I contributi di Giorgia Basch e di Donatella Franchi sulle pratiche artistiche femministe che diventano pratiche relazionali e aprono spazi di sperimentazione nuovi, insieme alle riflessioni riportate di Carla Lonzi sull’arte, mi hanno richiamato alla mente il fiorire negli anni settanta all’interno dei collettivi femministi di gruppi di donne che si occupavano in particolare di cinema, girando film, documentari e video artistici.
Un’esperienza intensa e fruttuosa che voleva documentare non solo le lotte, ma la politica di presa di coscienza, la ricerca di nuovi linguaggi di rappresentazione delle donne come soggetto e il desiderio di sovvertire l’ordine patriarcale. La pratica dell’autocoscienza, che è una pratica di relazione per eccellenza, ha qui avuto un ruolo fondamentale.
In quella fase le sperimentazioni filmiche e le teorie sulla creazione di un nuovo immaginario femminile andavano di pari passo.
Una raccolta di questi video fu presentata all’interno della mostra che si tenne a Milano tra aprile e maggio 2019 dal titolo Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e femminismo in Italia*.
La grande Agnès Varda è un esempio. Fin dal suo debutto con il film La Pointe Courte, la regista pone in primo piano la forza delle relazioni, non solo nelle trame dei suoi film ma nella loro realizzazione, sia con le persone con cui lavorava sia con i soggetti che filmava: i suoi vicini di casa, i commercianti della sua via, le donne che animavano i cortei o il suo girovagare incinta fra gli abitanti del quartiere.
Il cinema anni settanta definito Feminist Avantgarde nasceva dall’autocoscienza, dalle teorie femministe e dalle pratiche di relazione e sviluppò una lunga ricerca e un acceso dibattito su come decostruire l’immaginario maschile. Da qui i film e le analisi della regista e critica Laura Mulvey che con il suo saggio Visual Pleisure and Narrative Cinema(Piacere visivo e cinema narrativo, 1975) intendeva mettere in discussione e modificare la rappresentazione del corpo femminile nel cinema e nella pubblicità. Sosteneva che in una società costruita sul dominio sessuale maschile il piacere di guardare era stato diviso tra l’attivo/maschile e il passivo/femminile. Di conseguenza lo sguardo maschile sulla figura femminile la modellava. Divenuto un testo di riferimento per le teorie del “male and female gaze” (sguardo maschile e sguardo femminile), il dibattito critico è arrivato fino ai giorni nostri.
Perché cambiare lo sguardo significa mettere in atto una relazione differente tra spettatrici e spettatori, tra chi guarda e chi è guardato, e non è reso oggetto.
A questo proposito una lezione raffinata e illuminante sul tema ci viene da Céline Sciamma nel suo film Ritratto della giovane in fiamme che a questo proposito in un’intervista a Emily Van Der Werff su Vox (rivista on line, 19/02/20) afferma: «Vedo il film come un manifesto sullo sguardo femminile. Vedo questo come una forte opportunità per creare nuove cose, nuove immagini, nuove narrazioni».
Come sempre anticipatrice, Agnès Varda, a proposito dello sguardo femminile, dà una sua originale interpretazione in Cléo dalle 5 alle 7 dove la protagonista in un gioco di sguardi, di specchi e di rispecchiamenti, confronta la percezione di sé e quella attribuitale dallo sguardo maschile fino a rompere, non solo simbolicamente, con questi continui rimandi a sé come oggetto, per incominciare a percepire se stessa come soggetto.
(*) Un importante archivio di quelle pratiche è il Centre Audiovisuel Simone de Beauvoir di Parigi che, creato nel 1982 da Carole Roussopoulos, Delphine Seyrig e Ioana Wieder, ha come scopo «la conservazione e la creazione di documenti audiovisivi sulla storia delle donne, i loro diritti, le loro lotte, le loro creazioni».
Da alcuni anni curo mostre di mail art organizzate dal circolo La Merlettaia di Foggia a cui si è poi unita la rete delle Città vicine e quest’anno, con la mostra, anche le artiste dell’Alveare di Lecce.
Nello scenario della società contemporanea l’arte assume un rilievo fondamentale come strumento critico e politico. In particolare negli ultimi anni è cresciuto l’impegno di artiste e artisti sulle questioni che riguardano l’attualità attraverso le loro opere, facilitato dall’uso di strumenti digitali, che hanno consentito loro di raggiungere un pubblico molto vasto e di diffondere in modo rapido ed efficace i loro messaggi. Anche le città sono investite da nuove forme d’arte che mirano all’occupazione dello spazio pubblico e diventano teatro di nuove sperimentazioni culturali, in cui artisti/e agiscono su territori non deputati generando spazi di socialità, occasioni di incontri, attraverso forme d’arte e performance agite anche in modo illegale.
In particolare la pratica della mail art, che non ha scopo di lucro, si serve delle tecniche più disparate, con la sua lunga tradizione di carattere politico e di resistenza a ogni forma di potere, è particolarmente adatta a veicolare pensieri, parole, messaggi che hanno stretti legami con l’attualità e profondi significati sociali e politici. È, infatti, lontana dai condizionamenti, dalle mode del cosiddetto sistema dell’arte ed è anche un atto politico, che crea relazioni tra i partecipanti e tra mittente, destinatario, spettatore. La comunicazione mailartistica, la più grande espressione artistica fuori dal mercato, si avvale di reti che coprono l’intero pianeta. Non c’è paese, infatti, in cui non ci siano artisti/e che si servono di questa pratica per comunicare e scambiarsi idee, anche a costo di subire persecuzioni, come accade nei paesi a regime totalitario. Questa forma d’arte si diffuse all’inizio degli anni Sessantanelle due Americhe con la caratteristica di opporsi all’establishment culturale e politico.
Mentre i nordamericani si ribellarono al formalismo, alla fama, alla moda, ai musei, ai critici delle gallerie e alle istituzioni, i latinoamericani invece si opposero ai propri regimi repressivi. Anche nell’Europa dell’Est gli artisti si servirono della mail art per criticare i regimi da cui furono perseguitati.
In Giappone si è diffusa con un particolare interesse per la pace. Famoso il Progetto Ombra di Ruggero Maggi che culminò a Hiroshima il 6 agosto 1988 con un grande “Mail art meeting”.
La mail art ha interessato molto le artiste che volevano intrecciare l’arte con la vita ed esprimersi creativamente al di fuori del mercato.
All’inizio del 1975 fino al ’79 un gruppo di donne in tutto il mondo, a partire dall’Inghilterra, iniziarono a inviarsi reciprocamente piccole opere d’arte attraverso il mezzo postale con l’intento di unire aspetti apparentemente disparati: il privato, domestico e personale con il politico e sociale. Avendo poche risorse, molte di loro usavano vecchi imballaggi, pezzi di stoffe ricavate dall’abbigliamento, cose di uso comune. Nel 1977 ci fu un grande evento di arte postale femminile, Feministo. Ritratto dell’artista come casalinga, presso ICA di Londra.
Dalle sue origini la mail art rappresenta, dunque, un linguaggio che evidenzia l’importanza delle differenze a partire da quella uomo donna ed è espressione del multiculturalismo e delle varie identità e personalità artistiche che coesistono e si confrontano. I mailartisti hanno sempre lottato per la giustizia sociale e hanno creato progetti che esaltano la diversità culturale, etnie e classi sociali.
Il tema che proponiamo per le mostre di mail art del circolo La Merlettaia è scelto tra quelli al centro di riflessione e discussione di donne e uomini delle associazioni interessate e spesso riguarda l’attualità. Dallo scambio di pensieri, dal racconto delle proprie esperienze e a partire dal proprio sentire emergono spunti che proponiamo nella lettera di invito rivolta ad artiste e artisti, e non, con cui siamo in relazione e che a loro volta invitano altre e altri. Si crea così una ampia rete che comprende varie città italiane e anche straniere. Abbiamo cominciato nel 2013 con Immagina che il lavoro, che riprendeva il titolo della pubblicazione del Sottosopra, poi nel 2015 Kintsugi, ispirata alla tecnica artistica giapponese che consiste nel riparare una ceramica rotta con l’oro o l’argento. Questa modalità può aiutare ad affrontare e riparare senza cancellarli ferite e dolori in casi di un forte conflitto, come capita quando c’è uno scambio reale tra persone.
In cielo, in terra e… in mare del 2016 allude alla libertà femminile, l’imprevisto della storia che non stava né in cielo né in terra, ma che le donne sono riuscite a conquistare.
Nel 2017 Concepire l’infinito, tema dettato da una riflessione e una serie di letture in cui eravamo impegnate da alcuni mesi in incontri presso La Merlettaia. Nel 2018 Ci deve essere un luogo in comune, tratto da un passo del libro di Antonietta Potente Come un pesce che sta nel mare, che recita: «Ci deve essere un luogo in comune, uno spazio, un cuore dove viviamo, nella verità della differenza, questa bellissima appartenenza gli uni dagli altri, le une alle altre».
La mail art del 2022 Rigenerazione nasce dall’ispirazione dell’opera di Shamsia Hassani, Donna che vola sopra il Covid 19 e la guerra. Ci chiedevamo: come, in che cosa ci sentiamo trasformate e trasformati? Come è cambiata nel sentimento di ognuna/o la città? E l’ambiente naturale? È possibile creare un nuovo rapporto tra tecnologia e natura? Che cosa abbiamo scoperto di diverso sulla nostra percezione del corpo, la vecchiaia, la cura, la fragilità? Nel 2023Donna Vita Libertà esprimeva solidarietà alle donne iraniane e sottolineava la continuità fra le parole donna, vita e libertà. Nel 2024 la scelta del tema Trame di vita – Trame di pace è stata inevitabile in un periodo buio dell’umanità, ma nello stesso tempo illuminato da sprazzi di luce e di speranza per le azioni di tante donne e uomini in ogni parte del mondo tese al cambio di civiltà.
Giorgia Basch: Il titolo che abbiamo scelto per questa redazione aperta è “L’arte della relazione” e il perché lo capirete durante il nostro intervento, mio e di Donatella. Non si tratterà di parlare solo a un pubblico specifico, a chi fa parte del mondo dell’arte contemporanea, ma anche a chi fa uso di pratiche artistiche e creative nella vita di tutti i giorni, qualcosa che il femminismo ha fatto e continua a fare anche nella mia generazione. Vorrei anche fare un’altra precisazione: chi viene spesso agli incontri di Via Dogana sa che siamo solite leggere una sorta di relazione, o comunque lavorare su interventi singoli. Con Donatella però, vista la tematica e quello che andremo a discutere poi con voi, abbiamo scelto di mantenere un dialogo tra di noi e di creare una conversazione in cui cercheremo di portare innanzitutto le nostre esperienze, quindi a partire da noi, e poi di dare anche qualche indicazione storico-culturale che è a noi vicina e che pensiamo possa aiutare a introdurre questo tema. Vedremo anche delle immagini, cosa che accade ogni tanto nei nostri incontri, ma devo dire che in questo caso ne avremo molte, e speriamo che possano sostenere la narrazione. Lascio la parola a Donatella.
Donatella Franchi: Grazie. Dichiaro subito la posizione da cui parlo, che è quella di una femminista degli anni ’70 con una gran passione per l’arte e la politica. Le due passioni per me coincidono.
Il fatto di parlare insieme a Giorgia, una giovane donna, mi fa pensare che il femminismo è un movimento che continua a rinascere e ad essere ricreato da ciascuna. Non è un tempo storico, è una ricerca, un modo di stare nel mondo. Ne è una dimostrazione il rinnovato interesse per la figura di Carla Lonzi. In tutti i suoi scritti la riflessione sull’arte e la creatività occupa un posto centrale. È un pensiero generativo che oggi continua ad essere fertile e a dare nutrimento.
Carla Lonzi oggi viene ripubblicata, riletta e rivissuta anche da studiose di storia dell’arte e da diverse artiste. Segnalo due testi particolarmente efficaci: Carla Lonzi, un’arte della vita di Giovanna Zapperi, 2017, e La storia dell’arte dopo l’autocoscienza a partire dal diario di Carla Lonzi di Carla Subrizi, 2021. Il suo pensiero è un punto di riferimento in mostre sulle pratiche artistiche delle donne dagli anni ’70 in poi come Il soggetto imprevisto (Milano 2019), e Io dico io (Roma 2021).
Nella sua premessa a Sputiamo su Hegel (1970) Carla Lonzi dice: «Il bisogno di esprimersi è stato da noi accolto come sinonimo di liberazione». Esprimersi dunque è una azione politica e fare politica coincide con il desiderio. Questa secondo me è la chiave di volta per capire che cosa è stato il femminismo per una donna della mia generazione. Un urgente desiderio di esprimersi che si traduceva in una sperimentazione a tutto campo, a partire dalle nostre vite, per trovare la nostra voce, parole e immagini proprie, libere dalla tradizione maschile. «Non credere più a una liberazione di riflesso fa uscire la creatività dai rapporti patriarcali» (Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile, 1971).
Il pensiero rivoluzionario che Carla Lonzi elabora nel suo gruppo di Rivolta Femminile, e soprattutto attraverso il dialogo con Carla Accardi, libera l’atto creativo dal dominio dell’artista restituendolo al vivere e all’agire creativamente, alla vita.
È necessario smitizzare la figura dell’artista che, sentendosi depositario privilegiato della creatività, accentra su di sé la creatività che tutte e tutti in modi diversi possediamo e che è indispensabile per orientarsi dentro la vita. «[…] tutti devono essere creativi, non è immaginabile che si accetti una parte di umanità tagliata fuori» (Taci. Anzi parla, 6 agosto 1972). Qui mi risuonano anche le parole di Anna Maria Ortese, quando dice che “Il fatto creativo” è entrare nel mondo per il verso giusto e non creare è morire (Corpo celeste, pp.55-60). Mettere a frutto il proprio io creativo è necessario come respirare.
La creatività è prima di tutto in funzione della vita ed è nutrita dalle relazioni.
Il gruppo di autocoscienza, per tante della mia generazione, è stato uno spazio di relazioni creative e un laboratorio di ricerca dove l’espressione di una trovava echi e risonanze nell’espressione dell’altra. Nell’atto creativo dell’ascolto veniva rotta la fissità dei ruoli tra chi si esprimeva e chi ascoltava. Erano posizioni intercambiabili (Zapperi, p. 215). Era una pratica d’ascolto che portava a un nuovo modo di esprimersi capace di dare voce alla propria esperienza, e alla rottura di specialismi e stereotipi culturali.
Ho vissuto il femminismo degli anni ’70, e continuo in parte a viverlo, come una pratica creativa che si manifesta in un fare. «Fare il femminismo» diceva Carla Lonzi e Carla Accardi diceva «fare arte». Si inventavano e si aprivano nuovi spazi e nuovi contesti di relazioni. Si aprivano le proprie case, dove si incontravano i primi gruppi di autocoscienza, e luoghi come le librerie delle donne, laboratori creativi, spazi espositivi curati dalle stesse artiste.
Nel mio gruppo di autocoscienza ero l’unica che aveva la passione per l’arte e per il fare arte, ma tutte sentivamo l’urgenza di metterci in gioco cercando un modo di esprimerci che non avevamo mai sperimentato. Utilizzavamo la fotografia come pratica di autocoscienza. Erano le fotografie degli album della nostra infanzia, spesso scattate dalle nostre madri e più tardi da amiche e conoscenti, fidanzati, e quelle scattate da noi stesse. Il lavoro che ne è risultato, e che abbiamo chiamato Equilibrismi, consisteva in una riflessione di parole e immagini sui ruoli e i travestimenti che assumevamo nelle nostre vite sotto lo sguardo di chi ci fotografava. Il prendere in mano l’obiettivo significava guardare il mondo dal nostro punto di vista, prendersi la responsabilità del proprio sguardo e creare immagini proprie, fuori dall’imitazione.
La fotografia, come i video, sono tra gli strumenti espressivi più amati dalle femministe tra gli anni ’70 e ’80, come mezzi duttili e immediati che non richiedono una lunga preparazione accademica e possono così rispondere all’urgenza di comunicare liberamente.
Carla Lonzi non amava le artiste sue contemporanee, le vedeva ancora nell’imitazione della tradizione maschile. Incontra quello che non trovava in loro nel mondo delle Preziose della prima metà del ’600. In Armande sono io!conversando con Anna Piva, ci dice chiaramente quello che lei intendeva per arte, proiettandolo nello spazio relazionale delle preziose: La Carte du Pays de Tendre. La carta di Tendre è una mappa dove i paesi e le città portano i nomi di relazioni e sentimenti, sia positivi sia negativi; la città più grande è quella di Nuova Amicizia, e c’è quella della Stima e della Riconoscenza, il fiume che solca il territorio è il Fiume dell’Inclinazione, cioè del desiderio, ma c’è anche il grande Lago dell’Indifferenza. Il territorio è misurato in leghe d’amicizia. Man mano che ci si allontana dal Fiume dell’Inclinazione, si trovano i sentimenti negativi, l’Indifferenza, la Trascuratezza.

