensiero e delle azioni siano nate dalle proteste degli anni ’50 e ’60 nel mondo anglosassone (che, scrivendo anche in inglese, per me è un punto di riferimento culturale e politico importante, anche se non esclusivo). Sono contemporaneamente a favore dell’uso del femminile e dell’uso di una desinenza che possa accogliere tutta la pluralità delle differenze nella lingua italiana, e non vedo contraddizione in questo perché la ritengo la forma più vicina all’utopia che ci possa essere, l’espressione non di un’inclusione (parola che trovo paradossale in quanto donna che lotta per creare un mondo utopico e aperto rispetto a una realtà monolitica e di per sé escludente in partenza), ma di un’apertura alla molteplicità di fronte al potere che fa di tutto per negarla. Dal mio punto di vista, ritengo che i due discorsi possano cercare un punto di incontro, dando alla lingua e ai corpi la possibilità di modificarsi a seconda delle circostanze; fermo restando che parlando di me stessa e di donne non esito a usare la desinenza al femminile plurale, probabilmente se dovessi scegliere una desinenza che possa esprimere questa idea di apertura in tutta la sua pienezza, non userei lo schwa, che mi sembra anche graficamente una figura che si ripiega su se stessa, ma una forma di abbraccio, magari simile a un &&&&&, come fa (probabilmente in senso provocatorio) Arca nel suo omonimo disco. Un accogliere, non un cancellare.
Se un albero cade in una foresta ma nessuno ha messo una storia su Instagram, fa rumore?
Quando nei primi anni 2000 si sono uditi i primi vagiti dei social network sapevamo che avrebbero rivoluzionato il mondo ma non fino a questo punto. Per gran parte della popolazione (quanto meno tra under 20-30-40) sono diventati la prima forma di scambio, informazione, esistenza. Il nostro modo di comunicare si è scontrato con una nuova realtà, con le sue regole confuse, i suoi algoritmi misteriosi, le moderazioni prima umane poi sempre meno umane, e ne ha incassato i colpi. Non solo, la realtà si è rimpicciolita in uno schermo che va dai sei ai sette pollici e, di conseguenza, distorta per poter essere rappresentata in uno spazio così infinitesimale che ha la pretesa di farcela entrare tutta quanta.
O forse siamo noi ad avere questa pretesa: a cercare di far conoscere a tutti la nostra visione del mondo, il nostro punto di vista, il nostro lato di noi che preferiamo. Così, troviamo slavate e intramezzate da selfies e codici promozionali immagini dilanianti della guerra, oppure la nostra foto in fila al seggio elettorale per far sapere a tutti che «sì, io vado a votare. Io sono un cittadino modello. Io».
È una politica avulsa dalla relazione, che vive in una cassa di risonanza in cui ci si dà continuamente pacche sulla spalla da soli, in cui non esiste il confronto, in cui esiste solo l’attacco e la difesa, in cui c’è un solo centro, un solo riflettore: io. Non è più il personale politico, ma il politico che diventa personale. Non solo è cambiato il linguaggio politico, ma i social hanno cambiato lo spazio politico, e come il soggetto lo vive. Così della politica non resta che una foto della durata di ventiquattro ore con cui ci ungiamo il capo, che diventa parte della nostra presentazione al mondo: l’ennesimo badge da mostrare nella selezione delle parti migliori di sé. Così nasce questa idra a tre teste: l’influ-attivismo, o almeno così ho parafrasato da una recente diatriba tra cd. influ-attiviste (oh, loro si sono chiamate così!) apertasi (e chiusasi) su Instagram. Diatriba svolta a suon di varie storie ricche di testo e prive di parole, in cui due personalità del mondo “politico” social si accusavano a vicenda di questo o di quello. Vorrei potervi dire di più, ma l’ho seguita poco: mi è sembrato surreale dedicare la mia attenzione a una inutile battaglia di ego, mentre arrivavano notizie sempre più tragiche dal fronte palestinese.
In un mondo in cui non solo le grandi influencer (vedi Ferragni e pandoro-gate) ma anche quelle ragazze che fanno dell’attivismo online il loro mestiere sembrano completamente sconnesse dalla realtà e devote solo alla loro immagine, la libertà femminile, la pace, la democrazia – di cui queste ultime si fanno portavoce –, diventano schiave dell’algoritmo, al nostro seguito.
Quando la storia più ri-condivisa dell’ultimo periodo è un’immagine generata artificialmente di un campo profughi a Rafah vuol dire che in questo lato del mondo il senso della politica è sparito, inglobato dall’esigenza di mostrarsi più sensibili, più informati, più impegnati. Non solo, i 47 milioni di ri-condivisioni spesso silenziano altre iniziative, altre voci – come quelle del gruppo “Mai indifferenti” di Renata Sarfati, e non solo.
Spesso mi sono chiesta come siamo arrivati a questo punto e che cosa possiamo fare per contrastare questa deriva che sembra fuori dal nostro controllo. Penso che la perdita della politica reale in favore di quella virtuale sia legata alla privazione degli spazi. La mia generazione ha subito più di altre la cementificazione dello spazio pubblico, concomitante con gli albori dei social network. Così, mentre fuori si asfaltavano i parchi e si chiudevano i centri sociali, si apriva una nuova vita, un nuovo luogo terzo che abbiamo iniziato ad abitare ignari di quanto sarebbe in futuro diventato primario.
E ora la mia generazione ha una grande responsabilità: quella di riportare la politica fuori dalle logiche degli algoritmi, fuori dalla censura dei vari CEO, fuori dalla monetizzazione della vendita dei nostri dati. Abbiamo il dovere, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni che si stanno plasmando, di riprenderci i luoghi della politica aperti sulla strada, non indicizzati su Google. E lo sta facendo: basti pensare ai picchetti per la liberazione palestinese in Università, un luogo che aveva ormai perso tutto il suo valore politico nella maggior parte dei casi per svendersi al miglior offerente. Non solo ciascuno nel suo piccolo, e qui forse parlo per mia personale esperienza, ha cercato di cambiare la logica dell’algoritmo, portando avanti la propria voce, fatta di pensieri e comunità: il progetto delle Compromesse, che poi mi ha indissolubilmente legato a quello analogo di VD3, è nato con l’idea di portare altro (e d’altronde non ci abbiamo mai tirato su un euro!) nella cassa di risonanza del femminismo-pop.
Forse sono un po’ troppo ottimista, ma siamo sulla buona strada: per ricostruire il futuro, abbiamo la responsabilità di ricongiungerci con il nostro passato, con la nostra storia e di ritornare a quel primato della parola ormai soppiantato dal primato dell’immagine.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Lingua è politica, 9 giugno 2024
La lingua è sempre politica e lo è ancora di più per chi di ne fa il proprio strumento di lavoro, uno strumento da maneggiare con molta cura.
Per noi giornaliste attiviste di GiULiA (Giornaliste Unite Libere Autonome), è un impegno quotidiano da dodici anni, rispetto al quale abbiamo assunto una posizione precisa: la lingua deve rappresentare tutti e tutte, deve essere declinata secondo i generi, non può essere neutra e quindi nemmeno falsamente neutrale. A volte per questa nostra insistenza ci hanno dato delle fanatiche. Ma che la lingua sia politica ce lo ha rappresentato molto efficacemente, al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, la nostra presidente del consiglio, definita non a caso dall’house organ Libero “L’Uomo dell’anno”. La prima cosa che ha fatto Giorgia Meloni appena si è insediata al governo è stato imporre il maschile sui documenti ufficiali per il suo incarico, mandando una circolare a tutti i media. Un modo per rimettere le cose a posto: rispetto all’orizzonte valoriale della destra che lei rappresenta, “Giorgia” è e deve rimanere un’eccezione, che va normalizzata attraverso le parole, rimettendo nei ranghi una leadership femminile che solo eccezionalmente, per meriti individuali, ha rotto il soffitto di cristallo. Pronto a richiudersi alla prima occasione. Ed è su questo “eccezionalismo”, anche linguistico, che si struttura tutta la sua narrazione. Durante il suo insediamento in Senato persino il suo braccio destro Davide Rampelli, uomo forte di Fratelli d’Italia, si è dovuto correggere, perché aveva usato il femminile, ormai entrato persino nella grammatica istintiva di un uomo di destra. E, giusto nell’ultimo congresso di Vox, l’hanno presentata come “la Presidenta”. Sarebbe comico se non fosse che questa pervicace volontà di ingranare la retromarcia della storia per imporre un punto di vista esplicitamente “reazionario” sulla lingua non si caricasse anche di un’enfasi bellicista: si combatte tra un noi e un loro sul corpo della lingua, per poi proseguire direttamente sui corpi fisici delle donne. Il femminile considerato svalutativo e il maschile come legittimazione politica sono le armi di riproduzione di massa delle discriminazioni di genere, a cui seguono l’enfatizzazione di parole come “madre” e “maternità”, usate in questo caso come corpi contundenti contro la libertà femminile, con tutto lo spiegamento della propaganda sul tema della natalità e della progressiva delegittimazione della legge 194 che espropria le donne della loro autodeterminazione per una superiore ragione di stato.
Va detto che sulla questione dell’imposizione del maschile i media si sono in generale sottratti. Non la Rai, o per lo meno non tutte le reti e non tutte le trasmissioni, pur avendo l’azienda pubblica sottoscritto da anni documenti di policy interne che vanno nel senso un uso non sessista della lingua. La situazione, quindi, può certamente peggiorare. Ma vale la pena sottolineare anche i segnali di cambiamento. Nei nostri corsi di formazione per giornalisti all’inizio, dieci anni fa, ci capitava di fronteggiare irrisioni e aperte critiche quando parlavamo di sindache e ingegnere, ora succede che i colleghi anche uomini – sempre di più quelli che partecipano ai corsi sul linguaggio di genere – ci chiedano come convincere le ministre e le avvocate intervistate che si ostinano a preferire il maschile.
L’asprezza di toni però si è spostata direttamente sul terreno politico e poi di rimbalzo sui social. È stupefacente constatare quanto odio misogino si scateni sulle questioni del linguaggio, evidentemente vissute come una minaccia all’ordine patriarcale costituito, e come le attiviste e le giornaliste più impegnate su questi temi siano costantemente bersaglio di hate speech online. Abbiamo visto cosa ha provocato contro di lei l’evocare, da parte della sorella di Giulia Cecchettin, l’uso di una parola come “patriarcato”. E tutta la vicenda intellettuale e umana di Michela Murgia incarna esattamente la portata politica e la sua martirizzazione proprio per la sua battaglia sul linguaggio. O Vera Gheno, un’altra donna nel mirino degli hater. Per non parlare dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini, vittima di shitstorm perché ha osato portare quelle istanze nelle sedi istituzionali.
Nel nostro lavoro di advocacy e di analisi sui come i media affrontano le questioni di genere, noi misuriamo non solo l’utilizzo delle parole “sbagliate”, ma anche il sistematico nascondimento del ruolo positivo delle donne della società, delle loro competenze, fino alla loro stessa esistenza al di fuori del cliché della vittima, della stuprata, dell’ammazzata. Da alcuni anni conduciamo una rassegna stampa mensile, intitolata Sui generis, dove proprio partendo da una suggestione di Michela Murgia, contiamo e dividiamo per genere le firme in prima pagina, gli editoriali e i commenti, le interviste, su una quindicina di giornali, per una settimana al mese. Le giornaliste rappresentano il 50% della forza lavoro, ma in prima pagina firmano quando va bene il 25% degli articoli, stessa percentuale per le donne intervistate. E si scende sotto il 20%, ultimamente anche sotto il 15%, per quanto riguarda i commenti e le analisi firmati delle donne. Questi dati che raccogliamo in modo del tutto empirico grazie al lavoro delle volontarie di GiULiA sono in totale sintonia con quelli ben più scientifici del Global Media Monitoring project, che ogni 5 anni dal 1995, sulla scorta di quanto raccomandato alla conferenza Onu di Pechino per quanto riguarda il ruolo dei media nel contrasto alla discriminazione delle donne, misura il grado di rappresentatività di genere dei media a livello globale, usando criteri quantitativi e qualitativi: quante notizie sulle donne ci sono, come se ne parla, e chi ne parla. Il tema della diversity, della pluralità delle voci per aprire a sensibilità, visioni e punti di vista differenti perché basati su differenze è diventato un tema di tendenza, ma la verità è che nei nostri media la diversity è ancora molto scarsa.
Un punto cruciale riguarda le esperte e le commentatrici interpellate da giornali e televisioni per analizzare la realtà: sono poche e dalle nostre rilevazioni durante la guerra sono ulteriormente diminuite. Così come erano diminuite anche in un altro momento di forte tensione, durante la pandemia. C’è il famoso titolo di Svetlana Aleksievič La guerra non ha un volte di donna. Per parafrasare si potrebbe dire che sui giornali non ha nemmeno voce di donna, con le dovute eccezioni. In questo modo si cancellano punti di vista e sensibilità diverse preziose. Per esempio ci sono ormai molte indagini che mostrano come quando si parla di temi economici le economiste di solito abbiano uno sguardo più lungo e insieme concreto, si soffermano di più sulle conseguenze sociali sulla lunga distanza, danno corpo sociale ai dati. Altri studi legati al Global Media Monitoring project suggeriscono che anche nella narrazione bellica la prospettiva delle reporter tende ad essere sensibilmente diversa da quella dei colleghi.