Per Carla Lonzi creare un contesto di relazioni è un vero atto creativo, per questo considera delle vere maestre le Preziose, che praticando l’arte della conversazione «portavano sempre più la letteratura (ma si può dire la stessa cosa per l’arte visiva) ad essere in funzione della vita» […] «loro volevano spostare a che il momento più importante fosse questo dell’arricchire il vivere insieme. Arricchirlo, per cui una parola detta, una frase trovata, una serata riuscita era veramente un capolavoro» (Armande sono io! pp. 54-55). Allora, a questo punto, Giorgia, vorrei che tu ci dicessi la tua.
Giorgia: Mi vorrei ricollegare alle Preziose, che tu hai citato, ma con una premessa: ci tenevo a far emergere la pratica relazionale che abbiamo messo in atto io e Donatella per preparare questo incontro. È per me espressione di quella genealogia femminile di cui qui parliamo molto spesso e che credo sia molto importante, soprattutto all’interno delle pratiche creative. Nella mia tesi Conversazione come pratica. Dialoghi tra arte e curatela dagli anni Settanta a oggi ho scritto del rapporto – a volte anche difficile ma spesso fruttuoso – che c’è oggi tra artiste e curatrici, critiche d’arte e pubblico. Se non fosse stato però per quello che voi femministe siete riuscite a creare negli anni ’70, inclusi gli spazi come questo che ancora sono qui fortunatamente, non sarebbe stato possibile per la mia generazione leggere la pratica artistica nel modo in cui sono in grado di leggerla oggi, io come molte altre. Io non sono un’artista, però ci sono molte artiste, e anche curatrici, critiche, editrici contemporanee che ne hanno fatto un uso proprio e ve ne farò vedere degli esempi. Quindi credo che sia assolutamente fondamentale ricordarci della storia che ci ha condotte fino a qui e di come queste pratiche continuino a rivivere e a rinnovarsi anche sulla base di una serie di problematiche sociali, economiche e politiche che ci troviamo ad affrontare nella quotidianità.

Tornando alle Preziose, anch’io sono stata curiosa di capire che cosa le Preziose rappresentassero per Carla Lonzi, ma anche per altre donne che hanno lavorato sulla pratica di relazione. Una di loro è qui presente, è Lia Cigarini – qualche mese fa abbiamo avuto una conversazione sul suo interesse per le Preziose, di cui ha anche scritto, e questo testimonia l’importanza di un movimento apparentemente molto lontano da noi (siamo nel ’600). Le Preziose hanno fatto un lavoro straordinario, assolutamente rivoluzionario rispetto al contesto in cui erano calate, ovvero tra le altre cose creare questi salotti in cui si discuteva di un vero e proprio programma culturale, tra donne ma anche tra donne e uomini. Credo che questo modello in qualche misura ce lo portiamo ancora dietro – c’è ad esempio una teorica viennese con cui ho avuto modo di confrontarmi lo scorso inverno, Elke Krasny, che ha scritto un saggio molto interessante al riguardo, The Salon Model: The Conversational Complex (purtroppo ad oggi solo in inglese) che parla proprio di come la pratica relazionale, il dialogo, la conversazione si possano riportare al centro di una pratica curatoriale, a partire dai salotti delle Preziose. Questo fa proprio parte della creazione e del nutrimento di una genealogia femminile. Non è un caso: credo che anche Lonzi sia ripartita da lì, ne parla molto in Armande sono io, un libro molto interessante anche per com’è costruito, in forma di conversazione. E parlando di conversazione, è un tema che anch’io ho avuto modo di affrontare e mi interessa anche perché molto spesso la conversazione viene vista solo sotto l’aspetto della parola – come dicevi anche tu, Donatella. Tuttavia a volte anche attraverso il linguaggio visivo è possibile creare delle forme di conversazione. Questo mi interessa moltissimo, e ne ho scritto di recente non solo per il mio legame con la fotografia, il video e tutti i mezzi legati alla creazione dell’immagine (lens-based si direbbe in lingua inglese), ma anche perché noi viviamo in una società che è completamente assorbita dal flusso delle immagini – lo scrivevano Guy Debord e Susan Sontag a dieci anni di distanza (rispettivamente nel ’67 e ’77) già mezzo secolo fa, e la loro intuizione si è rivelata essere uno studio importantissimo sul passaggio alla società dell’immagine. Per questo motivo mi interessa come possiamo ripensare quello che è stato scritto e studiato fino ad ora rispetto alla produzione dell’immagine, da un punto di vista di donne e anche di femministe. Il motivo per cui abbiamo scelto di far vedere anche noi delle immagini oggi testimonia di alcuni casi di fotografe che sono riuscite a creare un dialogo attraverso l’utilizzo della fotografia non solo con il pubblico, ma anche all’interno dell’opera stessa. Un esempio che a me piace molto è un lavoro dell’artista britannica Gillian Wearing degli anni ’90, Signs that Say What You Want Them To Say and Not Signs that Say What Someone Else Wants You To Say. Sostanzialmente Wearing andava in giro per Londra, per strada, e chiedeva alle passanti e ai passanti di scrivere su un cartello un loro messaggio, uno stato d’animo; quindi un lavoro fatto nella contingenza. I messaggi erano tra i più disparati, molto spesso anche abbastanza disperati devo dire, e questo le permetteva di entrare in conversazione con i soggetti attraverso l’immagine e il processo fotografico. Quando ho cominciato a ragionare su cosa rappresentasse per lei entrare in relazione con queste persone nel giro di pochissimi minuti, l’ho trovato straordinario. Ed è straordinario anche che ci arrivi un riflesso di quello che lei ha prodotto lì, oggi, con le sue opere. Noi che siamo all’esterno, molti anni dopo, possiamo ancora relazionarci con queste persone leggendo i loro messaggi, però attraverso una fotografia. Tanto per dire che si sono molti modi possibili per entrare in conversazione e che questo potrebbe essere uno.
Un’altra tematica è quella della rigenerazione delle pratiche, della riattivazione di alcune delle pratiche femministe che sono nate negli anni ’70, come quella dell’autocoscienza, oppure la pratica dell’inconscio che è una pratica femminista prettamente italiana, milanese. Ci sono diverse artiste che hanno deciso di riattivare delle pratiche già esistenti. Una di queste è un’artista americana, Carmen Winant, che ha pubblicato nel 2019 con Printed Matter Notes on Fundamental Joy: ha deciso di riattivare un archivio fotografico prodotto in Ohio negli anni ’80 facendone un libro, ora già introvabile, in cui troviamo una serie di immagini che non ha scattato lei benché sia anche fotografa, ma che sono state prodotte durante una serie di workshop chiamati Ovulars e che raccontano l’esperienza di una comune femminista di donne lesbiche separatiste, che hanno vissuto tra donne per molto tempo – avevano rapporti di amicizia, relazioni e si scattavano foto. È un libro molto denso che racconta le loro storie con un testo che scorre lungo tutto il libro, una sorta di testo-poesia, il pensiero dell’autrice sul lavorare a questo archivio da vicino.
Un’altra artista che vorrei citare e che è stata qui in Libreria per sviluppare un suo lavoro video è Alex Martinis Roe, con cui alcune di noi hanno collaborato a stretto contatto, per esempio Laura Minguzzi qui presente1. Alex Martinis Roe lavora con il video, l’audio e la performance, e qui come potete vedere abbiamo una foto di lei mentre sviluppa una sua performance a Berlino, Encounters: Conversation in Practice, del 2010. Martinis Roe ha fatto un lungo lavoro sulle pratiche del femminismo e sulle genealogie femminili, tra cui quelle della Libreria delle donne, e ha voluto ridare nuova vita, in un certo senso, al lavoro di pratica politica e relazionale che era stato fatto qui, a partire dall’opera A Story of Circolo della rosa del 2014. Quello che lei fa il più delle volte nelle sue performance è far sedere qualcuno con lei, trascorrerci del tempo e registrare queste conversazioni o prendere nota di quello che succede – e quello è l’atto creativo, quella è l’opera. Questo pone un’altra questione, di cui discussi con lei, quella dell’opera dematerializzata e quindi difficilmente vendibile. Si crea un mercato dell’arte delle donne in alcuni casi, o se vogliamo dell’arte femminista, che è molto, molto lontano dalle logiche di mercato tradizionali, e questo ovviamente pone la sfida dell’essere artista nel neoliberismo, nel mondo contemporaneo.
Passo la parola a Donatella per parlare di alcune scelte radicali rispetto allo stare nell’arte.

Donatella: C’è un andirivieni tra la creatività che è indispensabile per vivere ogni giorno e quella che diventa pratica artistica, la soglia è molto labile. Ho sperimentato questo nella mia vita e nella mia pratica artistica. Preferisco parlare di pratiche artistiche più che di arte.
Nelle pratiche artistiche che trovo più significative, in gioco non c’è l’identificazione in un prodotto ma il processo del ricercare, il lavoro artistico come un divenire che sostituisce l’opera chiusa e definita, dove lo scopo è creare degli spostamenti, anche piccoli che aiutano a mettere in circolo energie e pensiero aprendo vie di trasformazione. Le opere esistono in quanto relazioni, nel loro farsi e divenire più che come oggetti. «Il mio lavoro è una sorta di esca, di richiamo per interrogarsi sulla realtà», dice l’artista americana Martha Rosler.
Oggi si riconosce che il femminismo è il movimento del Novecento che ha più influenzato l’arte visiva. Molte artiste hanno reso l’arte uno strumento di azione nelle loro vite, e oggi assistiamo al fiorire di pratiche artistiche come pratiche sociali e relazionali, e pratiche di resistenza.
Ad esempio, sabato 21 settembre a Bologna c’è stata la “Festa delle strade strette”. Un’iniziativa organizzata da un gruppo di giovani di un laboratorio di serigrafia nella zona universitaria, dove abito. Le strade secondarie della zona, “le strade strette”, sono degradate, soprattutto a causa dello spaccio di droga, che le rende insicure. Il progetto partito dal laboratorio, che ha coinvolto anche una legatoria di tesi di laurea e una piccola galleria d’arte, ha fatto leva sul desiderio di relazioni gioiose e di scambio degli abitanti, di tutte le generazioni. In una delle strade è stata allestita una tavolata lunga molti metri, per un pranzo collettivo con il contributo delle e degli abitanti. Sono stati preparati dei laboratori, frequentatissimi, di stampa, di collage, di rilegatura, colori e carte a disposizione dei bambini/e, musica dal vivo. Il desiderio di convivialità, di mettersi in relazione e la vitalità gioiosa che questa festa mi ha comunicato mi ha fatto pensare che i giovani e le giovani che l’avevano preparata avevano creato un vero capolavoro. Dei giovani e delle giovani che lavorano con l’arte avevano trasformato le pratiche relazionali in pratiche artistiche, in azioni creative di politiche di resistenza. Invece di fermarsi alla protesta per la scarsa presenza delle istituzioni in quella zona degradata hanno creato un esempio di convivenza dove far convergere le energie creative e il desiderio di tutti/e. Una vera azione politica dal basso.
Fare arte è mettere a fuoco il tessuto di relazioni che sorreggono la vita e le permettono di continuare. Questo è il tema centrale del lavoro di molte artiste.
Un’artista che ha creato una vera rivoluzione nel modo di vivere la pratica artistica è la statunitense Mierle Laderman Ukeles. Dopo aver avuto un figlio si sente divisa in due, non riesce a conciliare la cura per il figlio e la sua attività artistica finché, per poter sopravvivere a questa angoscia, prende una decisione: se lei è l’artista sarà lei a decidere che cosa è arte. Qui sento risuonare l’«io dico io» del secondo manifesto di Rivolta Femminile. E infatti nel 1969 Ukeles scrive proprio un manifesto, il suo progetto artistico e politico, il Manifesto dell’Arte della Manutenzione, Maintenance Art, in cui dichiara che è arte prendersi cura della vita e delle relazioni, e l’atto concreto di mantenere curato un luogo. Nel manifesto contrappone l’istinto di morte delle avanguardie artistiche all’istinto di vita che si radica nella quotidianità.
Nelle sue performance vuole mettere a fuoco tutto il lavoro quotidiano che sta alle spalle delle opere d’arte (back half of life) e che permette loro di esistere, rovescia il privato nella dimensione pubblica, intreccia arte e vita in un modo del tutto imprevisto. Nel 1974 in un importante museo statunitense (Wadsworth Atheneum di Hartford) crea una performance dove spolvera gli ambienti, pulisce il pavimento e le scale. Lavorerà poi nella sede degli operatori ecologici di New York ideando una serie di performance dove nell’arco di undici mesi stringe la mano a 8500 spazzini dicendo loro «Grazie di mantenere viva New York».

Giorgia: Questo è un esempio assolutamente geniale, anche se la sua opera purtroppo non è molto conosciuta. Vorrei sottolineare la sua scelta di fotografarsi – è interessante che sia attraverso la fotografia che ci arriva oggi questa performance. Anche questo fa parte di un vero e proprio processo in cui la documentazione ha giocato e gioca un ruolo molto importante per le artiste. Ci sarebbe ancora molto da dire, ad ogni modo spero che nel tempo a disposizione siamo riuscite a dare un’idea di cosa il femminismo ha rappresentato e continua a rappresentare per le pratiche artistiche, e di come poi queste possano diventare anche altro, anche pratiche legate al tessuto sociale e politico. E di come il dialogo, manifesto o meno, sia imprescindibile.
- Alex Martinis Roe, Marirì Martinengo, Laura Minguzzi. Una storia dal Circolo della rosa. Libreria delle donne, 2015. ↩︎
Da sempre la guerra mi suscita repulsione e paura. La radice di tale avversione si trova nella mia storia familiare. Da ragazzina ascoltavo i racconti di mio nonno paterno che aveva vissuto la seconda guerra mondiale: osservavo le conseguenze che quell’esperienza aveva avuto nella sua e altrui esistenza; mi pareva che gli effetti “bellici” continuassero a vivere nella genealogia familiare sotto altre forme, imponendo vincoli e generando scelte.
Nonno Biase, padre di mio padre, aveva partecipato alle guerre coloniali di Etiopia ed Eritrea, obbligato dal regime fascista e probabilmente incoraggiato da suo padre, un contadino molto povero con undici figli a carico; fu catturato dalle truppe inglesi e dopo nove anni di prigionia e lavori forzati nelle ferrovie tra Londra e Birmingham, rientrò come reduce nelle campagne del tavoliere delle Puglie, deturpato nel corpo e nell’anima. Sposò mia nonna, giovane vedova, e dalla loro unione nacque mio padre. Lui ricorda che nonno Biase era facile alle sbronze e alla violenza soprattutto nei suoi confronti, un bambino che aveva l’ardire di rinfacciargli, suo malgrado e ingenuamente, la gioia come possibilità di esistenza, e di non obbedirgli quando aveva voglia di giocare a calcio con gli amici invece che andare a pascolare i maiali nell’aia. Alla fine degli anni sessanta, mio padre fece di tutto per evitare la leva obbligatoria: coltivò la sua passione per l’ingegneria meccanica iscrivendosi all’università e quando rimase indietro con gli esami approdò a un impiego pubblico e al matrimonio; dopo che neanche tale sforzo fu sufficiente, decise con mia madre di concepire una creatura: finalmente come padre di famiglia ebbe l’esonero definitivo dal servizio militare. In famiglia, sono ritenuta la figlia del “non servizio militare”, una conseguenza desiderata o un nobile pretesto per ripudiare le armi e le loro dolorose conseguenze. Da adolescente ebbi l’impressione che i racconti di guerra dei nonni e l’analisi storico-politica della Seconda guerra mondiale seguissero due percorsi paralleli nella mia mente generando livelli di conoscenza che faticavano a incontrarsi: spesso era impossibile conciliare in una visione coerente vicende familiari e avvenimenti storici.
Ho un vissuto simile rispetto ai conflitti recenti, nello specifico la guerra tra Russia e Ucraina e l’aggressione israeliana della striscia di Gaza. Ai fatti riportati dall’informazione cosiddetta mainstream, si contrappone la dolorosa verità dei profughi di guerra, che giunti fino a noi, raccontano di perdite umane e case distrutte. L’esperienza della guerra entra nelle strutture di accoglienza dell’associazione per cui lavoro, con il suo carico di angoscia e spaesamento: assume il volto disperato e smarrito di chi è fuggito dalla propria terra con un bagaglio di fortuna o più spesso senza alcun bene necessario. Nelle case di accoglienza abbiamo accolto dapprima due giovani donne fuggite da Nikolaev che parlavano e comprendevano il russo più che l’ucraino e non potevano capacitarsi dell’invasione dei fratelli russi. T. è arrivata a Parma, senza bagaglio, raccolta in strada da una sua connazionale che faceva la spola tra Reggio Emilia e le zone occupate. Si era ritrovata in strada dopo un boato che aveva distrutto la casa vicina. Spesso va in Ucraina perché le sue figlie vivono ancora a Kiev ma della guerra non riesce a parlare, ne piange e basta. Qualche mese fa ci ha detto che suo genero è rimasto gravemente ferito. E poi sono arrivate V. e N., figlia e madre, fuggite da Shevchenkove, un villaggio situato a trenta km dal confine con la Crimea, che come racconta N. è stato conquistato in due giorni. Dopo il 24 febbraio 2022 hanno vissuto in un garage per circa 40 giorni, insieme ad altre persone: V. non riusciva a lasciare la mano di sua madre e non dormiva: è lei che l’ha convinta a fuggire verso la Polonia e poi la Germania, sfidando prima un posto di blocco vicino Odessa, poi un tank russo senza munizioni e infine i missili ucraini “amici” lanciati contro l’offensiva russa. Dopo 10 giorni in una palestra di una città tedesca a loro sconosciuta, V. ha inviato la posizione tramite Google Maps a un amico italiano che ha convinto suo padre ad andare a prenderle per portarle in Italia. Dei profughi palestinesi ho poche notizie da colleghi e colleghe: dove vivo non ce ne sono molti e la loro assenza è la misura di una tragedia umana da cui è quasi impossibile fuggire.