Parole e guerra, quindi. La guerra moltiplica lo squilibrio di genere sul campo e sui media. Per sua natura è sessista, rimette in riga i ruoli del patriarcato, le donne diventano beni da difendere, corpi abusati. Agli uomini viene chiesto di spiegare e interpretare il conflitto in molti ruoli diversi: combattenti, signori della guerra, esperti e politici. Le donne, invece, sono raramente interpellate sulle loro opinioni riguardo al conflitto in generale e, se lo sono, di solito lo fanno dal punto di vista della donna o della vittima. Lo scenario sta cambiando: ci sono tantissime e bravissime inviate di guerra che in larga misura hanno una postura diversa da quella dei loro colleghi e molte di loro lo rivendicano. Nella narrativa maschile prevale ancora il linguaggio bellico, una retorica molto forte dell’apparato e della tattica militare, il mito dell’eroe, mentre generalmente le reporter fanno un racconto che demitizza la guerra e se mai illumina gli effetti dell’azione militare sulle persone e sui loro corpi, concentrandosi sulle singole storie che sopravanzano le statistiche o i calibri dei missili. Demitizzare significa fare fact checking: quando si è dato voce al protagonismo femminile esaltando le soldate curde di Kobane, le si è romanticizzate, le si è sessualizzate, erano tutte belle, erano tutte eroine. Ma come ha raccontato l’inviata Marta Serafini del Corriere della sera che è andata a intervistarle, molte di loro non erano davvero volontarie, non avevano nessuna voglia di andare a combattere ma erano in qualche modo obbligate ad andare in guerra dal contesto: si è preferito prendere quello che offriva la propaganda, perché era più “sexy”, senza verificare.
Le reporter parlano dell’essere donna sul campo di guerra come di un vantaggio, più che un limite, perché apre porte di solito chiuse, in contesti tradizionali e misogini, apre quindi anche cuori e voci altrimenti non ascoltati. Basta vedere i reportage di Lucia Goracci dal Medio Oriente nello scenario dell’ultimo conflitto. Clarissa Ward, la famosissima giornalista della Cnn che per due volte è andata in missione in teatri di guerra mentre era incinta, ha detto chiaramente che anche la sua condizione ha cambiato la sua prospettiva e il suo punto focale mettendola nei panni delle donne incinte che non hanno scelta e vivono in quei contesti. Per questo è stata duramente criticata. Ward inoltre è andata oltre la pura cronaca e nel 2016 di fronte all’assemblea dell’ONU ha chiesto di smettere di raccontare in modo superficiale il conflitto in Siria, paragonandolo all’inferno sulla terra e concludendo che in Siria, di fronte a quella distruzione, non ci sarebbero potuti essere vincitori. Esattamente un punto di vista che ritroviamo nei reportage di un’altra famosa inviata di guerra, Francesca Mannocchi.
Volendo forzare una similitudine, la sensibilità e l’attenzione alle cause, ai processi, alle conseguenze, invece che al singolo fatto avulso dal contesto che lo origina, è una pratica di giornalismo proattivo che mettiamo in campo anche quando parliamo di violenza di genere e cerchiamo di uscire dal frame narrativo dell’atto singolo inspiegabile, del raptus improvviso, per illuminare un femminicidio come un’azione che trova le sue spiegazioni solo all’interno di un sistema di relazioni oppressive.
Tante bravissime giornaliste di guerra, preparatissime, che conoscono nei dettagli le storie e la storia, molto spesso anche la lingua dei posti in cui operano, riempiono, per fortuna, le pagine interne dei giornali ma solo saltuariamente rompono il muro della prima pagina, del commento e dell’analisi. C’è ancora quindi molto lavoro da fare per colmare questa assenza.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Lingua è politica, 9 giugno 2024
Inizio con una citazione tratta dal libro di Melita Richter Malabotta Guarire mondi in crisi, letto su suggerimento dell’amica Luciana Tavernini.
Siamo intorno al 1995: l’autrice cerca a Zagabria per «alcuni amici che seguivano un corso di lingua all’Università Popolare di Trieste un libro di testo di “croato-serbo”, […] un buon libro di testo. Nella libreria – continua la Richter – non vollero vendermelo. Lo avevano ma non lo vendevano più. Per quell’abbinamento “croato-serbo”. Ritirato. Quasi si trattasse di stampa nemica. E mi guardavano con astio per il solo fatto che avevo osato chiederlo. […] Lo stesso astio che notai nella risposta della commessa di una nota salumeria quando chiesi dei “viršli” (Würstel) parola sempre usata a Zagabria. “Non li abbiamo”, disse la commessa. “E quelli lì?”. “Hrenovke, signora. Noi non vendiamo viršli, solo hrenovke”».
La guerra dei Balcani è diventata anche una guerra sulle parole. Oggi trent’anni dopo, anche qui da noi, assistiamo nel linguaggio dei media a uno scivolamento verso termini guerreschi.
L’incontro odierno vuole portare elementi di consapevolezza sull’uso delle parole, su come si forniscono le notizie e gli effetti che producono. Mentre con il Vietnam molta parte dell’informazione suscitava il rifiuto della guerra, dal ’91 (prima guerra del Golfo) in poi, come dice Ida Dominijanni, l’informazione induce a prendere posizione “per i buoni”. È la guerra giusta. Di quello che accade sul campo non veniamo a sapere nulla. Il dissenso nasce col giornalismo di prossimità che restituisce l’esperienza della guerra di chi la fa e di chi la subisce: mostrare la guerra produce reazioni avverse alla guerra stessa. Se all’inizio dell’invasione le numerose interviste e immagini delle donne ucraine hanno favorito una sorta di empatia nell’opinione pubblica occidentale, poco o niente è accaduto con le donne palestinesi.
Pochi giorni fa, ho visto l’installazione Art for the Art World Surface Pattern del 1976 di Adrian Piper al PAC di Milano. Una minuscola stanza è interamente tappezzata di immagini ripetute tratte da giornali che riportano vari tipi di atrocità avvenute nel mondo. Su queste immagini, in rosso, è impressa più volte la scritta provocatoria “Not a Performance”, e un audio trasmette la voce dell’artista che imita il distacco e l’indifferenza di chi osserva. Mi ha colpito la distanza tra ciò che è rappresentato e la voce fuori campo. Le fotografie sono state scattate da chi è prossimo a ciò che accade e inducono a partecipare al dolore delle vittime, mentre l’audio mi ha richiamato il linguaggio utilizzato dalla maggior parte della politica attuale e dei media, dove le informazioni e i commenti carichi di espressioni e parole violente conducono progressivamente all’assuefazione che ci fa scivolare nella medesima indifferenza.
Ora in ogni campo c’è in atto una sorta di polarizzazione che carica in chiave bellicosa e aggressiva le parole.
La ministra Roccella, che pure si dice femminista, contestata a Catania all’inizio di maggio accusa di subire una censura dalle ragazzine, che protestano e manifestano un dissenso. Nella scelta di usare censura, in questo rapporto asimmetrico tra chi detiene il potere e chi vi si oppone, diventa evidente che siamo di fronte a un problema: si distorce il significato delle parole, perché questa parola è legata al potere ed è solo con il potere che si può impedire la libera espressione.
Donne e uomini sono sottoposti a questi meccanismi, che vorremmo cominciare a smontare. Quali parole scegliere? Un esempio: è più facile leggere e sentir parlare di invio di armi al posto di guerra. Non si discute più di guerra, siamo già oltre!
Si parla della morte di una donna vittima di femminicidio, e non di uccisione. Si parla di invasione per l’Ucraina e di conflitto per la Palestina. I governi vengono confusi con i popoli e ignorate le diverse posizioni che ciascuna/o ha all’interno dei singoli Paesi. Hamas è popolo palestinese? Si parla di vittime o di morti, volutamente confondendo i connotati diversi delle due parole. Prevale l’astrazione alla precisione in una generale sciatteria in cui quasi tutti i media si sono allineati. Giulia Siviero, giornalista de Il Post, ha fatto su questo uno studio lessicale e statistico. Si parla di emergenza non di dignità per la guerra, per i migranti; gli esseri umani sono ridotti a emergenza umanitaria.1
Contemporaneamente non si dà notizia del dissenso in Israele, delle pratiche di pace in Russia, della diserzione di molti uomini in Ucraina, si tacciono le molte voci contrarie in Europa.
È facile perdere la fiducia nella lingua, quella che la madre (o chi per lei) ci ha insegnato mettendoci nelle mani il mondo, se quello che vediamo non corrisponde alla parola detta. Ci ritroviamo afasiche: un’amica qualche giorno fa diceva che le mancavano le parole per significare l’esistente.
Luisa Muraro in un intervento del 2006 in Lingua bene comune dice «restiamo moralmente disgustati, sì, ma senza argomenti politici, davanti all’uso strumentale della parola nella vita politica – anche questa una presa di parola – e davanti alla degradazione che colpisce l’una e l’altra. […] ci si allontana dalla politica per convinzione che non ci sia nulla da fare, invece di allontanarsi, insieme alla politica, dai comportamenti che la degradano»2.
Quali parole usare per dire quello che sentiamo?
Tremo e temo quando cerco di mettermi in contatto con la signora ucraina che ha vissuto con i miei genitori negli ultimi anni della loro vita. Paura che non mi risponda, come è successo varie volte; poi finalmente la sua voce sempre più stanca per le notti passate a cercare di dormire vestita in cantina, i figli e i nipoti messi in salvo lontano, la sua solitudine in un territorio di confine, ormai spopolato. Racconta a lungo, se le linee non cadono, se c’è elettricità. Poi il discorso prende la via della quotidianità “normale”: le patate da piantare, le rose italiane sbocciate e subito bruciate dal gelo che è tornato e tarda a lasciare posto alla primavera, la “decabrista” figlia della mia, che quest’anno ha fatto due fioriture. Ci salutiamo, la promessa di sentirci presto e, chissà, forse di rivederci.
Mi volto a guardare la mia piantina che sta sul balcone, aspetta il sole e l’annaffiatura e penso alla “decabrista” di Lyudmyla che non sa cosa aspettare.
La mia paura della guerra, la sua paura della guerra. Quanta distanza di significato in questa parola! Quali parole usare per dire la realtà che ci sta di fronte?
Nel 1987 fa uscivano le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini, in quegli anni ho avuto molte difficoltà con il preside della mia scuola, quando rivolgendomi alle ragazze con il femminile e ai ragazzi con il maschile, ne marcavo la differenza.
Ci sono voluti quarant’anni perché l’uso del femminile fosse interiorizzato e si sentisse come una imposizione politica la presidente del Consiglio che vuol essere chiamata il presidente, facendo scivolare chi la segue in evidenti errori di grammatica. Ma, contemporaneamente, assistiamo di nuovo a una cancellazione progressista del femminile con la sostituzione, almeno nello scritto, della inclusiva ә o dell’*.
Accenno per ultimo anche alla questione dei social, che peraltro non frequento, dove il linguaggio è spesso violento, anche se non direttamente riferito alla guerra, e mira alla polarizzazione producendo un’aggressività delle parole in tutti i campi.
Riprendo le domande dell’invito pensate per avviare la discussione.
Come uscire da questa stretta? Come dare forza a una parola che non stia nella logica violenta della contrapposizione? Come produrre una parola autorevole femminile che non si confonda con un’espressione narcisistica di sé che poco ci interessa?
- Cfr. sull’argomento il video dell’incontro tra Ida Dominijanni e Giulia Siviero al Circolo della Rosa di Verona il 5 aprile 2024, nell’ambito del ciclo “Pensare il presente 2024” in https://www.youtube.com/watch?v=7xHjYM9-Xj0 ↩︎
- Luisa Muraro, Non una lingua qualsiasi, in Vita Cosentino (a cura di), Lingua bene comune, Editore Città Aperta, Troina (EN) 2006, p. 81. ↩︎
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Lingua è politica, 9 giugno 2024
Domenica 9 giugno 2024, 10:30-13:00
Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano
La lingua è politica in quanto nell’inesauribile flusso degli scambi ci permette di passare da un’esistenza già prevista e regolata a una consapevole e libera, praticata parlando e decidendo insieme ad altre e altri.
In questi difficili tempi di guerra incombente, al conflitto armato sul campo corrisponde un conflitto nel linguaggio che riguarda tutte e tutti. In questione è la scelta e l’uso delle parole, è ciò che si dice, è ciò che si tace, è come si comunica e a quale scopo.
Nel dibattito pubblico veicolato dai media assistiamo a una militarizzazione e polarizzazione del linguaggio a favore di un racconto di una presunta “parte dei buoni” rappresentata dall’occidente. In più nei social prevale lo scontro di piccoli ego gonfi di sé, dove la parola è svuotata di senso perché priva di dimensione relazionale.
Per contro ha sempre meno spazio e peso tutto ciò che è estraneo a questa visione: non si dà conto di un sentimento profondo e diffuso che è contrario alla guerra, tende a sparire la vita quotidiana in trasformazione e ricerca.
In questo presente che tanti chiamano giustamente post-patriarcale durante la pandemia c’era stata un’apertura a un orizzonte di marca femminile, mentre ora sembra in atto una rivalsa maschile.
Come uscire da questa stretta? Come dare forza a una parola che non stia nella logica violenta della contrapposizione? Come produrre una parola autorevole femminile che non si confonda con un’espressione narcisistica di sé che poco ci interessa?
Introducono Paola Rizzi, Marina Santini e Daniela Santoro.
Sull’argomento consigliamo il video dell’incontro tra Ida Dominijanni e Giulia Siviero al Circolo della Rosa di Verona il 5 aprile 2024, nell’ambito del ciclo “Pensare il presente 2024”.
Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it. È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.
Immagine di Bibi Tomasi. Dall’archivio fotografico della Libreria delle donne di Milano.
C’è un libro di Diotima, La Sapienza di partire da sé, a cui è inevitabile tornare per riproporre questa politica sorgiva del femminismo, come una possibile politica per l’oggi, per donne e uomini. Da quel volume vorrei riprendere la riflessione di Luisa Muraro sulla posizione del soggetto perché chiarisce uno degli aspetti più controversi che si incontrano nel riproporre il partire da sé in un’epoca la cui cifra è il narcisismo.