La condivisione dei vissuti delle donne profughe con cui lavoro e sono in relazione, mi rimanda a un prezioso testo di Luisa Muraro. In Maglia o uncinetto, infatti, si dice che parlare è come fare a maglia e che la trama del linguaggio si articola su due direttrici: quella metaforica e quella metonimica. La direttrice metaforica è la sfera dei rapporti in assenza, che seppure necessaria nella produzione del linguaggio, rischia, se usata in eccesso di astrarre troppo e di allontanare le parole dall’esperienza di chi parla. La metonimia è, invece, la figura retorica del linguaggio che consente la combinazione dei segni in presenza, tramite i quali il vissuto può essere messo in parola e dunque a disposizione delle altre e degli altri, del mondo. Arricchisce il sistema simbolico, vi aggiunge significati e amplia l’ordine di realtà. Essa svolge un lavoro che non è indolore e senza conflitto poiché si contrappone alla direttrice metaforica tagliando la sua pretesa di universalità.
Leggendo con questa lente la contraddizione e la distanza tra i racconti delle donne ucraine incontrate e i resoconti della stampa mainstream sul conflitto russo/ucraino, ho realizzato ancor di più, che i vissuti di coloro che soccombono alla guerra non entrano nella narrazione della realtà di ciò che accade: essa è spesso occultante ed è anzi costruita volutamente sulla loro negazione e sulle implicazioni che tale omissione produce nell’opinione pubblica (sui temi connessi a questo punto rimando alle relazioni tenute da Ida Dominijanni e Giulia Siviero nel maggio 2024 al circolo della Rosa di Verona). Dunque creare spazi e luoghi in cui l’esperienza soggettiva dei profughi viene condivisa, può mettere in circolo una ricchezza simbolica di matrice metonimica capace di contrapporsi ad un regime discorsivo violento e pervasivo imposto dai poteri forti per creare consenso verso la guerra e le sue ragioni.
La metonimia che consente di nominare quelle esperienze ha, a mio parere, ulteriori effetti e benefici: un primo effetto è quello di connettere il racconto delle altre all’esperienza soggettiva di ciascuna/o risvegliando la forza simbolica iscritta nelle nostre genealogie e mettendola a disposizione del presente e della sua lettura. Un secondo beneficio è quello di produrre un guadagno di realtà attingibile da tutti e tutte, un di più di esistenza, capace di neutralizzare gli effetti distorsivi e anestetizzanti di una narrazione iper-metaforica del reale in cui si perde l’esperienza singolare e quotidiana del dolore e della perdita. Una risorsa che diviene un antidoto contro l’assuefazione alla guerra e alla normalizzazione della violenza in tutte le sue forme.
I racconti delle profughe accolte nelle case di accoglienza in cui lavoro, hanno risvegliato la memoria storica iscritta nella mia genealogia, l’hanno resa attuale e simbolicamente attiva: non si tratta di confondere le esperienze che hanno riguardato persone e generazioni diverse, ma di estrarne una similitudine, un comune denominatore capace di rafforzare la relazione, la vicinanza, l’empatia nella differenza. Una condivisione di linguaggio e di spazi emotivi/simbolici che tracciano una terra comune e indicano una direzione. Non ho vissuto quello che i miei nonni e le mie amiche ucraine hanno vissuto, ma il loro racconto mi fornisce un orientamento chiaro nella realtà e mi permette di assumere il rifiuto della guerra come postura radicata in una genealogia e un ordine simbolico che riconosco nella storia che incarno, nel pezzetto di umanità che mi porto dentro e che non riguarda solo me. Spesso accade che la condivisione dell’esperienza generi uno spazio prezioso in cui il vissuto e la verità soggettiva che ad esso si accompagna, diviene dono comune, un luogo di autenticità da cui si possono attingere conoscenze e competenze utili a orientarci nel reale. Pertanto creare contesti di condivisione e racconto diviene una strategia politica che mette in circolo risorse simboliche preziose che concorrono a radicarci nella non violenza, non come mera scelta ideologica, ma come postura generata dal riconoscimento reale di una violenza che ci tocca nelle sue variegate forme, e arriva a interpellare la nostra esistenza e il suo significato. È in questo processo di produzione simbolica collettivo di matrice metonimica che si radica, allora, un dissenso che può smembrare i discorsi iper-metaforici, e dare legittimità alla differenza delle esperienze soggettive. È un processo che non solo consente di riconoscere e decostruire i “frame” della guerra impliciti nei discorsi pubblici sulla guerra (Ida Dominijanni citava a riguardo il testo di Judith Butler Frame of war), ma di mettere in campo un guadagno di conoscenze e realtà. Un terreno da cui si può attingere la forza di interrompere il circuito della violenza (il gesto pacifico di cui anche Ida D. parlava nella relazione prima citata) e il coraggio di opporvisi non mediante un atto personale eroico e isolato, ma attraverso un lavoro simbolico comune che restituisce dignità e centralità all’esperienza soggettiva del lutto, della fragilità e della violenza subita aprendo speranze e nuove prospettive di libertà.
Mi interessa riprendere una riflessione di Elisabetta Cibelli sul valore politico della mediazione e sulle conseguenze nefaste della sua mancanza. Vorrei evidenziare le differenze fra le pratiche in atto nel presente. Per quanto mi riguarda la mia preferenza va alla creazione di contesti. Lo scambio in presenza permette di alimentare la fiducia, l’ascolto, mentre viceversa sui social network si incrementano le polarizzazioni, la diffidenza, la rigidità schierata. In questo mondo di identità fittizie e di luoghi fittizi, il mondo reale disturba, è perturbante. Si riproducono fantasmi che si potenziano con grande sfoggio di pubblicità mediatica, come è accaduto nel recente G7 a guida italiana che si è svolto nel nuovo villaggio finto-antico di Borgo Egnazia, non a caso uno scenario artificiale che ben si accorda agli attuali tempi mediatici.
La mediazione è un fine lavoro, una messa al mondo di una parola incarnata e sessuata, un processo generativo. Partecipare alla pubblicazione del libricino Vietato a sinistra su temi controversi nel dibattito femminista, mi ha permesso di riflettere sugli effetti positivi di una pratica in contesto. Il fatto che si sia giocata la fiducia, l’affidarsi a un’altra, il credere possibile, ecco, tale postura ha dato luogo a un circolo virtuoso, alla generazione di altri contesti, di un movimento di scambio fra differenti posizioni su alcuni nodi che scottano, quelli affrontati nel libricino. In presenza di mediazioni e di riconoscimento di autorità, in alcuni incontri abbiamo finito per dialogare a volte anche con quelle o quelli che avevano tentato di far annullare le presentazioni del libro.
Il femminismo è sempre stato un campo di battaglia di idee e pratiche. In questo momento è particolarmente impegnativo esporsi in luoghi pubblici o tessere mediazioni con chi ricorre a strumenti virtualmente offensivi per manifestare il disaccordo. Lo sfondo che può giustificare queste modalità è che tutto ciò accade in un teatro di guerra e di azzeramento quasi totale della parola in favore delle armi. Si scambiano missili invece che parole! Ma le donne hanno sempre parlato. La guerra non è mai riuscita a farci tacere. Più che mai oggi possiamo dire che la libertà femminile è la novità storica, non la guerra. Le guerre ci sono sempre state.
Alla mia nascita, nel dopoguerra, mia madre Eva esclamò: «Una femmina, quanto dovrà soffrire!», mi ha raccontato Drusilla, la levatrice. Invece è stata una «indicibile fortuna», «non è da tutti», ha scritto Luisa Muraro1. Dopo un po’ di anni di femminismo, guidata dalla mia passione per la lingua e la storia, nel corso delle mie ricerche ho trovato in una vecchia busta una cartolina postale di mia madre sedicenne. Il destinatario era un corteggiatore (mio padre) cui lei comunicava che non se la sentiva di accettare le sue proposte di fidanzamento perché troppo giovane e poi soprattutto amava la sua libertà. Mi sono commossa e ho provato un moto di orgoglio. Erano gli anni trenta del secolo scorso. Un germoglio di fierezza e di indipendenza che lei mi ha trasmesso nonostante l’asprezza della sua condizione e del momento storico.
Negli ultimi anni ho provato un sentimento di gioia in nome della libertà femminile quando sembrava avviato con successo un percorso europeo di buone relazioni con l’Ucraina. Marina Santini nella sua introduzione ne parla. Mi sembrava un effetto positivo della contaminazione fra le donne italiane e le migranti ucraine che venivano in Italia per lavorare. Ricordo che all’inizio del terzo millennio si dibatteva pubblicamente, anche con grandi manifestazioni di piazza a Kiev, di un possibile ingresso in Europa del paese, diventato indipendente nel 1991. La famosa rivoluzione arancione, che ho seguito con le amiche femministe di Karkhov e di Kiev, e che in Italia riscosse tanta visibilità e suscitò tante aspettative. Un movimento promettente fino all’insorgenza di una crisi identitaria. Finì quando il governo dell’epoca pose la questione della lingua e approvò una legge che proibiva l’uso della lingua madre nei territori orientali del paese. Una politica linguistica territoriale di dominio come barriera difensiva/aggressiva, simile a un muro simbolico. Un’espropriazione del linguaggio, che imponeva con la forza la funzione istituzionale della lingua a scapito della funzione comunicativa. Uno snaturamento della creatività della lingua materna, che ha accompagnato l’avviarsi alla guerra in corso. Un processo di identificazione della lingua con un territorio. Un uso strumentale che la sostituisce a un territorio o viceversa un territorio che sostituisce una lingua cancellandone la natura simbolica, che è aperta, non selettiva, che non conosce confini territoriali. È a questo punto che la mediazione diventa performance, linguaggio performante, parola truccata che alimenta l’astrazione dai corpi, i fantasmi e i conflitti armati.
Ho trovato molto vicina alla mia esperienza la testimonianza di una giornalista del Guardian, Viv Groskop, che trent’anni fa ha trascorso un anno nell’ex-Unione Sovietica e in Ucraina. In un articolo del 16 giugno scorso2 racconta che, sebbene l’Ucraina fosse indipendente da tre anni, le affermazioni di identità nazionale restavano perlopiù sottotraccia, tranne che per il cibo e le bevande, diventate dopo il 1989 una questione di identità.
«[…] A quel tempo qualsiasi animosità fra i due popoli sembrava essere oscurata e i disaccordi minimizzati. […] C’era un senso di ottimismo, nonostante la “terapia d’urto” per l’economia.
[…] Ero in tournée con la band punk-rock del mio ragazzo, nell’estate del ’94. […] Quell’anno ho imparato a cucinare piatti russi e ucraini, un miscuglio delle ricette preferite dalle cuoche casalinghe di molte ex-repubbliche sovietiche. […] Alcune erano elaborate ricette tramandate in famiglia. […] Insegnavo inglese a studenti adulte e molte delle mie insegnanti ufficiose di cucina furono loro. […] La prima a invitarmi nella sua cucina è stata Oksana, una donna uzbeka [che] voleva mostrarmi la ricetta dei mànty, ravioli, di sua madre. […] Conoscere i mànty e come mangiarli (si morde la parte superiore e si succhia il sugo) mi è stato molto utile a Odessa. […] Tutto questo, ovviamente, prima che il cibo diventasse politico come tutto il resto. In Ucraina la madre del mio ragazzo mi ha insegnato a cucinare i syrniki(pancake) con tvoròg (formaggio fresco) parlandomi in un mix di russo e ucraino, una lingua chiamata sùrzhyk, il nome del pane misto segale. Non ho mai incontrato nessuno che facesse una grande differenza fra il parlare russo o ucraino, a quei tempi: si parlava semplicemente come si parlava. […]».
Per me la caduta del muro di Berlino rappresentò la fine del patriarcato, l’avvento della libertà femminile (e non solo), e così fu anche per le donne oltre la cortina di ferro: il regime per loro aveva perso credito. Furono dieci anni quelli della perestrojka, dal 1991 fino al 2001 con l’elezione di Putin, di fioritura e di sperimentazioni in tutti i campi, nuove riviste nascevano, nuovi giornali indipendenti, nuove TV, traduzioni in russo di tanta letteratura femminile e femminista con pubblicazione di tante scrittrici e scrittori russi prima censurati, mostre d’arte contemporanea di artiste non più ispirate al realismo socialista. Ricordo una raccolta di racconti russi dal titolo Cosa vuole una donna, che io comprai per tradurla in classe con le mie allieve e allievi. Un’esplosione di apertura e di rivisitazione della memoria grazie all’apertura degli archivi. Grandi dibattiti pubblici e sui giornali. Un’abbuffata di “democrazia”, di libertà con le donne protagoniste. Sempre nel 1993 contattai una Biblioteca delle donne, a Mosca, e conobbi due insegnanti che avevano aperto una libreria e una casa editrice, La nuova scuola, per scrivere e diffondere nuovi manuali, ispirati a una pedagogia non monolitica. Furono messe in scena le ragioni di tutti. In quel periodo così fertile io potei finalmente realizzare scambi residenziali con le mie classi dei licei di Milano e le classi di due licei di Pietroburgo. Le amicizie nate fra le scuole milanesi e russe sono state appassionanti, ispirate dal senso di libertà che le motivava oltre che dal desiderio di capire e dal piacere di conoscere una realtà e una storia differente dalla mia, dalla nostra, tutto grazie all’amore per la lingua.
- Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, 2011 ↩︎
- Viv Groskop, Caviale di melanzane, chioski di kebab post-sovietici: cosa mi ha insegnato la cultura gastronomica ucraina trent’anni fa, The Guardian, 16/06/24 ↩︎
Sono diventata una donna che ha un’idea fissa. È una cosa insolita per me personalmente; ho sempre avuto più di un’idea in testa, e nessuna che rifiutasse a priori di esserne sloggiata per far posto ad una migliore. Ed è una cosa penosa, ho scoperto, come trovarsi in prigione. L’idea fissa non solo tende a legare a sé tutte le altre, ma tende essa stessa a concentrarsi in un punto, diventando così di un’intensità che prelude, temo, al mutismo. È come un chiodo che sta inchiodando il cervello ed è anche il martello che picchia sul chiodo: tum tum tum.
Le ho dato un nome, si chiama “Lo splendore di avere un linguaggio”. L’ho trovato in Clarice Lispector, La passione secondo G.H. (si dovrebbe scrivere GH, ma non importa). Nella sua lingua originale il nome è: O esplendor de se ter um linguagem. Il nome è bello; fa pensare all’alba delle persone insonni o malate, alle icone nel buio delle chiese orientali, alle stelle dei viaggiatori di una volta, perduti nel deserto o, peggio, nel mare aperto. In certi momenti della storia, o della vita personale, un linguaggio può fare una luce grande e piena, tolte, pur sempre, le ombre prescritte dall’ottica (la scienza è scienza). Ma la mia presente povertà me lo mostra come una luce non forte e lontana; non per questo meno cara, anzi.
Ho scoperto infatti che il linguaggio può mancare: non relativamente a uno più potente (Lettera a una professoressa del Sessantotto) o più autentico (Le parole per dirlo del femminismo), ma in assoluto. Ho scoperto che ci si può trovare al di qua del linguaggio necessario, e sono arrivata a pensare che oggi ci troviamo, come prova storica, al di qua o al di sotto del linguaggio necessario.
Come mi sia venuta una simile idea, non so, ma ricordo le volte in cui essa mi torna in mente. Una volta fu in seguito ai primi arresti di Tangentopoli. C’era, nella città di Milano, una tristezza delle cose mute che “parlava” al posto nostro, che non sapevamo parlare il linguaggio necessario. I linguaggi che poi si sono imposti, della legge, della televisione, della vendetta, della riorganizzazione politica, hanno significato qualcosa ma non rendono il patimento collettivo causato dalla scoperta di tanto scandalo.
Altro esempio, dopo le bombe del 27 luglio 1993, scoppiate a Roma, nei pressi di due edifici cattolici, e a Milano nei pressi del Padiglione di Arte contemporanea, causando distruzioni e morte. I giorni successivi la stampa riportò i commenti della Lega Nord («è contro di noi»), degli ex-referendari («si vuole fermare il nuovo»), del ministro dei Beni Culturali («è un attentato alla cultura»), del capo del governo («nel mirino, il governo»), di opinionisti cattolici («contro la Chiesa e il suo capo»), e cosi via, tutti aggrappati al protagonismo delle bombe per rincalzare il proprio senza lontanamente riuscirci, troppo scarsa essendo la sorpresa innocente e dolorosa, ma anche il gusto detective, l’ironia, la mobilitazione interiore. Non si erano nemmeno sforzati, era evidente, come scolari che svolgono il tema assegnato sapendo in partenza che risulterà insufficiente. Commentare bombe e morti diventa noioso per chi ha perduto la fiducia nel linguaggio.