Come mi ha fatto notare Ida Dominijanni nella redazione aperta di Via Dogana 3, oggi il sistema dei media e dei social è tutto incentrato su una versione distorta del partire da sé: è un gigantesco Ego che si moltiplica e che fa a pugni con altri Ego. Segnala, quindi, il rischio che questa pratica venga macinata dalle forme egemoniche della comunicazione. La consapevolezza di questo rischio, in una partita che comunque va giocata, mi spinge a sottolineare che gli aspetti da mettere più in luce nel riproporlo riguardano il fatto che è una pratica relazionale e non individuale, come già argomenta Chiara Zamboni nella sua introduzione.
Nel suo saggio, Luisa Muraro dice che con questa pratica si scopre «il soggetto – me – non in posizione di soggetto ma di complemento: trovo me in relazione con gli altri, abitata da ricordi, mossa da desideri. Trovo dunque desideri che mi muovono, ricordi che mi occupano, altre o altri che mi parlano». E poche righe dopo la descrive come «una pratica di decentramento dell’io, il cui posto viene preso da una pluralità di istanze parziali, in un gioco di rimandi» (pag. 20).
Seguendo questa impostazione, il “me in relazione con” delinea una posizione soggettiva che non sta tutta appoggiata sull’individualità del soggetto, in quanto lo pensa intessuto dalle relazioni che lo collegano a situazioni e contesti reali, che stanno concretamente in questo mondo e non vivono astrattamente nella mente. D’altra parte è anche una pratica che preserva dal “noi” identitario, perché agendo in contesto coinvolge altre e altri, ma crea uno spazio comune mobile e fluido, che dura quanto dura, e quindi non si solidifica mai in una qualsivoglia organizzazione o identità collettiva. Quindi, a mio modo di vedere, la sua forza sta nel fatto che si situa tra l’individuale e il collettivo e in questo senso è una politica che è quasi un antidoto sia all’individualismo narcisista che all’arroccamento identitario.
Come altre che scrivono in questo numero, anche io penso che per le donne il partire da sé sia una pratica che continua a essere efficace nel femminismo, ma che è andata anche ben oltre questo ambito, coinvolgendo donne di ogni tipo. Se infatti di recente è ripartito il #MeToo nelle università e nel mondo del teatro, non mancano segnali che ci raccontano questa estensione. Un piccolo esempio: giorni fa alla trasmissione Tutto scorre di Radio Popolare si parlava della parola “cambiamento” e quasi tutte le donne che chiamavano al microfono aperto dicevano in vario modo che il cambiamento, anche quello della società, parte dal cambiamento di sé.
Per quanto riguarda gli uomini bisognerebbe capire meglio. Sicuramente il partire da sé è riconosciuto come un principio generatore nel mondo intellettuale e della cultura, anche ufficiale. Non è stata certo una giuria femminile quella che ha assegnato il premio Nobel per la letteratura ad Annie Ernaux, un’autrice capace di scrivere l’intero mondo nella fedeltà al partire da sé. Si sta vedendo, però, che anche intellettuali maschi lo hanno fatto proprio per produrre opere parlanti a un vasto pubblico. Ho in mente Marco Bellocchio con il suo docufilm Marx può aspettare, in cui con sguardo lucido mostra se stesso, i fratelli e le sorelle nella rievocazione del suicidio, a soli ventinove anni, di Camillo Bellocchio, il fratello gemello, nel dicembre del ’68. Lo stesso regista parlandone in una intervista online considera una verità quasi scontata che «la creatività inizia con la nostra stessa vita, con come abbiamo vissuto» (filmtv.it). Un’altra opera che mi ha sorpreso di recente è stato il docufilm 16 mm alla rivoluzione. Il regista Giovanni Piperno vuole parlare del comunismo, anzi meglio vuole fare i conti con il comunismo. Ci mostra molti materiali di archivio alternati a una conversazione con Luciana Castellina. Alla prima impressione sembra un materiale un po’ caotico, ma poi si comprende che a fare da filo conduttore è la sua storia personale, fin da quando bambino veniva portato dai genitori alla sezione del PCI. Certo sono esempi che riguardano attività intellettuali creative e quindi più facilmente legate alla soggettività, ma sono comunque segnali di un cambiamento che è in corso.
Ma c’è anche dell’altro. In questo nostro tormentato presente, vivo ogni giorno l’angoscia per la guerra incombente. Attraverso i media siamo continuamente a contatto con l’orrore di guerre sempre più crudeli nei confronti della popolazione, di stragi sempre più efferate, di uccisione di donne a ripetizione da parte di uomini a loro vicini. Orrori che si aggiungono ad orrori. Qualcuna poi ha detto che «la terza guerra mondiale è già cominciata sui social» per la violenza verbale che lì si esercita, nascondendosi dietro uno schermo. In questo panorama orribile, che mai avrei pensato di vivere, ci sono stati due atti che mi hanno profondamente colpito perché hanno avuto la forza di aprire degli squarci e hanno fatto vedere che si può esserci. Entrambi sono ispirati dal partire da sé. Il primo è stato l’appello Mai indifferenti – voci ebraiche per la pace che ha il grande merito di essere una posizione che è riuscita a parlare, restando fuori dagli schieramenti e dalle contrapposizioni guerresche. L’altro atto significativo ai miei occhi è stata la presa di parola della sorella e del papà di Giulia Cecchettin dopo il suo assassinio. Le loro voci hanno prodotto uno scatto nella consapevolezza come mai era successo prima e non intendono fermarsi. Infatti è appena uscito il libro Cara Giuliascritto da suo padre, che vuole continuare a parlare.
A ben guardare entrambi questi atti hanno una caratteristica in comune: sono donne e uomini insieme, ma che stanno in un rapporto asimmetrico in cui gli uomini ascoltano quello che dicono le donne. L’appello Mai indifferenti, come ha raccontato Renata Sarfati, una delle promotrici, nell’incontro di Via Dogana 3 nasce da una sorta di autocoscienza, fatta assieme ad alcune amiche ebree di fronte al massacro del 7 ottobre ad opera di Hamas e alla risposta ancora più cruenta del governo di Netanyahu. Poi tutto il resto è seguito. Nel secondo caso il papà di Giulia ha ascoltato le parole dell’altra sua figlia Elena e da lì ha cominciato a parlare anche lui. Sono dinamiche nuove in cui si intravvede un processo di attribuzione di autorità alla parola femminile. E che pongono ancora il femminismo davanti a uno storico problema: non si va a un cambio di civiltà senza l’apporto anche degli uomini. Certo non di tutti.