È a causa dell’abuso che l’abbiamo perduta, io dico. Le bombe sono venute dopo, quasi di conseguenza. Ed è, perciò, la storia dell’abuso linguistico che occorre ricostruire. Quand’è cominciata? Se risalgo i cinque decenni della mia vita non infante, fra i ricordi più antichi c’è una crociata via radio contro il pericolo comunista. Eravamo da poco usciti dalle sofferenze di una guerra e di un’occupazione militare, una più maledetta dell’altra, eppure quel programma radiofonico ci fece (parlo di me, dei miei genitori e degli altri familiari) un male più grave. La fiducia nel proprio giudizio umano e politico, che l’esito della guerra sembrava poter rinsaldare, andò perduta per la paura di un avversario nuovo e strapotente, non individuato in tempo utile; alla soddisfazione per la liberazione e la pace cui tutti avevamo contribuito, anche i più piccoli, subentrò il fantasma di un futuro ben più gravemente minacciato. E tutto questo arrivava non dall’esterno, con bombe e carri armati, ma attraverso la voce della radio che prima ci aveva aiutato a sperare e a resistere.
Cominciò così ad offuscarsi per me lo splendore del linguaggio, la luce sacra e aurorale delle parole che, insieme alla forza di mia madre e quasi identificata con essa, mi aveva assistito sul bordo delle fosse anticarro, nella fame e nel freddo, nella contemplazione delle macerie, nell’ascolto di fatti inauditi e tragici, i più tragici di tutta la storia umana conosciuta.
Sto cercando di discolparmi? O attribuisco ad un avvenimento qualsiasi qualcosa che doveva comunque succedere? La colpa sarebbe che poi io stessa cominciai a usare il linguaggio e, soprattutto, a pensare che così si debba fare con le parole e a giustificare che altri lo facessero. Non penso a falsificazioni ottenute con trucchi retorici né a menzogne propagandistiche. Penso agli usi normali, quelli giudicati corretti: c’è infatti una misura che il linguaggio dà a noi e non noi al linguaggio – misura materna la chiamo – ed essa è già perduta quando diciamo “usare” il linguaggio. Uso e abuso in questo senso sono collegati fra loro; non c’è, fra l’uno e l’altro, un salto che ci avverta del passaggio. Denunciamo gli abusi senza notare che discendono dagli usi che noi stessi facciamo del linguaggio. Per marcare il passaggio, dove risulta troppo facile e ha conseguenze troppo gravi, oggi si ricorre a codici deontologici di autoregolamentazione. È un espediente importato dai Paesi riformati, che fa leva sulla capacità umana, forse più sviluppata da loro che da noi, di interiorizzare norme. Ma, anche se ben formulato e rispettato, un codice non può prevenire un abuso micidiale per la vita della lingua, che è l’uso stereotipato. Anzi, i codici lo favoriscono.
Non sono la sola, per fortuna, a criticare la funzione oggi attribuita all’etica nei rapporti umani. L’etica aveva già un suo posto nella civiltà occidentale moderna, e piuttosto grande; ora si vuole dilatarlo, secondo me oltre misura, per farle prendere il posto di un ordine simbolico perduto. Infatti, se passiamo dall’uso all’abuso quasi a nostra insaputa, vuol dire che, nel rapporto con la lingua e gli altri linguaggi, la misura era perduta già da prima. “Prima”, quando?
Ritornando alla mia storia personale, ma comune, una grande perdita di competenza simbolica l’ho patita con l’entrata nella scuola dell’obbligo, a causa del disprezzo scolastico del dialetto, che era la mia lingua materna in senso stretto. L’italiano non mi fu insegnato come una lingua strettamente imparentata con quella che già sapevo, ma come fosse una lingua superiore che doveva prenderne il posto. Da due secoli in Italia, e altrove, si discute dei dialetti e delle minoranze linguistiche, senza arrivare a capo di niente. E questo perché, secondo me, la questione non viene messa sulle sue gambe, intendo il primato della lingua materna letteralmente intesa, lingua che la creatura impara venendo al mondo, quasi sempre dalla madre. Non mi riferisco, sia chiaro, al dialetto veneto o lombardo o alla lingua tedesca nel Sudtirolo: anche questi sono nomi convenzionali, sovrapposti alla lingua materna, la cui finezza è tale da registrare differenze fra un paesino e l’altro (fra un quartiere e l’altro di Palermo, mi informa Maria Schiavo) e oltre, radicandoci in definitiva nel luogo unico della relazione materna.
Ma sono passaggi, non barriere. La lingua, di suo, non conosce frontiere, ma solo passaggi, traduzioni. Tra una lingua e l’altra, non ci sono guardie, ma traduttrici e mediatori. Purtroppo le mie maestre di scuola erano preparate a fare le guardie più che le mediatrici fra cultura infantile e cultura scolastica. Non erano preparate alla traduzione di quello che María Zambrano chiama il sentire originario, farlo cioè passare dal luogo della relazione materna ai diversi luoghi di questo mondo. Uso l’imperfetto perché al presente devo mettere il danno di una deportazione culturale attraverso troppe frontiere. Ho letto sullo “Herald Tribune” di un programma formativo rivolto a giovani madri immigrate per convincerle a parlare alle loro creature neonate: non vogliono, perché la loro lingua non è l’inglese, quella utile per il futuro dei figli. Similmente, noi non possiamo ereditare né far ereditare la ricchezza che si trasmette con le parole e gli altri linguaggi. Dal patrimonio ci separa non la geografia né un’invasione di barbari, ma la mancanza del linguaggio necessario. Chi insegna storia conosce la fatica spesso inutile di far imparare la storia: le persone giovani sembrano capaci di assimilare unicamente le conoscenze che si producono nel loro presente. Vi sono musei che, per non restare deserti, si sono organizzati come saloni di video-games. A questo imprigionamento nel presente (o nel futuro?), risponde la comparsa, fra le persone più giovani, di forti vocazioni storiografiche: oggi si parte per il passato come in altri tempi si andava in Africa o in Cina.
Un viaggio di altro tipo, verso le risorse della lingua materna, suggerisce Giovanni Ferrari in un libriccino sorridente e geniale, Homo scientus (Muzzio, Padova 1993). L’autore, uomo di scienza, si interroga, preoccupato, su ciò che avviene nel suo mondo. C’è un morbo pestifero, egli dice, che ha colpito la ricerca scientifica, la “peste del linguaggio”. In che cosa consiste? «La semiotica della peste del linguaggio è riferibile principalmente alla perdita di potere della parola», perdita che riguarda la parola «come elemento strutturale delle costruzioni linguistiche, capaci di realizzare non solo la collezione di informazioni, ma anche una rete di fatti e concetti connessi mediante implicazioni teoriche, confronti dialettici e riferimenti incrociati, le cui interpretazioni possono essere espresse correttamente solo con parole appropriate, capaci di costruire un linguaggio non approssimativo». La perdita in questione si manifesta specialmente nell’assenza di emozioni dalla comunicazione scientifica, con il risultato che questa non è più capace di comunicare: «Due sono gli elementi emotivi che non possono mancare nel discorso scientifico: curiosità e meraviglia», e risultano invece tristemente mancanti. Alla patologia del linguaggio contribuisce il passaggio obbligato attraverso l’inglese: «Espressioni generiche e stereotipate imperversano nei lavori pubblicati in lingua inglese, ma hanno ormai preso possesso dei testi italiani mediante traduzioni che soffocano qualsiasi conato di originalità». L’inglese, naturalmente, non è una causa del male, e in generale l’autore ci invita a non cercare cause, quanto a riconoscere la malattia. E poi, che fare? Seguiamo l’esempio del Decamerone, è la sua risposta, e facciamo il Decamerone della scienza, ossia un ideale congresso scientifico cui partecipano donne e uomini capaci di raccontare la scienza. Dovrebbe essere organizzato in tre livelli, spiega Ferrari. E nella sequenza dei tre livelli che io vedo abbozzato il viaggio di ritorno verso le risorse della lingua materna. Il primo, fatto di comunicazione elettronica in linguaggio specialistico e in lingua inglese, senza uso di carta stampata, è la comunicazione di ricerche e risultati tra specialisti. Il secondo riunisce fisicamente e liberamente, fuori da calcoli di potere, un pubblico di studiosi, non solo specialisti, che ascolta racconti di ricerche, fatti in lingua nazionale, ravvivati da letture, senza escludere «il contributo dell’inconscio». Il terzo livello coinvolge il grande pubblico, con la divulgazione delle nuove conoscenze.
Al terzo livello, prima della divulgazione, io metterei l’insegnamento, sia scolastico sia universitario, scritto e orale.
Mi ha colpito la parola d’ordine che gli/le studenti si sono dati l’autunno scorso, “Jurassic School”; mi pare il sintomo di un’afasia tecnologica, non smentita dai servizi giornalistici né dalle testimonianze di insegnanti di scuola: «non dicono perché occupano, non hanno niente contro la scuola, dicono solo che vogliono ritrovarsi fra loro». Testimonianze a loro volta afasiche; esattamente come i paper scientifici, anche i rapporti degli adulti con le persone giovani sono o sembrano privi di emozioni. Le emozioni ci sono, ma non arrivano alla comunicazione. Sto pensando al volto di una studentessa che, dal primo giorno di lezione, mi guardava con una concentrazione sempre uguale, senza rapporto apparente con le mie prestazioni, finché, durante un ripasso notturno della giornata, ho capito che quello era lo sguardo delle creaturine davanti al televisore acceso. Nello specchio muto e immobile di quello sguardo, ho potuto misurare la mia perdita. Mia, nostra. In filosofia, da un secolo, non facciamo che ragionare del linguaggio; nello sguardo della studentessa io, come una balena arenata, ho trovato la terra ferma di un sicuro fallimento. Quando qualcuno mi dice: ma hai provato a leggere l’ultimo Habermas, per dirne uno, rispondo come negli slogan: no, grazie. Credo nel lavoro intellettuale, è la mia professione, e apprezzo la tenacia di quel vecchio pensatore, ma ci sono scacchi che domandano di essere registrati.
Un giorno ho trovato le studenti del mio corso fuori dall’aula: c’è dentro una lezione, mi dicono. Non era esattamente così; c’era dentro un personaggio di cui non ho potuto stabilire l’identità, che parlava con cinque o sei studenti, ma sarebbe più esatto dire che li faceva parlare. Un venditore di computer? un assicuratore? un rappresentante di Dio?
La questione è che, rovesciando il punto di vista, non avrei saputo stabilire, sebbene portasse il mio nome e fossi proprio io, chi era e che cosa faceva lì la donna che si affacciò alla porta per invitare il personaggio ad uscire con la sua piccola corte, dicendogli che a quell’ora in quell’aula “c’era lezione”. In effetti, mi muovo nell’università da anni senza essere arrivata a costituirmi, non dico un’identità, ma un’immagine di me per me, dotata di coerenza, e senza riuscire ad orientarmi, se non mi tenessi attaccata a un’aula e a un orario; non bastano infatti i rapporti buoni e la passione di cercare e insegnare, che pure è grande. Faccio spesso un sogno: sono in viaggio, distante, e improvvisamente, con angoscia, mi rendo conto che dovrei andare a scuola, a insegnare, ma ho dimenticato le date, i luoghi, gli orari. In passato mi sono sforzata di pensare che doveva trattarsi di un mio male, come una forma di disadattamento accademico. Dopo di che ho dovuto capire che non c’è un mondo al quale io non saprei adattarmi, perché senza linguaggio non c’è mondo. E ho capito che il male di cui soffro è comune; tutti lo mascheriamo in qualche modo, come una famiglia dove tutti soffrono dello stesso disturbo ma si finge, tacitamente, di essere normali.
C’è nella vita dell’università, e altrove, forse ovunque, una frammentazione e una casualità di accostamenti così estese che le persone, le cose, i nomi, i discorsi non arrivano mai a formare un contesto sensato e duraturo. Come descrivere la natura di questa perdizione? Essa si manifesta nel disordine notorio dell’istituzione accademica: c’è incoerenza e casualità nei soldi, nelle gerarchie, nelle carriere, nella divisione del lavoro, nelle discipline, negli ordinamenti, e via, via. Ma la cosa di cui parla, il morbo di cui soffriamo, non si identifica con i problemi della giustizia, della buona amministrazione o dell’efficienza. È un disordine più elementare, ed è sbagliato, secondo me, ritenerlo esclusivo dell’università. Ascoltando le operaie di un’azienda grande e moderna, ho riconosciuto la stessa cosa insensata che sta avanzando anche in quella diversa realtà. Dicevano: non si capisce più niente, a furia di voler organizzare tutto, è tutto disorganizzato, c’è uno spreco che non riusciamo a impedire, non riusciamo a lavorare bene, ma nessuno ci ascolta. La perdita dell’ascolto, ecco il sintomo, perché infatti, nel linguaggio, prima della parola viene l’ascolto. Pare che cominciamo ad ascoltare ancor prima di venire al mondo; certo, l’ascolto è la pratica simbolica di chi ha il senso dell’autorità della parola. Anche questo è un punto di rispondenza con l’autore di Homo scientus che segnala la sordità che domina nella società scientifica: per il troppo peso che si dà ai rapporti di potere, io suggerisco. Ho notato infatti che chi si concentra sulla questione del potere, si regola benissimo in base a certi segnali e diventa sordo al significato delle parole. Ma la sordità sembra estendersi, sta diventando sordità reciproca fra persone di poco o nessun potere, sui tram, in mensa, fra vicini, fra studenti, fra colleghi.
Un impiegato della mia università, coraggiosamente, ha fatto girare una lettera documento intitolata Contro l’ingiustizia un atto di giustizia. Comincia denunciando che «alcuni alti dirigenti dell’Università usufruiranno di benefici economici arretrati di un centinaio di milioni, in quanto è stato loro riconosciuto il ruolo di dirigenti ab ovo». Questo fatto, dice la lettera, «ha suscitato tra il personale sentimenti che vanno dal disgusto alla rabbia, soprattutto in considerazione delle disuguaglianze economiche esistenti e dei sacrifici che lo Stato ci obbliga a sostenere in nome dell’emergenza economica». Finisce invitando a firmare il documento e a «devolvere l’equivalente di un’ora del proprio stipendio a favore dei disoccupati o per qualche analoga iniziativa di solidarietà». L’autore non intende denunciare illegalità; al contrario, egli sottolinea che le cose da lui denunciate sono legali, ma proprio questo è «l’aspetto più sconvolgente». Come dargli torto? Segue tutto un elenco di sconvolgimenti della giustizia ad opera della legge, un paio dei quali, suppongo, riguarda anche me: «ci sono leggi che consentono ai docenti universitari di avere un orario ridicolo e senza controlli, di insegnare in una sede pur vivendo a centinaia di chilometri di distanza». Dico “suppongo”, perché, a parte i non so quanti chilometri che separano Milano da Verona senza separare il mio vivere dal mio lavorare, c’è la questione di quell’“orario ridicolo”, forse inteso come orario d’insegnamento, e non di lavoro. Ma il “senza controlli” non mi lascia scampo. È dalla prima, elementare che gioco d’astuzia per riuscire a lavorare senza controlli: l’amante del lavoro, esattamente come l’amante-amante, odia i controlli.
Chi ha risposto alla lettera documento di quell’uomo?, mi sono chiesta. Forse nessuno, io gli rispondo qui e mi tengo la sua lettera come documento del vicolo cieco in cui è finita la ricerca di giustizia. Forse la sua sorte sarà di approdare, per una sera, in uno di quei programmi televisivi che confezionano e servono al pubblico la sua voce inascoltata.
La televisione, di nuovo. Come la lingua inglese, neanche la televisione è una causa. Ma in essa, più che in altre situazioni, risalta la mancanza del linguaggio necessario. A differenza di altre situazioni, infatti, la televisione appare schiacciata fra la potenza del mezzo tecnologico e la pochezza della parola che esprime. In realtà, è capitato che una straordinaria esplosione di potenza tecnica nelle comunicazioni umane, sia caduta in un’epoca di mancanza di parola. Quando guardo Mike Buongiorno nella Ruota della fortuna o Donatella Raffai in Chi l’ha visto?, non posso non ammirare la continuità delle loro prestazioni, segno di, come chiamarlo? rigore professionale? docilità? con cui fanno la loro parte, non una parte, ma la Parte umana di un mezzo strapotente. Al paragone, di Buongiorno e della Raffai, io credo che noi, nella situazione che si chiama insegnamento e ricerca, stiamo facendo piuttosto male la nostra parte. Abbiamo privilegi che non ci è difficile difendere grazie ad altri privilegi, ma, alla lunga, niente ci difenderà dalla pochezza della nostra comunicazione. Di che cosa parlano i professori universitari quando si parlano? Non di studenti né di studi né di ricerca, non di amori, progetti o sogni, non di lotte, non di passioni, non di piaceri. Ma di concorsi, quasi unicamente. La conversazione fra accademici è noiosissima; al confronto, i minatori sardi sembrano il nipote di Rameau. Sappiamo parlare come chi non è misurato dalle necessità del vivere né dall’urgenza delle altrui aspettative. Cioè meno bene di un venditore di computer o di un rappresentante di Dio, per non fare paragoni sleali con chi offre droga e conduce programmi televisivi.
Sono così tornata sulla porta dell’aula alla quale un certo giorno mi affacciai per dire ad uno sconosciuto intrattenitore di studenti che doveva uscire perché, a quell’ora in quell’aula, c’era “lezione”. Ma non è di un copione migliore che siamo alla ricerca. Serve una cosa ben più semplice e difficile, addirittura un linguaggio, cosa che nessuno può darsi da sé né imporre ad altri, ma solo trovare e praticare. Perciò non possiamo che partire da quello che c’è e dal suo nome, se per avventura lo ha. E infatti un nome, per nostra fortuna, c’è. Sulla porta dell’aula c’è una donna: non una vergine, non una sposa, non una madre, ma semplicemente una donna. Ricalco, come qualcuno avrà riconosciuto, Maestro Eckhart, Sermo 2, cioè un testo allegorico esposto ad essere malinteso per più versi, fra cui quello della sua significanza storica. Un testo allegorico, voglio dire, non è mai solo allegorico; l’allegorismo ruota sempre intorno al perno di una letteralità. Che va scoperta, di volta in volta, poiché la letteralità è una faccenda di contesto. Una donna, non un professore, una disciplina, un esame, una scuola. Io, personalmente, potrei provare a identificarmi con queste categorie, ma di me resterebbe senza nome quello che esse lasciano fuori come un loro di meno e un loro di più, il genere femminile, significante di una dignità umana in forse e di una libertà minacciata, da cui la Costituzione dice che si deve prescindere: “senza distinzione dl sesso”.
Solo diventando donna l’essere umano esce dalla sua sterile verginità, disse il Maestro citato sopra. Invece, il mio caro maestro Bontadini mi diceva ogni tanto: «Luisa, perché vai con le femministe? che problemi ci sono? Ricordati che tu sei homo», finché un giorno gli diedi questa risposta «Prof, dalla filosofia di questo secolo abbiamo imparato che l’essere parla la lingua di un essere situato nello spaziotempo; io sto imparando e ti insegno che parla la lingua di un essere corpo vivente sessuato: donna, uomo». La risposta fu giudicata soddisfacente.
Ma che cosa dice? Che cosa vuol dire, per esempio, che io sono una donna? Niente di niente, se non che prendo su di me la mediazione di tutto quello che è a cominciare dal mio essere corpo. Differenza sessuale: significanza dell’essere a cominciare dall’essere corpo. Avere un nome per questo niente di niente, vuoi dire mettersi nella condizione d’imparare a fare in prima persona il lavoro del linguaggio senza il quale il senso delle cose è perduto. Mediazione vivente io chiamo questo lavoro di mettersi in carne ed ossa sul filo dei linguaggi e imparare a tenerci in equilibrio il mondo. Una volta l’esempio lo davano i poeti e le poete: Emily Dickinson è la mia preferita, ma anche Ezra Pound e Leopardi. Adesso, l’esempio lo danno le sportive e gli sportivi, giovanissimi, che gareggiano in corse mortali per farci gustare le condizioni di un vivere significativo. Non sono in gara fra loro, ma con la nostra crescente povertà simbolica. Dopo la morte sulla neve di Ulrike Maier, «troppo rischio, troppa velocità» ha commentato il padre di un ragazzo morto in circostanze simili. Che cos’è lo sport? «Un male necessario» ha risposto lo stesso; dunque, quelli che si usa chiamare incidenti, sono sacrifici umani di un tipo nuovo?
Ho contribuito a far bocciare una proposta di “Women’s Studies” nell’università in cui lavoro. Non vorrei che il mio passato fosse servito a impacchettare il senso della differenza femminile dando vita a un altro copione di vita accademica. Ma, ancor più, non voglio essere defraudata del mio compito umano. Ho bisogno di un nome, come un funambulo del suo bilanciere, e ho bisogno proprio di quel nome. Essere donna è per l’essere umano il problema di una dualità che non gli dà pace, ed è la risposta a questo problema. Essere donna è la necessità esistenziale della mediazione. All’altezza del linguaggio necessario – questo chiamo il compito umano, in generale – io so che arriverò, senza escludere per altri altre strade, con la pratica della mediazione vivente, impegnandomi cioè nel lavoro del linguaggio come una sua parte. Non sono sciatrice, non sono poeta ma sono donna, e la differenza sessuale è una forma di vita fra le più drammaticamente presenti nella storia umana, la cui significanza forse è troppo materiale per essere contenuta nei libri di storia e nei libri in genere. Certo, dai libri non l’ho imparata e non credo che si possa imparare, ma dal vivo. Infatti, nonostante i libri che avevo letto e perfino scritto in proposito, io non la conoscevo prima di arrivare sulla soglia che doveva farmi passare (o, meglio, ripassare, nel viaggio di ritorno verso lo splendore aurorale della lingua materna) dalle mediazioni codificate all’inermia della discesa libera.
Il senso delle cose, quali che siano, le più grandi e le più piccole, si trova e si perde storicamente. Che non vuol dire convenzionalmente. Ne cerchiamo le tracce, di preferenza, dove le parole ci mancano e le spiegazioni non arrivano. Su quel bordo io vedo che la differenza sessuale fa luce: è come uno sguardo voltato verso le tenebre culturali di un essere corpo opaco a se stesso, corpo pesante nella storia umana con l’animalità della vita collettiva e con la bestialità del potere.
«Non c’è speranza» ha detto un giornalista di ritorno dal teatro della guerra in corso vicino a noi. È così? e allora lasciamoci cadere; facciamo di queste parole la nostra linea di condotta. Non scelta da noi, naturalmente, come potremmo?, ma impostaci dalle cose. Si può vivere senza speranza una vita non disperata: nata con la guerra, io sopportavo le sue sofferenze e contemplavo i suoi teatri tranquillamente persuasa che facessero parte della vita. (Non mi sbagliavo di molto, ora mi rendo conto.) Non c’è speranza nei sempre più numerosi teatri dell’impotenza della ragione e della buona volontà, fra i quali io metto anche l’università, per quello di cui ho potuto rendermi conto di anno in anno, di tentativo in tentativo. Me ne sono convinta dopo aver visto buone leggi non usate da chi avrebbe avuto interesse personale ad usarle, in obbedienza a un “ordine” simbolico svantaggioso e illegale. In ciò mi trovo d’accordo con l’autore dell’Università dei tre tradimenti, Raffaele Simone, purché andiamo fino in fondo, dove c’è, ho scoperto, un punto di partenza. Avere speranza è volere qualcosa di meglio di quello che c’è; il desiderio di chi spera ha bisogno di pensare che non vi sia limite al meglio. Chi dispera, ne dubita; chi ha lasciato ogni speranza, pensa, più radicalmente, che non vi sia limite al peggio. Smessa così ogni speranza, egli (o ella) si accorge che c’è qualcosa e che questo qualcosa è enormemente più di quello che aveva diritto di attendersi: su questo sorprendente di più il suo desiderio prende lo slancio. Dovremmo trovare una parola per questo rimbalzo del desiderio sulla perdita definitiva della speranza. A pensarci bene, la disperazione appartiene a quelli che continuano a sperare e pretendono, per agire, condizioni che non ci sono.
A questo punto, si pone la questione della politica. Che cosa significa o aggiunge l’impegno politico rispetto a un desiderio che non ha bisogno di speranze per alimentarsi, a un agire in rispondenza con la mediazione primaria, quella della lingua viva? Credo che la risposta sia: niente. All’efficacia di un desiderio senza illusioni e alla potenza mediatrice della lingua materna, la politica non aggiunge niente, non serve. Ma un altro legame si è annodato perché, a questo punto, siamo noi che serviamo alla politica, se abbiamo quel desiderio e quella potenza. Per spiegare come, racconterò la storia, ascoltata a Lugano (Svizzera), di una maestra di lì che amava molto la lingua italiana e perciò anche l’Italia, per cui quando da noi trionfò il nazionalismo fascista, lei si sentì in certo modo fascista e lo proclamò ai quattro venti e a causa di ciò fu processata e passò in prigione parecchi anni. Nelle democrazie moderne, normalmente, non si va in prigione per le proprie idee; siamo però d’accordo che il fascismo avanzante non si poteva considerare un “normalmente”. Ma come non rimarcare la sproporzione fra la severità verso la maestra di Lugano e i mille cedimenti dei potenti che aprirono la strada al Duce e a Hitler? La saggezza popolare risponderebbe: “volano gli stracci”; io penso invece che qui si tratta della sistematica strumentalità di una comunicazione basata sui contenuti dichiarati. La comunicazione fine, di chi ha il senso della mediazione vivente, non stenterebbe a riconoscere il loro nome: i contenuti dichiarati sono etichette e fantasmi. Il nome vero delle cose è tutt’altra cosa. Ma come impararlo? come acquistare il senso della necessaria mediazione e la capacità della comunicazione fine? Come diventare intelligenti?
Io rispondo: con l’inermia della discesa libera, con la mediazione immediata, praticata in prima persona, anzi dal prima della prima persona, che non ha bisogno di rappresentazioni ma di mediazione attiva per sapere il suo desiderio, e commisurare quello che c’è con quello che manca al suo realizzarsi. Utopia? ma no: l’agire politico creativo, così ha origine; il resto, è l’operare meccanico di potenze impersonali, i cui effetti ad alcuni piace rivestire di nomi propri, come si faceva negli atlanti del Seicento: lago Alberto, isola San Salvador, etichette e fantasmi di una geografia non meno stupida dell’Europa antifascista.
Per i nomi, forse, vale lo stesso che per le speranze: se ci rinunci fino in fondo, c’è un rilancio di sapere e di desiderio. Ma per arrivare a questa mutezza, che grande sforzo di voce, come dice Clarice Lispector: «Ah, mas para se chegar àmudez, que grande esforço da voz». Infatti, è un avanzare sempre più contrastato, fra la dolcezza crescente di un sapere non fissato a contenuti e libero da fantasmi, e la precisione estrema dei suoi comandi. Se non si trova la misura esatta, è il mutismo o il bla-bla, sintomi entrambi di ciò che abbiamo mancato. Che è il perfetto silenzio su cui s’impernia l’operare simbolico. Che grande sforzo di voce per arrivare al linguaggio che significa quello che è, dal suo interno. La mediazione attiva (la Marta di Maestro Eckhart, per intenderci con sufficiente precisione) non produce rappresentazioni di ciò che è: non ne ha tempo né modo né bisogno.
Rinunciare alla esteriorità delle rappresentazioni, è condizione della mediazione vivente; da questa, a sua volta, dipende, secondo me, un uso misurato delle mediazioni codificate. Ma possiamo rinunciarvi? Possiamo rinunciare alle speranze, ai nomi propri, alle etichette e ai fantasmi? Non so. Mi viene in mente che era la scommessa dei primi pensatori della rivoluzione copernicana: disancorarsi dalla fissità della rappresentazione per lasciarsi precipitare nell’infinità celeste. Forse, a ciò allude la sindrome storica delle persone giovani: non abbiamo perduto qualcosa di troppo importante perché valga la pena di mantenere una memoria storica?
Luisa Muraro, Lo splendore di avere un linguaggio, in “aut aut”, 260-261, 1994, pp. 27-37.
Esiste un legame molto stretto fra le parole e la politica, nessuno lo ignora. Per cominciare, «politica» è una parola. In politica, inoltre, si fa grande uso di parole. Pensiamo al parlamento. C’è di più, pensiamo a una frase come «prendere la parola». Mi soffermo su questa. Tra le figure che sì possono usare per far intendere il significato della politica, presa di parola è sicuramente una delle più precise. Le è rispondente, infatti, in senso sia metaforico sia metonimico. Per quest’ultimo aspetto, basta dire che non c’è politica, praticamente, senza un uso determinato della parola, che viene presa, data, tolta, negata ecc. Quanto alla metafora, essa nasce dall’interazione semantica del prendere e del parlare, la cui ricchezza sarebbe troppo lungo illustrare. Pensiamo soltanto al contrasto tra il verbo, materiale e possessivo, e il suo oggetto, fluido, mutevole, inafferrabile. Dalla considerazione congiunta delle combinazioni metonimiche e del significato metaforico, prende luce quello che avviene nel passaggio alla politica, quando cioè si passa da una convivenza regolata da altri, non si sa bene con quali criteri e spesso neanche esattamente da chi o da cosa, a un’esistenza consapevole e libera, che si cerca di rendere praticabile parlando e decidendo insieme alle persone interessate.
Mi viene in mente una lontana lettura, le bellissime lettere del conte (all’epoca si chiamava ancora così) Giacomo Leopardi all’amico Pietro Giordani, lettere con le quali il giovane poeta, costretto in tempi e luoghi senza luce, si apre alla possibilità di un’esistenza libera e grande. Penso, più vicino a noi, a quello che è capitato nel novembre del 1967, quando gli studenti della facoltà serale di Economia e commercio dell’Università Cattolica di Milano si ribellarono a un aumento di tasse e provocarono una rivolta che ci portò, noi dei corsi normali e loro, a occupare la sede principale dell’Università. Ricordo il gran parlare che si fece, prima davanti ai portoni di Largo Gemelli e poi, agli inizi dell’occupazione, nell’assemblea in aula magna (si potrebbe obiettare che un’occupazione non è una nuova forma di convivenza, bensì un atto aggressivo, quasi un inizio di guerra. Per finire, sì, è stato questo, essendo mancata una risposta interlocutoria dell’altra parte, che poteva giungere e, posso assicurarlo, avrebbe corrisposto felicemente alle nostre intenzioni, almeno agli inizi; fu soprattutto per mancanza di quell’interlocuzione che il nostro prendere la parola diventò un prendere la cosa).
Pochi anni dopo, l’esperienza della presa di parola come esperienza politica sorgiva tornerà nella mia storia e in quella di tante altre con la pratica dei gruppi di autocoscienza che ha segnato la nascita del movimento femminista. I tre esempi sono molti diversi fra loro e fanno così risaltare il proprio del passaggio alla politica, che è operare (o progettare di operare, come nel caso del Leopardi, che insiste con Giordani sulla progettata fuga da Recanati) una rottura nell’ordine simbolico, che modifica il rapporto fra le parole e le cose. Senza parole non c’è politica. I gesti estremi di chi fugge – nei molti sensi che questa parola può prendere – senza dire niente, non è ancora politica, e non lo è neanche l’esercizio di un potere che non ha bisogno di parole.
La figura del prendere la parola si riferisce specialmente all’atto inaugurale della politica e non abbraccia il possibile risultato, ossia una modificazione significativa nelle forme della convivenza. Sappiamo, d’altronde, che questo risultato non sempre si dà. E che si può parlare di politica anche in assenza di quest’esito. Il risultato conta, ma di più conta come lo raggiungiamo, tanto che Simone Weil ha potuto scrivere che sono i mezzi a giustificare il fine e non viceversa. Questo un punto importante, non nuovo ma sempre da richiamare, e cioè che la lotta per un’esistenza più consapevole e libera, e per una convivenza che non sia tutta in balia di potenze superiori ed estranee, dal padre padrone alla polizia segreta fino al cosiddetto libero mercato, questa lotta significa, per se stessa, che c’è libertà. C’è come movente della stessa lotta politica, come altri hanno già ricordato. Ma non solo: c’è anche come libertà in atto, per un paradosso il cui significato troppo spesso si misconosce (e perciò si perde) nella tensione verso un obiettivo posto davanti, che ci fa voltare le spalle all’essenziale e ci fa dimenticare che l’essenziale si era presentato qui e ora, sia pure in forme enigmatiche che bisogna saper leggere.
Il problema è che la presa di parola, come tutto ciò che è del rapporto fra la parola e la politica, non fa luce sufficiente sul paradosso e tende, anzi, a ignorarlo. Tant’è che restiamo moralmente disgustati, sì, ma senza argomenti politici, davanti all’uso strumentale della parola nella vita politica – anche questa una presa di parola – e davanti alla degradazione che colpisce l’una e l’altra. La tecnologia della televisione, d’altra parte, ha moltiplicato enormemente il potere di penetrazione della parola servile. Le parole non insorgono perché esse, per loro natura, si prestano a tutto e possono significare il falso o l’ingiusto con la stessa forza del bello e del giusto. Ci si allontana dalla politica per la convinzione che non ci sia nulla da fare, invece di allontanarsi, insieme alla politica, dai comportamenti che la degradano. Si sta diffondendo una sorda disperazione che è più appariscente dove si patiscono gli effetti di una sconfitta sociale, ma che non dipende tanto da quest’ultima quanto dal sentimento che il massimo cui possiamo aspirare è troppo poco – o qualcosa del genere.