Ho sentito il bisogno di pensare a come si dà un orizzonte alla scommessa del partire da sé per collocarmi rispetto alle varie accezioni con cui questa invenzione politica è stata interpretata e declinata: messa in guardia prima di tutto dall’autobiografia, dalle invadenti manifestazioni dell’ego narcisistico-autoreferenziale che domina nel sistema mediatico; ricerca della verità soggettiva, del sé relazionale in situazione, in una mescolanza di conscio e inconscio. Ecco io penso l’orizzonte del partire da sé come bordo che può dare accesso a un altro universo. L’abbiamo chiamato cambio di civiltà da qualche tempo.
«Punto di partenza», parole di Luisa Muraro1 «il vissuto vissuto, con tutto quello che ha di determinato, e un vissuto ancora da vivere (il desiderio) […] non in posizione di soggetto ma di complemento in relazione con altri. […] Necessità della riconoscenza e del primato della relazione».
È come il viaggiare2, una scommessa rischiosa.
Angoscia e desiderio mi hanno spinta a prendere la parola quando l’anno scorso Cristina Gramolini della rete Dichiariamo, di cui faccio parte, ha detto che avrebbe voluto fare un’iniziativa pubblica in occasione dell’8 marzo. Ecco lì il mio vissuto vissuto ha agganciato il mio desiderio. Ho capito e sentito cosa era per me necessario: stare al presente, alla realtà intorno a noi, cogliere il kairos, la potenzialità dell’ora è adesso, tutte le occasioni di rilancio di una pratica femminista. Ho visto una prospettiva, un chiaro nel bosco, che avrebbe rotto il silenzio, l’impasse di un tempo incompreso, quello che stavo vivendo, di una guerra che si aveva paura a chiamarla con quel nome. Mi sentivo disorientata, non sapevo come parlarne se non con discorsi masticati e rimasticati, come sono le sofisticate analisi degli esperti di geopolitica che non facevano che intensificare la mia sofferenza. Ecco l’occasione, posso contrastare la pervasività della guerra, che è rottura di legami, distruzione e annichilimento, rilanciando, dando fiducia e forza alla politica femminista, mostrare che sono possibili pratiche di parola e di narrazione, ispirate alla vita e alle relazioni. Come è stato in passato negli anni Settanta, ci ricorda Lia Cigarini, il femminismo della differenza è nato a prescindere dalle guerre. È vero che oggi è in atto un percorso con uomini che riconoscono e ascoltano la parola femminile e s’intravede una possibile alleanza con coloro che sono coinvolti nel cambiamento e ripensano la virilità, ma di contro le guerre hanno rallentato questo nuovo corso e potrebbe anche prevalere l’alleanza fra uomini, cioè un ordine simbolico fratriarcale/filiarcale3, con inclusione delle sorelle in posizione paritaria.
In questa cornice di realtà di cui ero ben consapevole, mi assunsi il rischio e scrissi un appello per una chiamata a un convegno. Cosa scrissi? Partii da me, un titolo mi si presentò alla mente e al cuore, “Addio alle armi”, non nuovo ma che rifletteva un tragico nodo famigliare, la morte di mia madre per arma da fuoco e il conflitto con mio fratello4, che ritenevo in parte colpevole, rielaborato in una pratica di relazione, che mi riportò al presente di una guerra fratricida, Russia-Ucraina, che dura tuttora. Una realtà in cui potevo avere parola in nome della verità soggettiva, che non è soggettività autoreferenziale ma un sé intriso di relazioni che si è costituito in una pratica, quella della Comunità di storia vivente, in cui il nesso autorità-verità si è manifestato. Luogo in cui grazie al primato della relazione di affidamento e al riconoscimento di autorità ho trovato il coraggio di scommettere sul partire da sé. Un processo, che avuto avvio da dentro, si è messo in moto e il mio appello è stato subito pubblicato su un giornale nazionale e a cascata altre voci, iniziative, prese di posizioni, manifestazioni pubbliche si sono succedute. A questo proposito ho sentito veritiera e corrispondente alla mia esperienza la riflessione di Chiara Zamboni quando scrive che «il punto più soggettivo tocca l’oggettivo. Non c’è contrapposizione o separazione»5.
La guerra non è forse un accumularsi di nodi irrisolti che si depositano nella storia dei popoli, nella profondità delle viscere degli umani e dei territori, che fanno ammutolire e chiudono ogni via d’uscita se non quella delle armi?
Per questo dico a Mira Furlani che il partire da sé quando permette grazie a una relazione di fiducia di raccontarsi, di sciogliere il nodo del silenzio sulla propria storia, quella che ha narrato nel suo libro Le donne e il prete. L’Isolotto raccontato da lei, non è molto differente dalla mia esperienza che si colloca in un orizzonte di trasformazione radicale e di riappropriazione della storia, destoricizzandola, facendo spazio alla verità soggettiva. Come scrive Marirì Martinengo, il partire da sé è farsi documento vivente, e dove c’è produzione di verità soggettiva, c’è anche autorità femminile e viceversa. Non a caso Mira ha preso coraggio e si è decisa a narrare la sua verità, su cui rimuginava da anni, sulla spinta, l’incitamento e il pensiero di Luisa Muraro. Così è nata la versione dei fatti di Mira sull’Isolotto e anche la sua autorità. Non si tratta di soggettivismo, né di biografia, né di un ego contro un ego in armi. Una scommessa nata da un desiderio che ha prodotto critiche, ma anche sostegno, una battaglia di parole, non uno scontro armato di droni, missili, bombe, aumentati in potenza distruttiva dall’intelligenza artificiale. Ferite sì, conflitti relazionali, ma non una storia sacrificale. Un punto fermo, un soggetto, lei, Mira, che ha interrotto la ripetizione, il già detto della Storia, riportando sulla scena il rimosso cancellato. In questo movimento c’è di mezzo la libertà femminile, almeno per me è stato così, che pare non coincida con la democrazia rappresentativa paritaria.
Una pratica che ha mostrato tutta la sua efficacia anche nel caso più recente dell’appello “Mai indifferenti – Voci ebraiche per la pace” promosso da Renata Sarfati con altre, altri, sulla guerra Israele-Palestina. Il suo gesto ha incoraggiato a prendere la parola e ha trovato maggiore risonanza e sostegno pubblico di altre prese di posizione più neutre.
Mi ha colpito il ragionamento di Massimo Lizzi, Il partire da sé è sfuggente, quasi cartesiano nel suo procedere, che porta a dare un valore positivo al senso di colpa e la fuga da sé con la conseguente presa di distanza dal desiderio. Ho percepito una forte reticenza dettata dal pericolo di una frustrazione che può venire da un’esposizione di sé troppo aperta/scoperta e da relazioni troppo strette. Su un punto non concordo, e cioè che per il movimento delle donne degli anni sessanta, il separatismo, la presa di coscienza siano stati necessari per affermare un’identità. E per gli uomini Massimo non ne vede la necessità. Per le donne erano in gioco la libertà e la differenza sessuale, non l’identità, e penso che questo potrebbe essere un di più anche per un uomo se riesce a sciogliere il nodo del senso di colpa. Se invece mette in capo al ragionamento i principi come àncora di sicurezza per timore di sbilanciarsi, capisco la sua fatica a vedere un orizzonte nella scommessa del partire da sé.
- Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare. La partitura della nascita, in Diotima. La Sapienza di partire da sé, LIguori, 1996, pp.20-21 ↩︎
- «È come il viaggiare, che non solo, che non solo ti fa allontanare dai luoghi familiari e vedere cose che altrimenti non avresti visto, ma te le fa vedere come nessuno può fartele vedere senza quello spostamento. C’è fatica disagio, c’è perfino distrazione e perdita di concentrazione, eppure il lavoro del pensiero non ne soffre, anzi». Ibidem, pp. 8-9. ↩︎
- Lia Cigarini, Per non diventare tutte/i transessuali simbolici. Una lettura attuale de I sessi sono due di Antoinette Fouque, Milano, luglio 2017 ↩︎
- Laura Minguzzi, Il nodo della casa, in AA.VV. La spirale del tempo, Moretti&Vitali, 2018 ↩︎
- AA.VV., L’inconscio può pensare? A cura di C. Zamboni, Moretti&Vitali, 2013, pp. 102-116 ↩︎
Impossibile dimenticare nel ritornare sulla pratica del partire da sé la lapidaria formulazione di Luisa Muraro: “Partire da sé e non farsi trovare…” C’erano i puntini di sospensione. Adesso che ho riguardato mi sono balzati agli occhi: una premonizione, attesa, apertura, avvertimento, un viatico per una partenza, un segnale per un tempo in avanti, ma marcava i puntini in un titolo, cosa editorialmente inconsueta. Ci volevano proprio però, lo si capiva bene dal testo, e ora lo capisco di più ed è nello spazio e nel tempo dopo quei puntini che è mi venuto ciò che dico, o chiedo. Partire da sé e non farsi trovare, sì e se poi non ti si trova più? Detto anche peggio, se poi capita che a forza di non farti trovare ti senti che non ti trova più nessuno?
Solitamente sono riflessiva e una ricordante, ho memoria storica e teorica, nello scrivere sto cauta fino alla paralisi, ma in questa occasione il partire da sé mi ha fatto un brutto o bello scherzo ed è venuta fuori così. Mi sono anche un po’ spaventata poi, sembrerò proprio non aver capito niente, o persa. Ma a qualcuna è risuonato, ed ecco adesso provo ad articolare, sottolineo solo provo, perché come mi è stato scritto in chat non ricordo da chi, dietro c’è un oceano, e ci sono nel bel mezzo, spero non proprio persa.
Non sto a elogiare i meriti del partire da sé o dei vantaggi della sua pratica soggettivi e politici. Che quanto a me le devo tutto quel cui della mia singolare e condivisa esperienza di stare al mondo sono riuscita a vivere e soprattutto a dare senso e parola. Da tempo lontano e preponderante ormai. Qui non ce ne è bisogno, sì altrove invece e tanto. Ma qui e ora che lo si riprende appunto dopo tanto tempo e al presente, dove c’è altrove e altrimenti.
Quel senso di irreperibilità, il non essere più trovate, lo nomino colpita dallo scarto del significato tra quel che tra noi non abbiamo bisogno di spiegare del partire da sé e invece quanto ne è stato inteso e recepito fin da sempre direi, e ora ancor più nel perenne conflitto di senso che investono il femminismo e le sue pratiche.
Oggi lo dico in un contraccolpo soggettivo che avverto consolidarsi quasi in un muro di mattoni di fraintendimenti, interpretazioni fuorvianti, intenzionali misinterpretazioni, punti ciechi, parole e atti mancati, incontri disattesi, cadute di efficacia che mi hanno riportata a un sentimento di estraneità e isolamento dal corso del mondo che è quello che pativo prima di incontrare con il femminismo proprio la pratica di partire da sé.
Devo però premettere delle circostanze soggettive che contengono già una risposta, che è anche una spiegazione e un’obiezione, perché vengo, forse esco, da un periodo di anni in cui ho trascurato la cura della pratica politica delle relazioni per dedicarmi alla cura di mia madre e di mio padre e accompagnarli alla morte. Non è stato isolamento, altre relazioni vitali mi hanno sostenuta ma in diverse dimensioni, non quella del registro politico e della significazione simbolica. Da questo allontanamento parlo, e lo faccio nel momento in cui sono tornata in un contesto di relazione politica dove anche questa esperienza fidavo sarebbe stata riconosciuta, sarei stata trovata.
Suppongo sia disabituata e ho sentito lo scarto, perché quel senso di estraneità a come gira il mondo è prevalso in questo lungo passaggio della mia vita, su quella giostra non mi sono fatta trovare e non mi si trova. Certo fortunatamente la giostra non è il mondo, ma la sua musica d’organetto fa girare la testa in tondo persino se stai coi piedi a terra nella materiale vita e ti tocca fare parecchi esercizi di disattenzione per scacciare il ritornello che ti risuona nelle orecchie. I suoi richiami non li senti nemmeno più, però forse diventi meno attenta e un poco sorda.
Fuor di metafora, il non farsi trovare può prendere la mano, connaturarsi, e mettere a rischio la pratica del partire da sé, che di suo è già rischiosa. Lo avvertiva ripetutamente il libro di Diotima che giustamente parlava della “sapienza” di una pratica che destituisce le pretese illusorie di identità, sovranità, autorialità, controllo del soggetto. E altrettanto avvertiva di quanto l’implicazione di sé nel mondo, nelle relazioni, nel tessuto materiale, simbolico, conscio e inconscio della realtà, fosse insieme un attivo punto di leva e nel contempo l’esposizione a una condizione di passività e dipendenza riconosciuta, ma non meno patita e rischiosa. Non c’era però solo questo, perché c’erano anche fiducia, leggerezza, apertura. Ora direi: scioglimento e legame, sapienza di sciogliersi e legarsi.
Il partire da sé per sua natura non si fa da sé, né in solitudine né va avanti da solo, è una pratica, appunto, e si lega ad altre pratiche. In quel libro Angela Putino diceva della cura di sé, Chiara Zamboni del materialismo dell’anima, e tutto indicava soprattutto la pratica delle relazioni.
Quest’ultima, anch’essa peraltro delicata e tutt’altro che confermante, è probabilmente il contrappeso più valido allo sbilanciamento, alla vertigine o al pericolo di dissolvimento indistinto che lo sporgersi nella pratica del partire da sé può comportare. Riconoscere la dipendenza e secondarietà che ci segnano e vincoli che ci annodano, le voci e i richiami che ci attraversano non è farci trovare dove ci si aspetta che siamo, e nemmeno sciogliersi da tutto e cadere dal tutto pieno nel vuoto, c’è la “libertà dai fittizi legami di fedeltà” con le parole di Virginia Woolf. Da quelli fittizi, il che comporta riconoscerne di reali e legarsi ad altri. Nella mia esperienza questo è stato il femminismo, con le sue tante altre parole e pratiche, un altro ordine di riferimento simbolico e di rapporti che ci rimette, non ci consegna né ci sottrae, al mondo. Quando c’è equilibrio, e a volte non lo si trova.