Tuttavia, io sostengo che, se si attribuisce a qualcuno o a qualcosa, dittatore o mercato, padre o padrone, o servo di padrone, il potere di fare tutto quello che vuole con le parole si sbaglia. Niente e nessuno ha veramente tanto potere simbolico. Il disgusto per la politica per quanto motivato, non è giustificato se solo ricordiamo la potenza che è e rimane nostra in quanto siamo «animali parlanti» e come tali capaci di politica e di libertà. Ma, per rendercene conto dobbiamo spostare la nostra attenzione e prendere in considerazione non la parola ma la lingua e, precisamente, la politicità della lingua. Chi ha letto Leopardi scrittore conosce la sua insistenza proprio su questo tema, che torna anche nelle lettere a Giordani.
Devo fermarmi sull’opposizione parola/lingua, che riprendo dal Corso di linguistica generale di de Saussure, tenendo conto dei principali commenti che ha ricevuto, dalla Scuola di Ginevra fino a Tullio De Mauro, che ci invitano a leggerla nel senso di una polarità – e non di una dualità – nel campo dei fatti linguistici. Una polarità, aggiungo, che non ha soltanto un valore per la teoria, ma che ci aiuta a capire la nostra stessa esperienza linguistica – si può infatti parlare di una vera e propria esperienza linguistica, secondo me.
La scoperta saussuriana della langue ha fatto risaltare che il significato delle parole dipende né dai parlanti singolarmente presi né dal popolo come entità collettiva, ma dagli innumerevoli scambi di parola fra parlanti: la lingua è il medium e, al tempo stesso il risultato di questi scambi, la lingua, paragonabile a un codice, è necessaria ai parlanti per comunicare fra loro, ma la lingua fa ben di più, perché i loro scambi, che le sono ovviamente necessari per essere una lingua viva, essa li registra e li avvalora, trasgressioni comprese. La lingua è in questo senso un’istituzione (la parola risale a de Saussure), ed è l’istituzione più democratica che ci sia, perché il suo ordine non esclude, non inferiorizza, non discrimina, coinvolge tutti in prima persona, non impone deleghe né rappresentanza, non censura né penalizza. Parlare di «codice» e di «istituzione», per la lingua, è un aiuto mentale per pensare la sua autorità e il suo funzionamento, ma si tratta in fondo di semplici approssimazioni, perché, in realtà, non c’è codice che sia disposto a riordinarsi secondo le esigenze degli utenti, quali che siano, anche quella di trasgredirlo, e non c’è istituzione che rinunci a esistere fuori dal riconoscimento che riceve. La lingua invece lo fa, glielo consente la sua connaturata potenza mediatrice.
La politicità della lingua consiste nel suo essere costantemente fatta e rifatta da ciò che essa stessa rende possibile, che è il vasto, incessante flusso degli scambi fra parlanti, tradizionalmente paragonato alla circolazione sanguigna o a quella del denaro, in una sorta di inesausta, mai definitiva ma non vana, contrattazione perché il nostro essere al mondo abbia un senso comunicabile e condivisibile con altri.
Spostare il punto di vista dalla parola alla lingua equivale a privilegiare la competenza rispetto alla prestazione, la performance. La competenza simbolica appartiene di diritto non ai letterati o agli eruditi, ma ai parlanti nativi. Con ciò, io non sono interamente d’accordo che s’insegni la lingua materna senza insegnare la grammatica e la sintassi, anzi, purché si insegnino riscattate da ogni normatività antipoetica: c’è infatti una «poesia della grammatica» come la chiama Roman Jakobson, e c’è una musica che si scrive con la sintassi. Che cosa significa insegnare italiano a un ragazzo, a una ragazza, se non far loro provare e praticare il passaggio dalla mutezza di un vissuto ancora verde alla costruzione di un mondo intersoggettivo? E poi, mostrare loro come la lingua sia genialmente attrezzata per rispondere ai loro bisogni simbolici, e non solo; come anche sia disposta a tener conto dei loro apporti idiomatici e a valorizzarli. Questa risposta di avvaloramento, agli inizi della vita viene da chi insegna a parlare, che di fatto spesso è la madre. In seguito, può venire direttamente dalla lingua, purché sappiamo sollecitarla. Come? Usandola e imparando a usarla meglio ancora, così come D.W. Winnicott ha parlato di usare lo psicanalista e Clarice Lispector, Dio, in La passione secondo GH – parlo di un saper usare la lingua, e non semplicemente le parole, parlo cioè della scoperta e del godimento del valore d’uso dietro e oltre il valore di scambio.
Ecco che a questo livello, nella prospettiva aperta dall’attenzione per la lingua, la prestazione verbale riprende credito come possibilità di un agire simbolico che è avvalorato dalla lingua, e del quale nessuno può appropriarsi contro o sopra gli altri. E cominciamo a poter pensare a una politica che, pur nella tensione verso il cambiamento, non volta le spalle al nuovo che si è fatto presente qui e ora fra noi che ci parliamo, con la lingua che ci parliamo.
Per uscire dalla vaghezza di questo nuovo che si fa presente con la lingua, devo aggiungere qualcosa. Fin qui si è trattato di scambi fra le/i parlanti e ho detto che la lingua li rende possibili. La lingua rende possibile anche un altro tipo di scambi, scambi o negoziati, quelli che passano tra ciò che siamo-viviamo e ciò che (ne) diciamo. Vorrei essere più precisa. Mi aiuterò con un punto di dottrina della linguistica, punto antico ma sempre un po’ bisognoso di essere ricordato, riguardante la natura peculiare del segno linguistico.
Ci sono segni che agiscono evocando nella nostra mente qualcosa di esterno a essi, così come un cibo mi ricorda l’infanzia o il rosso del semaforo mi comanda di non attraversare. I segni della lingua non agiscono in questa maniera, un segno linguistico non rimanda a qualcosa di esterno, perché a rigore niente gli è esterno, in quanto esso nasce, necessariamente insieme a tutti gli altri segni di quella lingua, nel momento in cui, per così dire, il mondo si consegna tutto alla possibilità di essere significato, che è quello che avviene a mano a mano che impariamo a parlare. Si può dire, in altro modo, che un segno linguistico è tale in quanto parte di una totalità, la lingua, che ha il potere di significare la totalità delle cose, compresa se stessa. Una lingua, fosse pure la più rudimentale, è l’universo-mondo che si rende dicibile. Con la sua natura composita di significante e significato, e con il rimando necessario agli altri segni, ogni segno linguistico non fa che ricordare e rinnovare questo scambio tra l’interezza muta e l’esperienza parlante, scambio che è la fonte del suo valore d’uso. E in quest’orizzonte che il «nuovo» può presentarsi.
Aggiungo che gli scambi o negoziati in cui il mondo esce dalla chiusura ermetica dell’immediatezza per lasciarsi abitare, conoscere, trasformare, non sono separabili dagli scambi linguistici in senso stretto, quelli fra le/i parlanti, come è evidente a chi considera il processo di apprendimento di una lingua e, ancor più, quello dell’imparare a parlare. Probabilmente, è il desiderio o il piacere o il bisogno di comunicare con gli altri, in primis con la madre, che fa di noi, in prima persona, il luogo della resa del mondo alle possibilità espressive di una lingua qualsiasi. Sicuramente, il valore linguistico, ossia il significato dei segni, ha due fonti, una è costituita dal modo in cui il reale si arrende al simbolico, seguendo le caratteristiche di questa o quella lingua; l’altra e la società, ossia l’insieme degli scambi tra i parlanti di una stessa lingua. Da cui risulta quello che è risaputo per altre vie e cioè che lo stato dei rapporti sociali è sempre anche una questione di lingua.
Anche il cambiamento dello stato dei rapporti sociali è sempre pure una questione di lingua. Parlando degli scambi o negoziati che passano fra l’esperienza che viviamo e i discorsi che facciamo, ho lasciato credere che si tratti di un processo senza resti né problemi come se il mondo si consegnasse tutto e docilmente alla possibilità di essere significato. Non è così. Il mondo è uno e le lingue sono molte, e questo è un segnale. Ci sono altri segnali e altre esperienze della difficoltà di passare dalla mutezza alla parola. Una, che riguarda forse più le donne che gli uomini, più gli adolescenti che gli adulti, è l’esperienza di una personale «acosmia», ossia non ritrovarsi in quel mondo (cosmo) che si rende dicibile nella lingua che si parla; come se il negoziato che dicevo fosse in perdita di qualcosa, di un sentire, di un desiderare, di un sapere perfino dei quali la lingua non rende conto, dando così luogo a un difficile rapporto con il mondo delle parole. Alla semplice ignoranza della lingua si rimedia con lo studio. Ma lo studio può solo coprire i resti e i problemi legati alla significazione del mondo, nulla di più. Perché, quando i conti non tornano, resta al fondo un insormontabile, inesprimibile, quasi sempre inconsapevole, eppure continuo, forte e sensibile senso d’inadeguatezza che fa della lingua un’istituzione non accogliente e democratica ma ostica e usuraia. Sto enfatizzando l’aspetto di sofferenza di esperienze che però si conoscono anche e meglio dal loro frutto positivo, che è una decisione (decidere alla radice è un tagliare via) più radicale della semplice presa di parola.
Di quella primaria e mai conclusa contrattazione tra mutezza e parola, in cui consiste il saper parlare noi siamo informati in qualche modo, specialmente quando qualcosa «non va». La perdita di competenza simbolica, infatti, dà al mondo una consistenza estranea, quella di una pietra messa sulla tavola al posto del pane. Allora può succedere che esigiamo la cosa che è fuori dal potere di decisione di chicchessia, che è cambiare la lingua e volere addirittura una lingua mai parlata prima. Diciamo «non voglio più parlare una lingua qualsiasi» ma una lingua che mi risponda, che è il modo più radicale di mettere in questione un certo stato dei rapporti sociali. Naturalmente, ma bisogna dirlo, non ci sono lingue «qualsiasi»; ci sono, bensì, molte lingue, ma neanche questa pluralità è sufficiente. Si vuole una lingua «nuova».
Nel frangente creato dalla domanda di un’impossibile lingua nuova, la politicità della lingua s’incontra con la poesia e la poesia si mette a essere politica, restando fedele a se stessa. La politica, invece, nell’incontro – se ci sta – guadagna la capacità di tenere presente l’essenziale.
La poesia, intesa come arte della parola, lavora per vocazione sul confine convenzionalmente stabile, in realtà mobile e combattuto, dei rapporti che i segni intrattengono fra loro e, ciascuno al proprio interno, fra significante e significato, in un gioco da cui dipende la figura che prende il mondo. L’esperienza poetica, che sia di scrittura o di lettura o di ascolto, fa scoprire questo gioco e che si può giocarlo; in altre parole, fa scoprire che il mondo da fuori, separato e fisso, può passare a essere dentro-fuori di noi, in circolo con la nostra esperienza, modificabile e aperto, com’era quando abbiamo imparato a parlare.
Ricordo, del tempo in cui insegnavo alla scuola dell’obbligo, nella periferia milanese, l’effetto che fece la lettura di Pinocchio su un alunno di cui ho dimenticato il nome, ma non l’aspetto fisico: minuto, scuro, nervoso. Era il classico ultimo della classe, refrattario al lavoro scolastico e, apparentemente, incapace di scrivere e perfino di leggere un testo di una certa complessità. Ma questo risultò non essere vero, perché quando lesse Pinocchio trovò un libro che lo comprendeva e che lui capì ex novo. Ci scrisse sopra un commento che mescolava la sua vita personale, tutt’altro che lieta, con le avventure del burattino nel quale aveva riconosciuto un suo alter ego, facendo un racconto in cui parlava comicamente di suo padre, un operaio invalido del lavoro e costretto in carrozzella, del suo segreto bisogno di amarlo e di rispettarlo, e della disperazione di non riuscirci.
Faccio questo racconto e dico queste cose non per concludere con la celebrazione della letteratura e della poesia, ma, quasi al contrario, per contrastare l’esaltazione dell’arte per l’arte che ha continuato a crescere e a diffondersi, in passato, forse al posto della perduta cultura religiosa e ora anche al posto della partecipazione alla vita politica, come una specie d’incantamento che fa da surrogato ai ripetuti disincanti della modernità. Penso che la grandezza della letteratura sia la grandezza della lingua che parliamo resa manifesta da una pratica di parola che disfa e rifà la maglia dell’ordine simbolico in rispondenza a quello che c’è. Un poeta, Giacomo Trinci, riflettendo sul suo lavoro, ha detto che la poesia è «profetica di ciò che già c’è». Non ci sono valori estetici, ma linguistici. Voglio rendere pensabile quest’idea, che il valore della letteratura si afferma quando l’esperienza della lettura si iscrive nello spazio non letterario della vita di tutti i giorni. E tanto meglio lo fa, tanto più grande è. Vorrei poter pensare che il successo di pubblico sia una misura più esatta di tutte le critiche letterarie, com’è stato per Dante e Shakespeare. E per Jane Austen, con Orgoglio e pregiudizio, e per Collodi, con Pinocchio. Vorrei che il tempo dei musei e delle avanguardie fosse finito.
Forse, parole come «creazione» e «creatività» portano fuori strada? Il poeta appena citato non parla di creazione, dice «quello che c’è». Scomparsa l’estetica della creazione, ritroviamo il paradosso incontrato agli inizi riflettendo sulla presa di parola, e non c’è da meravigliarsi, se è vero che la decisione politica ha un effetto poetico, e la poesia uno politico, ed entrambi attengono alla politicità della lingua. È quest’ultima che ha la capacità di far perdere al mondo la sua consistenza di sasso. Spesso si crede di celebrare la poesia per contrasto con quello che non è poesia – scienza o vita quotidiana. È una implicita rinuncia a qualcosa cui io non posso rinunciare. Che cosa? Difficile rispondere: la possibilità di altro…, ma intendiamoci, altro presente qui e ora, l’impossibile imprigionato nel reale. Crediamo veramente che si possa vivere senza?
Luisa Muraro, Non una lingua qualsiasi, in AA.VV. Lingua bene comune (a cura di Vita Cosentino), Città Aperta Edizioni, Troina (EN) 2006, pp. 79-87.
Tutto è lingua e le parole ti toccano, spesso ti feriscono. È vero, possono far male, ma il più delle volte aprono la via per formulare un pensiero tuo, a patto di non rimanere nelle reazioni automatiche già previste. Oppure capita che le parole mancano e senti la realtà che ti pesa addosso come un macigno. È ciò che vivo in questi giorni, è ciò che ho da dire.
Mi sento come schiacciata da questo presente così gonfio di guerra e di rivalsa maschile e vengono meno le parole. Ai miei stessi occhi rischia l’insignificanza quello che faccio: ha ancora senso farlo quando parole sinistre come “guerra nucleare” e “riarmo dell’Europa” non sono più tabù e rientrano a far parte delle prospettive plausibili? Come uscirne?
Lavorando a questo numero di Via Dogana3 ho capito che nel produrre la sensazione di schiacciamento un ruolo decisivo hanno i mass media per come raccontano la realtà. Al riguardo rimando alle acute analisi di Ida Dominijanni e Giulia Siviero presenti nel video https://www.youtube.com/watch?v=7xHjYM9-Xj0. Senza dimenticare Luisa Muraro che già in Maglia o uncinetto (1981) ha mostrato come siamo dentro un regime ipermetaforico che traduce la materia viva delle esperienze, annullandola e restituendola secondo i suoi codici. E valeva allora, come vale ora, una lingua metonimica, che rimanga vicina a ciò che viviamo e patiamo.
È capitato a me, ma capita comunemente, di cogliere la discrepanza che c’è tra il racconto di chi ha partecipato in prima persona a un evento pubblico e quello che dello stesso evento fanno i mass media. Oggi la torsione comunicativa è tutta volta alla militarizzazione e all’esaltazione dello scontro. Un piccolo esempio. Alcune mie amiche hanno partecipato alla manifestazione dello scorso 25 aprile a Milano. Sono tornate a casa contente, perché secondo loro la manifestazione era riuscita a rimanere pacifica, nonostante qualche piccola tensione. Il giorno dopo erano indignate da come la manifestazione era stata raccontata dai telegiornali e da gran parte della stampa: i brevi scontri occupavano tutta la scena e tutto il resto era sparito.
Tuttavia, per uscire dall’effetto schiacciamento, in gioco non c’è solo la consapevolezza di come operano i mass media. Molto dipende anche dalla concezione che abbiamo dell’esistente. Ho capito questa questione rileggendo in Parole non consumate la polemica che Chiara Zamboni apre con lo scritto di Sartre Immagine e coscienza. Zamboni fa vedere come Sartre abbia una concezione soffocante del presente, come un tutto pieno massiccio e incombente, che supera con l’attività immaginativa. Per lui l’immaginazione è un “fare come se” che diventa luogo di libertà, ma al prezzo di annullare la realtà. Per Chiara invece l’essere non è massiccio e immobile, ma in continua metamorfosi per cui aprirsi al gioco del linguaggio permette di trovare potenzialità nell’occasione che si presenta e nel saperla riconoscere. Per lei l’immaginazione è una dimensione dell’essere, non è fuga dalla realtà ma apertura (pp. 93-94). Richiamo queste considerazioni di Chiara Zamboni perché mi fanno pensare che per uscire dalla stretta del presente si possa mettere all’opera un pensiero immaginifico che colga e potenzi quello che c’è già, che nutra quei semi che già fanno intravvedere un possibile cambio di civiltà.