Ecco mi sono dilungata e ancora temo non spiegata. All’incontro di Via Dogana mi è stato chiesto di fare degli esempi di quel sentimento di non essere più trovata a forza di non farmi trovare. Forse ora ho individuato meglio come fosse da collegarsi allo squilibrio per eccesso di sottrazione, una sorta di coazione a negarsi e a negare: non lì, non questo, non così, non è quello. Magari questo è rovesciamento nella posizione identitaria, magari in quella isterica, magari è lo stesso e come che sia è perdita di mondo, ed è solo mia mi auguro. Gli esempi sarebbero meglio, sì. Ce ne sarebbero moltissimi, che non so quante volte è successo, e quando più si presentava una qualche forma di riconoscimento, quando il corso del mondo pareva venire incontro. E anche quando altre donne invitavano all’appuntamento.
Il più recente: quel che è avvenuto con la morte di Giulia Cecchettin. È stato segnalato quanto sia stato un evento simbolicamente rilevante, c’è stato, o preferisco dire è stato messo in scena, un riconoscimento simbolico di massa. Dalle prime parole della sorella si sono poi alzate spontaneamente tante voci e urla e baccano come non prima così. Quello che Chiara Zamboni ha chiamato il sorriso dell’inconscio mi è durato un attimo, nemmeno sufficiente a farmi aderire. Subito mi sono sentita che mi scollavo, e a mano a mano che la cosa montava così cresceva il mio moto di sottrazione. Poi sono venute le manifestazioni organizzate istituzionalmente, le circolari a scuola che richiedevano il minuto di urla, i manifesti richiesti e appesi in bell’ordine che invitavano a distruggere tutto, e le parole giuste che mi suonavano false, e quelle sbagliate che parevano giuste, e io non c’ero e non volevo esserci. Ma come proprio tu? Ma è qui, è questo, è ora non vedi, non senti? Ti perdi l’occasione! Persa?
Il partire da sé non è un basarsi sul ruolo né sulla situazione, quello che fanno vedere o credere, essere giusto e valido, ma risalire a, e muovere da un’esperienza, ossia da un vissuto vissuto, con tutto quello ha di determinato, e da un vissuto ancora da vivere (il desiderio), mai l’uno senza l’altro. La pratica di partire da sé, dicevo sopra, è la scommessa poter prendere le mosse dal luogo della nascita, con tutto quello che ha di dipendente, di pregiudicato ma anche di promettente, di nuovo, luogo di una divisione, di uno squilibrio, di una partizione che è partenza, dove c’è sbilanciamento, struggimento, risentimento, insomma tutto quello che si innesca con quella «partenza» che crea la necessità dello scambio simbolico.
Gli ho dato nome «nascita», ma vorrei proporne un altro, che ha la stessa radice ma è più completo: partitura della nascita. In musica la partitura è la scrittura per molte parti, strumentali o vocali. La nascita, dunque, come luogo o momento di una partenza plurale che non ha però le caratteristiche della frammentazione o della dispersione, poiché c’è scambio simbolico; c’è nella realizzazione musicale come c’è nella relazione materna e da ciò viene che noi abbiamo parola e che la lingua ha vita.
La scoperta principale di questa pratica, pratica che consiste risalire alla fonte del pensare e decidere disfando la costruzione del già pensato e deciso con le sue apparenze più o meno imponenti e i suoi effetti più o meno illusori, facendo dunque questo movimento, quello che scopre è il soggetto ─ me ─ non in posizione di soggetto ma di complemento: trovo me in relazione con altri, abitata da ricordi, mossa da desideri, trovo dunque desideri che mi muovono, ricordi che mi occupano, altre o altri che mi parlano o che addirittura parlano al mio posto, magari per contraddirmi! Allora, ci si accorge dell’inutile fatica della finta coerenza che si credeva di dover sostenere, ed è un sollievo, una leggerezza. E ci si accorge anche, con un senso di vergogna, di quanta complicità si dà a cose stupide o ingiuste, sempre per voler sostenere quella costruzione fasulla di sé. Ho trovato persone egregie, uomini, che diffidano di questa pratica perché temono di cadere nel narcisismo, ma si sbagliano in pieno, poiché, al contrario, è una pratica di decentramento dell’io, il cui posto viene preso da una pluralità di istanze parziali, in un gioco di rimandi sui quali la nuova leggerezza guadagnata ci consente di galleggiare e prendere il largo.
La pratica di partire da sé, mentre disconferma le pretese del soggetto, non è per questo imparentata con la decostruzione nichilista del mondo1.
Senza tentare definizioni (basta guardare nel dizionario), diciamo che il nichilismo non è una scelta ma una prova del pensiero, alla quale il pensiero occidentale si trova affrontato; da un centinaio d’anni circa e, in maniera conclamata, dalla fine della prima guerra mondiale. In che cosa consiste la prova? Che, ragionando con rigore, non arriviamo a concludere nelle questioni che concernono l’esistenza umana e la convivenza civile. Da qui, l’idea di una necessaria decostruzione della nostra tradizione di pensiero, tradizione che ci ha portati in questo «cul del saco», per parlare veneto, invece del francese che qui sarebbe d’obbligo. Il decostruzionismo nichilista è l’unica strada di un pensiero rigoroso? Io penso di sì, se si tratta di pensiero speculativo; ma ci sono altre strade del pensiero, una almeno, quella della filosofia pratica, vale a dire la filosofia di chi pensa attraverso la modificazione di sé.
La pratica di partire da sé è una decostruzione dell’io e del mondo ed ogni movimento di decostruzione, non ce lo dobbiamo nascondere, mette a repentaglio il senso della realtà e la possibilità di un senso alternativo. Ma la pratica di partire da sé porta al disfarsi del soggetto senza disfarlo in una miriade di istanze scoordinate: mi disfa nelle relazioni che mi fanno essere quella che sono e diventare quella che desidero, senza che io possa mai accamparmi al centro di questo essere e diventare. Questa è la porta stretta, questo è il passaggio che mi «smarca» dal nichilismo del pensiero postmoderno. In parole figurate: il tipico decostruzionista somiglia a uno che sega il ramo sul quale si trova seduto. Di solito si tratta di un professore d’università che, finito di segare il ramo, cade «bene», cioè nella sicurezza economica e nelle gratificazioni del suo ruolo. La pratica di partire da sé non è meno radicale, come operazione, mentre a livello personale è molto ma molto più rischiosa. E più feconda, più felice, perché mi fa cadere nella necessità della riconoscenza e nel primato della relazione.
- Su questo punto, cfr. Marisa Forcina, Ironia e saperi femminili. Relazioni nella differenza, Franco Angeli, Milano 1995. ↩︎
Tratto da Luisa Muraro, Partire da sé e non farsi trovare, Parte seconda: La partitura della nascita, in Diotima, La sapienza del partire da sé, Liguori, Napoli 1996.