Ragionando attorno a questi problemi, tuttavia, bisognerà pur dirsi che la logica violenta della contrapposizione da un po’ di anni a questa parte è entrata anche nel campo femminista, compreso quello della differenza.
Se vado indietro nel tempo, rivedo gli anni in cui il comune sentire era di far parte di un esteso movimento delle donne, e le polemiche anche aspre tra posizioni e gruppi diversi non intaccavano questo sentimento. Invece oggi, proprio in un tempo in cui il femminismo è davvero in tutto il mondo – e il recente libro di Giulia Siviero, Fare femminismo, ben lo mostra – prevalgono gruppi incomunicanti, spezzettamenti, chiusure identitarie, accompagnate spesso da furia etichettatrice. Troppo spesso la posizione diversa viene rapidamente catalogata come nemica e ci si comporta di conseguenza. Si adottano modalità aggressive, magari inchiodando una giovane che è ancora in ricerca, a cose dette cinque anni prima. Più che conflitti che da posizioni diverse portano avanti la riflessione, si aprono guerre con le parole, tendenti a screditare le presunte “avversarie”. Le guerre verbali, come le guerre sul campo cominciano da una prima aggressione, a cui segue una risposta e così in un crescendo. Quello che so per me è che la mossa giusta è non entrare nella spirale, non rispondere, non giocare a quel gioco, che è il gioco della guerra. Ma, a parte questa pratica, che non è poi così semplice per una come me che ha una natura sanguigna, cosa pensarne?
Ritengo che qui scontiamo il riflesso del narcisismo individualista del nostro tempo. Nei nostri incontri abbiamo sempre detto che le donne sono meno narcisiste degli uomini, e questo è vero, però è ora di constatare che c’è un narcisismo femminile da guardare più da vicino, che porta a posizione egocentrate che facilmente individuano come nemica ogni differenza e entrano nella spirale della contrapposizione violenta. In effetti, come ha ben spiegato Cristina Faccincani ne La carta coperta, il narcisismo presenta un io compatto, in cui «risulta compromessa la relazione con l’alterità, sia interna al soggetto, sia riguardante l’altro da sé» (p. 37). Quindi, a maggior ragione, ritengo che il problema principale sia un difetto di senso della differenza. Ci vuole infatti più senso della differenza all’opera per dare spazio e risalto alla differenza tra donne e farne una fonte di pensiero e di pratiche.
In passato molto si è lavorato sull’asse della verticalità, simbolicamente rappresentato dal rapporto con la madre, producendo elementi di teoria e di pratica politica, quali l’autorità e la disparità, indispensabili per uscire dall’indistinzione di una notte in cui tutte le vacche sono nere. La disparità fa vedere una realtà in movimento perché non si è mai pari. C’è sempre un gioco mobile di più e di meno. Riconoscere un di più a un’altra donna ci rende più intelligenti perché fa comprendere meglio le possibilità che la realtà offre.
Penso però che all’interno di questa pratica sia rimasta troppo in ombra l’idea della differenza tra donne che allarga ancora di più il campo d’azione, soprattutto quando in ballo non ci sono grandi disparità intellettuali e umane facilmente riconoscibili, bensì disparità di minore entità. L’altra differente mi interessa, mi incuriosisce, mi interpella, mi fa arrabbiare e da lì passa conoscenza. Pensare l’altra nella sua insormontabile differenza, mi rimanda a me stessa per quello per cui differisco e rende più comprensibile il contesto che ci accomuna, che è il mondo presente con le contraddizioni che attraversano entrambe. Queste mie osservazioni scaturiscono dal riflettere su alcune mie relazioni nella redazione di Via Dogana3 e da alcune nuove relazioni con donne giovani politicamente distanti. Penso anche al rapporto con le mie sorelle.
In un vecchio numero di Via Dogana (34/35, dicembre ’97) Letizia Tomassone, teologa, apre una polemica con padre Vanzan sul fatto di intendere come paradigma della differenza la differenza uomo/donna, perché così «si cade nella trappola patriarcale della classificazione». Lei invece frequentando il pensiero della differenza intende la sua libertà di movimento non in relazione a «un differente da me» bensì nella consapevolezza della sua parzialità che le «permette di essere in una relazione di differenza e di alterità in primo luogo con le altre donne». Lì si gioca la sua differenza. «Si tratta di un luogo dove non posso mascherarmi, dove non posso abitare spazi già costruiti, ruoli già dati».
In un numero di Via Dogana 3 dal titolo La parola giusta ha in sé il potere della realtà, (dicembre 2018), Luisa Muraro riprende e approfondisce la stessa questione e la considera una buona intuizione su cui riflettere e su cui si aspetta commenti e contributi.
Lei dice: «Primo: sia chiaro che la differenza sessuale non è tra uomini e donne, sarebbe insensato perché, se distinguo i due sessi, maschile e femminile, vuol dire che la differenza ha già operato; diciamo perciò che la differenza sessuale è in. È in me, per cominciare, per cui dico: “io sono una donna”. Secondo: la differenza sessuale che ha già operato, traspare con il mio (tuo… nostro, vostro…) riconoscermi nelle altre donne. Essa consiste dunque nelle differenze tra donne; ma non è una consistenza, è un principio evolutivo della vita che si sviluppa e traduce nella cultura umana».
Per finire penso che c’è tutto da guadagnare a portare avanti questa riflessione.
Di questi tempi mi sento spesso a disagio quando mi confronto anche solo tra me e me, faccio fatica a concentrarmi sulle questioni, mi confonde il frastuono delle voci, delle posizioni, delle interpretazioni che provengono dai media vecchi ma soprattutto da quelli nuovi, se a usarli sono persone distanti da me e con idee diverse dalle mie ma anche se sono persone vicine e con idee simili alle mie. Le parole diventano difficili da tradurre nella mia singolare lingua interiore.
Mi capita di frequente che il tono performativo delle parole e delle argomentazioni, anche di quelle che sono io a dire e a costruire, comprometta il senso di quanto viene detto e ne modifichi il contenuto, la densità delle parole si frantuma in fretta e mi resta la spiacevole impressione di non sapere bene di che si è parlato, che si è detto e chi ha detto cosa a chi. Mi viene in mente una frase di Veronica Giuliani, una mistica marchigiana vissuta nel XVIII secolo: «Dico e ridico e non dico niente». Non credo sia solo un problema di memoria scadente o di un effetto Babele causato dalla molteplicità delle voci e delle fonti a cui ci si trova esposte e con cui si interagisce. È come se le cose che si dicono non riuscissero a farsi strada oltre l’impressione, oltre il momento, è come se le parole avessero vita breve e si nebularizzassero in fretta nel rumore di fondo. Una specie di anestesia, più o meno profonda, anche quando l’argomento mi sta a cuore. Credo sia un problema che riguarda i mezzi e i modi che permettono la comunicazione, cioè il computer, lo smartphone, le reti sociali. Non penso tanto a quelle spiacevoli situazioni in cui capita di imbattersi a volte, quando si incappa nel terribile furore verbale generato dall’autoreferenzialità narcisistica che si euforizza nell’assenza dei corpi ed è impenetrabile all’empatia comunicante, sono frangenti da cui si esce scosse e doloranti, con la sensazione di non avere parole capaci di migliorare lo stato delle cose, davanti al muro del discorso violento. Penso alla normalità della comunicazionesociale tramite smartphone e/o computer, agli scambi consueti, al loro ritmo e alle dinamiche interiori e relazionali che generano, alle ampie porzioni di vita che occupano. Mi sento coinvolta in un mutamento che riguarda me, le cose che sento e penso, le parole che ho per raccontarle e l’attenzione che ho per ascoltare e dare senso alle parole che arrivano da fuori. È una specie di ibridazione che non governo e che non so descrivere perché è sottile e sfuggente, anche se gli effetti sono ben visibili e concreti.
Alla base dello scambio tra i media e i loro utilizzatori c’è stato a lungo il tempo, quello in cui entrambi si rendevano reciprocamente accessibili e disponibili. I giornali, il cinema, la radio, la televisione e anche il telefono avevano porzioni di tempo limitate e ben definite nelle giornate, le vite erano distinte dai media, la comunicazione era mediata soprattutto dai corpi e dalla presenza viva. Con la diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione, in particolare quelle che riguardano Internet e gli smartphone, l’equilibrio si è rotto, la misura è saltata. Lo smartphone è una protesi del corpo, è la sua proiezione virtuale nel mondo e produce l’effetto paradossale di isolare il corpo, di eliminare la contemporaneità delle presenze e dei contesti. È esperienza comune nei luoghi di socialità occasionale (mezzi pubblici, sale d’attesa, bar, ecc.), nelle pause tra un’attività e l’altra e in generale in tutti i momenti liberi, vedere l’immersione collettiva nei telefoni cellulari e l’indifferenza alla presenza fisica delle altre persone, una vistosa espressione di isolamento ma anche di solitudine nel contesto. Questo stato delle cose produce trasformazioni nelle posture relazionali e nel modo di comunicare, si cerca il contatto con la o le tribù di riferimento, restando al loro interno e aspettandosi la loro conferma a prescindere dal luogo in cui ci si trova. Le tribù, favorite dai social e sostenute dalle varie declinazioni del marketing liberista, sono suddivisioni umane omogenee, con molte estensioni oppure selettive, si formano intorno a una condizione, a un tema, a una passione, a un’occasione, possono essere trasversali, distribuite su territori ristretti o molto estesi, durare a lungo nel tempo o esaurirsi con l’occasione da cui sono nate. Sono comunque territori (virtuali) di arroccamento che si percepiscono e si comportano come mondo, con canoni, convenzioni e linguaggi propri, di solito poco accoglienti per chi è estraneo o non addentro ai temi coesivi. Si tratta di una coesione tribale, ombrosa, mutevole e animatrice di conflitti, ben diversa dalla luminosa coesione sociale legata all’idea di democrazia avanzata che alimentava le speranze giovanili della mia generazione. Tutte queste tribù-mondo vivono a sé stanti, dominano loro malgrado solo pezzi ristretti del racconto del reale e per di più ibridati dalle procedure discorsive e affabulatorie della pubblicità mercantile, che è l’esperanto dei media: non hanno alcuna possibilità di arrivare a una visione d’insieme e tanto meno oggettiva del mondo. Nonostante il capillare reticolo di strumenti di comunicazione che avvolge il globo intero ed è utilizzabile da larga parte dell’umanità, siamo dentro a una sorta di sistema integrato e amorale della narrazione, governato dagli interessi di pochi potenti, che sceneggia e racconta attraverso i media reticolari la realtà dando forma a una rappresentazione/finzione indiscutibile, ibridata e declinata a seconda delle culture, dei luoghi e delle competenze interpretative, che diventa senso comune e ordine simbolico. Dunque è preoccupante per me accorgermi che percepisco come domestico l’ambiente a cui mi permette di accedere il mio smartphone/protesi, quello in cui incontro le mie tribù e i pochissimi social che mi autorizzo a frequentare. Perché una parte importante della realtà è che la familiarità è esteriore, si entra in un ambiente di natura industriale, molto strutturato, che non ha niente di domestico, che esercita su di me un controllo interessato e in cui la mercificazione di tutto, comprese le mie parole, è esposta, invisibile e naturale.
La lingua è politica. In effetti, ho sempre pensato che la politica si facesse soprattutto con le parole. Programmi, articoli, discorsi, dibattiti. Giornali e volantini da diffondere, manifesti da affiggere. Le parole sono un’arma per dimostrare e confutare, convincere! Al limite, per lasciare l’altro senza parole: disarmarlo. Magari, voi preferite usare le parole in modo più relazionale, per creare connessioni e comprensione reciproca. Sì, tra parenti, amici e compagni dovrebbe funzionare così. Perciò biasimo le lotte intestine, pur prendendovi parte. Ma il mondo è pieno di estranei, avversari, nemici con cui bisogna essere pronti a combattere. Meglio, allora, usare le parole come armi che le armi come parole. Dove li trovo tutti questi nemici? La militanza nei gruppi politici li fa incontrare di rado, salvo essere impegnati nelle assemblee elettive. Nel gruppo si sta quasi sempre insieme tra compagni. Motivo per cui ci si divide. Nemici ne ho incontrati a frotte da quando sono sbarcato su Internet, nel 1998.
All’epoca, c’era molto poco in confronto a oggi, tuttavia il web era già una miniera di parole, documenti, informazioni, sempre più in tempo reale. C’era la posta elettronica! Soprattutto, c’erano i gruppi di discussione, mailing list e forum. Tante arene in cui combattere. Anche troppe. Incontravo avversari normali, tipo democristiani e liberali, ma rimanevo impressionato dagli incontri ingestibili. Fascisti, nazisti, negazionisti dell’olocausto, razzisti, antisemiti, indipendentisti padani, comunitaristi, rosso-bruni, mascolinisti che volevano liberare l’Occidente dal femminismo. Le parole diventavano un mare di delirio. Rispetto al quale la reazione repulsiva delle persone democratiche e civili mi pareva debole. Selezionai ambienti e interlocutori, sebbene pure quelli “normali” cominciassero ad apparirmi strani.
Era il tempo della guerra del Kosovo, la seconda Intifada, il popolo di Seattle; subito poi vennero il G8 di Genova, l’11 settembre, la guerra al terrorismo, le invasioni di Afghanistan e Iraq. Io mi sentivo dalla parte dei movimenti. Pacifisti e cosiddetti no global (preferivo new global, globalizzazione sì, ma democratica). Mi colpivano le persone sostanzialmente di destra collocate convenzionalmente a sinistra. Estremisti di centro. Sostituivano la guerra fredda con la guerra di civiltà. Sostenevano in modo aperto il ricorso alla forza militare. Inorridivano per i propri morti, vittime del terrorismo islamista, ma giustificavano le vittime civili altrui, sotto i bombardamenti occidentali, anche con un cinismo ostentato. Inoltre, accusavano i pacifisti in modo grossolano di essere dalla parte della Russia, della Cina, del fondamentalismo islamico, pregiudizialmente ostili all’America (antiamericani) e a Israele (antisemiti). Molti, identificandosi con le parti in conflitto, esibivano bandiere nazionali nei loro avatar e slogan bellici come firma. Per parte mia, cercavo di adottare questo metodo: mostrare un atteggiamento temperante, differire le repliche, rimanere concentrato sull’argomento qualunque cosa mi dicessero. Come avatar usavo un mappamondo e come firma una frase della scrittrice indiana Arundhati Roy: «Le bandiere sono pezzi di stoffa colorata che i governi usano prima per avvolgere il cervello della gente e poi come sudario per seppellire i morti». In quel contesto, i miei modi neutri erano considerati urbani, ma anche poco umani e persino subdoli. Per me, era una tattica di autodifesa. In presenza sarebbe stata più complicata, per iscritto mi riusciva abbastanza bene. Negli schemi manichei della guerra, sfumature e problematizzazioni erano rifiutate come tentativi di fare il furbo o di essere, senza volerlo, l’utile idiota del nemico.
Quell’attivismo grafomane-interattivo era eccitante e frustrante. Dava la sensazione di partecipare e contribuire a orientare l’opinione pubblica. Se l’avversario non si poteva convincere, c’erano altri che leggevano. Inoltre, per sostenere le proprie posizioni, confutare quelle avversarie, rispondere alle obiezioni, respingere le accuse, demistificare la propaganda e le false notizie, bisognava informarsi un sacco. Improvvisamente, imparai tante cose sui Balcani, il Medio Oriente, la globalizzazione. Imparavano anche gli altri. Era una corsa informativa e formativa agli armamenti delle parole. Tuttavia, saperne di più mi pareva una buona cosa. Non solo. Poiché i media più importanti, tra le televisioni e i giornali, sostenevano la guerra, il dibattito in rete sembrava l’occasione per promuovere i media alternativi, quello classico, il manifesto, ma anche tanti nuovi siti pacifisti e antagonisti. Fonti che venivano subito attaccate sul piano della credibilità, da scegliere quindi con attenzione, per poterne poi difendere la reputazione.
Ogni tanto sentivo di meritarmi interlocutori più raffinati. Giornalisti, scrittori, intellettuali, filosofi, dirigenti politici. Era il 2008, anche in Italia arrivarono i social media. Facebook e Twitter. Ogni barriera sembrava saltata; potevo raggiungere chiunque. Ahimè, i miei desiderati interlocutori non portavano sui social la stessa qualità dei loro libri e articoli, anzi cominciavano a somigliare sinistramente agli utenti dei forum. Tuttavia, il volume delle interazioni era altissimo. Potevo parlare a centinaia, anche migliaia di persone, direttamente e tramite le condivisioni. Era l’illusione del giocatore d’azzardo, che vince le prime giocate, finisce irretito nel gioco e poi, piano piano, perde tutto. In breve tempo, i social fagocitarono ogni cosa: partiti, aziende, istituzioni, giornali, televisioni, vip di ogni genere. I blog amatoriali, prima vincenti, finirono ai margini. I loro link persero di visibilità. Per un attimo, ci fu un rilancio con la pubblicazione diretta dei propri testi, ma poi anche la visualità di questi si attenuò. Siamo negli anni della pandemia e subito dopo. Ad oggi, insomma. Il feed della home page di Facebook è ormai pieno di inserzioni pubblicitarie, messaggi sponsorizzati, link acchiappa click, umorismo volgare, un’infinità di roba che non ho mai chiesto di vedere e che continuo a vedere, pur oscurando post e profili, perché come funghi ne saltano fuori altri di nuovi e uguali. Sempre più difficile essere seguiti, sempre più difficile seguire chi mi interessa. L’illusione di partecipare finisce nell’essere rimessi nella posizione dello spettatore passivo. Forse anche nomi e marchi sono in difficoltà. Vedo agenzie di stampa e altri enti importanti mettere i propri link solo nel primo dei commenti, secondo la credenza di poter così aggirare la presunta penalizzazione dell’algoritmo. Le grandi piattaforme digitali seguono modelli di business per il profitto a breve termine. All’inizio si sono proposte di servire noi, fin quando e quanto è stato necessario per convincere noi a servire loro. Dovremo trovare il modo di smettere di farlo, risolvendo la paura di rimanere tagliati fuori.
In questo contesto social-mediatico, è molto difficile trovare il modo di darsi una parola forte e autorevole, quale che sia il suo fine, senza essere forti e autorevoli in partenza. Si può coltivare la competenza e l’efficacia comunicativa, ma questa coltivazione implica molto tempo e lavoro, risorse di cui dispongono quelli già forti e autorevoli, non quelli che lo vogliono diventare, a meno che non siano molto giovani o arzilli pensionati. Salvo eccezioni legate a nicchie stravaganti. Se sai raccontare bene l’esistenza dei dischi volanti, un pubblico di seguaci ufologi potrebbe seguirti. I social strutturati in profili individuali vestono bene l’individualismo, l’idea che sia meglio e più gratificante agire da soli, senza mediare con altri, a cui compete solo il feed-back. Eppure, questa è l’alternativa più naturale. Tornare ad associarsi. Come molte realtà già fanno e alcune non hanno mai smesso di fare. La stessa Libreria delle donne.
C’è poi una questione ulteriore. Nella mia foga di saperne di più, sono arrivato a consultare la stampa estera, in particolare quella anglosassone. Mi sembra di una qualità diversa da quella italiana. Il livello di dibattito più alto, informazioni più accurate, polemismo e dileggio molto più ridotti. Sulla prima pagina del New York Times non troviamo l’elenco dei putiniani in America o il corsivo che sbeffeggia una professoressa come Donatella Di Cesare. L’accusa di antisemitismo usata come una bomba stupida sul dibattito pubblico è continuamente discussa. Di genocidio dei palestinesi si può parlare. Perché? Mi sono fatto questa idea. La stampa americana è la stampa di un paese che ha il potere di influire sulle sorti del mondo, la stampa italiana no. Se non siamo giocatori, possiamo solo tifare. Ai tifosi basta urlare slogan. L’argomento ultimo (o il primo) di molti filoccidentali, quelli della narrativa per cui noi siamo i buoni contro i cattivi, è questo: l’Italia sta nella Nato e non può pensare, dire, fare diversamente dagli Stati Uniti. Pena, pagare un prezzo militare, commerciale e finanziario troppo alto. Lo afferma a chiare lettere la presidente del consiglio nel suo ultimo libro intervista. Ha ragione? Bisognerebbe capire cosa può davvero fare un paese come l’Italia. La “nazione”, nella lingua dei nostri attuali governanti.
Penso, così, che questa sia la risorsa più importante per darsi una parola forte e autorevole. La convinzione, credibile a sé stessi, di essere influenti, di poter fare qualcosa di importante. Senza la quale rimangono solo il tifo o il sottrarsi.
Riprendo l’idea espressa da Vita Cosentino, e cioè che c’è un difetto del senso di differenza. E specifico che io registro un difetto del senso della differenza sessuale che non sia ridotto a un pensiero dicotomico.
Come ha fatto notare Chiara Zamboni nel suo libro Parole non consumate (Liguori 2001), molte culture, tra cui la nostra occidentale, si fondano su simmetrie e opposizioni: alto-basso, chiaro-oscuro, vero-falso. Il linguaggio dominante, come spiega Zamboni, descrive anche «le posizioni simboliche delle donne e degli uomini come parallele, simmetriche e oppositive», in realtà invece sono caratterizzate da uno squilibrio, da un’irriducibile asimmetria. L’autrice racconta come in un incontro con uomini e donne dove tutti sembravano aver accettato come vera quell’asimmetria, nella discussione scivolavano in modo inconsapevole nelle contrapposizioni: «gli uomini…, all’opposto le donne…» Questa “dicotomizzazione del mondo” è stata ampiamente discussa anche da Ina Praetorius che ne ha tracciato la storia a partire da Platone e Aristotele dimostrando come la nostra cultura ne sia profondamente segnata ancora ai giorni nostri (Ina Praetorius, L’economia è cura. La riscoperta dell’ovvio, IOD Edizioni 2016). Maschile e femminile sono inglobati dentro uno schema che divide il mondo in alto e basso, natura e cultura, immanenza e trascendenza…
Tutto nella logica dell’uno nella quale un’asimmetria può essere concepita al massimo come complementarità oppure come svantaggio delle donne, da riparare, per portarle alla parità.
Questa logica è stata rotta radicalmente da Carla Lonzi che ha scritto in Sputiamo su Hegel del 1970: «La donna non è in rapporto dialettico col mondo maschile. Le esigenze che essa viene chiarendo non implicano un’antitesi, ma un muoversi su un altro piano». E aggiunge: «Questo è il punto su cui difficilmente arriveremo a essere capite, ma è essenziale che non manchiamo di insistervi» (p. 42).
Anche dopo Carla Lonzi, il movimento delle donne ha prodotto testi importanti che ripropongono la questione di fondo della differenza sessuale, «come può significarsi l’essere donna, come può uscire dalla sua intimità senza parole, in un ordine simbolico che definisce il soggetto di sesso femminile per opposizione e somiglianze con il soggetto maschile, e questo per sé medesimo?» (Diotima, Il pensiero della differenza sessuale, p. 33). L’asimmetria tra i sessi è stata messa in luce da Luisa Muraro con il fatto che tutte e tutti siamo nate/i da una donna, le bambine dello stesso sesso della madre e quindi nel continuum materno, dal quale i maschi sono estromessi. Luce Irigaray ha approfondito in moltissimi testi l’idea della genealogia femminile, sviluppata poi nella pratica e nel pensiero della Libreria delle donne, e io e altre ci siamo ritrovate su questa strada della libera espressione della differenza che rompe tutti gli schemi, stereotipi e attribuzioni di ruoli e che mi ha autorizzata a essere come sono e ad amare chi voglio.
Oggi invece la logica dell’antitesi viene sempre più acutizzata, anche dai social media che non permettono posizioni differenziate creando solo opposizioni e schieramenti.
Il linguaggio che opera con il sistema oppositivo è sfociato direttamente nell’idea del binarismo che oggi per molte e molti sembra una possibile sistemazione della differenza sessuale. Di fronte a questa narrazione mi chiedo come il sistema binario, concetto che richiama il linguaggio informatico (anche se di origini più antiche), un’idea di massima astrazione, rigidissima, possa parlare di un’esperienza viva! E spesso mi trovo in difficoltà quando mi dicono che il pensiero della differenza sarebbe binario e io devo rettificare ogni volta, spiegare che non è biologismo, ma libera espressione di sé. Aveva ragione Carla Lonzi quando diceva che questo «muoversi su un altro piano è il punto su cui difficilmente arriveremo a essere capite». Mi sento intrappolata nella polarizzazione, che è una trappola per il pensiero di tutte e di tutti. Secondo me oggi il discorso politico e culturale dominante rischia di rimanere bloccato in questa gabbia, e temo che ci rimanga intrappolato anche chi vuole uscire dai percorsi prestabiliti definendosi non binary. Questo concetto è recentemente entrato anche nella cultura pop, da quando il cantante svizzero Nemo ha vinto l’Eurovision Song Contest, una specie di Sanremo europeo. Il pubblico è rimasto affascinato dalla sua estrema bravura nel canto e nello show (anch’io), ma altrettanto colpito dalla sua “identità non-binaria”, espressa non solo dai vestiti rosa ma anche dalla sua canzone che recita I broke the code, ‘ho infranto il codice’, che sarebbe quello dicotomico maschile-femminile. Ma non è depotenziante per il proprio essere, per la propria originalità, definirsi in negativo rispetto a un sistema che si reputa pienamente vigente e determinante per sé?
Sembra che non ne usciamo più dalle opposizioni, anzi, se ne aggiungono sempre altre, sovrapponendosi a quelle esistenti e creando un disordine incredibile, una spirale micidiale. L’ultima coppia di opposti che è entrata nel discorso sulla differenza sessuale, già distorto dal pensiero binario, è quella destra-sinistra. Certo, scontiamo il fatto che la sinistra, in cui il femminismo è nato, per eccesso di ugualitarismo ha sempre avuto difficolta a concepire il pensiero della differenza come forza propulsiva per cambiare il mondo, mentre la destra nazionalista l’ha intercettato, per sfruttarlo spudoratamente a suo favore, stravolgendo il senso delle parole – come del resto fa da sempre il capitalismo. Ora, in una specie di cortocircuito mentale, chi parla di “donne” e “uomini” viene considerata/o di destra! Distorsioni su distorsioni che creano risentimenti e diffidenza anche all’interno del femminismo, bloccano il libero scambio e l’apertura verso l’altra/o e portano all’impossibilità di decifrare la realtà.
C’è sempre più bisogno di un pensiero fuori dalla logica oppositiva. Il pensiero della differenza sessuale è quello che è a portata di mano di tutte e di tutti e che non scansa il nostro sentire e la nostra esperienza. A partire dal nostro essere sessuate/i che in ogni contesto storico si mostra in altre forme e con altri sintomi che vanno interrogati. Con il lavoro di VD3 continuiamo a riflettere su cosa ne è del desiderio femminile, della relazione tra donne e tra donne e uomini nel nostro disordinato presente post-patriarcale. Abbiamo riscontrato un forte interesse nelle persone più giovani a confrontarsi a partire da sé, invece di posizionarsi di qui o di là, sotto una bandiera o sotto l’altra. E non è un caso che oggi molti giovani donne e uomini (ri)scoprano Carla Lonzi, le cui parole trovano in loro risonanza. E io continuo a sentire il bisogno di un ulteriore lavoro di pensiero, per mettere meglio a fuoco quell’asimmetria della differenza sessuale che per me è la chiave per poter pensare altre differenze al di là o meglio al di qua delle antitesi.
Vorrei partire dalla frase con cui si è conclusa la riunione, che ricordo così: «Noi non stiamo vivendo una guerra. Questo deve esserci chiaro: noi non stiamo vivendo una guerra».
Parto da qui perché per me il punto cruciale è proprio questo: che cosa stiamo vivendo? E subito mi sembra di non avere molte parole. Per dire quello che provo di fronte a una guerra (anzi due) che forse non stiamo vivendo, ma che mi riguarda. E già in queste quattro sillabe (“mi riguarda”) c’è dietro un mondo, di sguardi appunto, o cecità, rimandi, connessioni. Che mondo è? E cosa provo? Rabbia? Paura? Spaesamento? Non bastano, non dicono, non aprono pensiero. Ci sono molte guerre nel mondo di cui probabilmente sappiamo ben poco, almeno io che gli sottraggo sguardo. Ma queste due, in Ucraina e in Palestina, coinvolgono il mio quotidiano, il mio stare nelle cose mentre lavo i piatti, mentre guardo un telegiornale, mentre scelgo che libro leggere, mentre parlo. Ho scoperto uomini e donne, che stimo, ingrovigliati nell’apparente imperativo di prendere posizione. Ho scoperto me stessa, nel parlarne, inchiodata dai miei interlocutori a pensieri o posizioni che non ho, come se non ci fosse altra possibilità che schierarsi. Questo la guerra lo fa. Prima ancora di cancellare corpi e vite, cancella le mediazioni, la complessità: polarizza, astrae, semplifica. Non tanto e non solo fuori di me, ma dentro, nascostamente. Si insinua il dubbio che non ci sia alternativa allo schieramento, da una parte o dall’altra, pena la condanna all’irrealtà, all’utopia, a una qualche idea di pace non vera, non possibile perché slegata dal reale, dalla Storia.
Mi sono sentita chiamare dall’intervento da Vita Cosentino, dalla sua dichiarata difficoltà a prendere parola sulla guerra. E mi tremava la voce, perché sapevo di non avere nulla da offrire di sensato, se non domande, necessità, bisogni magmatici (poco salvifici in fondo, poco stimolanti). Eppure questa necessità la sento nella carne: dare parola a quello che viviamo. Proprio a quello che donne stiamo vivendo rispetto alla guerra, qui e ora.
Come si vive una guerra a distanza? Fenomeno relativamente nuovo, dovuto alla pioggia, anzi alla tempesta di informazioni e immagini che piovono dal cielo, quasi come bombe. Da anni ormai, abbiamo l’impressione di vivere quasi in diretta stragi, bombardamenti, la conta dei morti, le case distrutte. Ricordo le immagini delle prime bombe “intelligenti” su Bagdad nel 2003. Era già successo, ma mi accorsi per la prima volta della “bellezza” di quelle immagini, le luci perfette, perfetti i colori, la messa a fuoco, la stabilità della telecamera. Come in un film. E come un film ipnotizzava. Praticamente in diretta e quasi in mondovisione, come le partite di tennis o di pallone. Sei lì, partecipi, ma non ci sei. Sono scaraventata lì, partecipo, ma non ci sono. Che razza di esperienza è? Cosa significa nella mia vita? Far parte di un paese che invia armi per la difesa di un paese amico invaso? Lo stesso paese (il mio) che appoggiò l’invasione dell’Iraq in una guerra preventiva, le cui motivazioni, si ammette dopo vent’anni senza troppo scalpore, erano false? Che luogo abito, o mi abita? Uno spazio nel quale, soprattutto, le notizie che arrivano non so più, non ho modo di sapere se sono vere o false?
Non sono analitica. Nel senso che non riesco a usare capacità analitiche per aprire uno squarcio creativo, di pratiche, azioni, parola, di cui sento il bisogno, enorme. Ma sono grata agli interventi che hanno analizzato l’uso della lingua in questo momento nei media. Grata al prezioso intervento registrato di Giulia Siviero e Ida Dominijanni, che svela sapientemente i meccanismi, le dinamiche della finzione, della costruzione ideologica di ogni racconto sulla guerra. Penso alla verità, a questa parola che mi si frantuma tra le labbra. E svela la sua inconsistenza (sicuramente più antica di quel che credo). Tanto che la ricerca della parola come verità, in un momento storico in cui nulla è fermo, ma tutto si muove e si confonde, rischia di essere fuorviante, di chiudermi, chiuderci nella stessa logica di opposizione dalla quale desidero uscire. Faccio un esempio. Quando Paola Mammani si è alzata e ha detto in modo perentorio: «Non siamo in guerra, questo deve esserci chiaro!», ho pensato ce l’avesse con me. E subito: ma io non ho detto questo! E perché dice che non stiamo vivendo una guerra? Non è vero! La viviamo invece, eccome! Forse in altro modo senza saperlo…
Per fortuna la riunione è finita. E dopo pochi minuti ho potuto riconoscere come funzionava in me l’abitudine malata, contratta quasi per osmosi, di pensare secondo una logica di opposizione: questo sì, questo no, vero/falso, giusto/sbagliato, democrazia/totalitarismo.
Vado per salti, lo so e me ne scuso. Ma riesco a pensare solo così, saltando da un livello all’altro. Un pensare ballerino, salto a ostacoli, a dimensioni. Provo a prendere pausa, respirare e spiegarmi. Ho tentato di pensare, non da sola, alla necessità di un universale donna, di una parola autorevole come quella divina. Le guerre gli uomini le fanno in nome di Dio, della patria, della democrazia, della giustizia. In nome di cosa posso fare la pace io donna? Un salto in alto, a cui non sono allenata. Mi faccio piccola allora, salto nella pozzanghera, nel piccolo stagno, nella minuscola palude in cui affondano i piedi. E mi mancano le parole delle palestinesi, delle ucraine, delle madri dei soldati russi, persino quelle dei soldati, per capire cosa sta accadendo, cosa mi accade in questa distanza prossima, o vicinanza lontana, attraverso la quale passano emozioni senza voce, guidate da un narrare falsato e parziale, ma passano eccome e fanno male. Mi mancano parole di donne a me fisicamente vicine, spesso sospese tra il silenzio, che momentaneamente evita quel male, e la voglia di opporsi, di prendere posizione. Parole che dicano semplicemente cosa e come stiamo vivendo, o vogliamo vivere in questa guerra (a distanza). Mi manca il vissuto. E non credo in una verità senza vita, così come in una lingua che fatica a dire l’esperienza.
Provo sconnessamente a dirne e chiedo. Per favore, continuiamo a parlarne.
Da più di vent’anni collaboro con Il Quotidiano del Sud – Calabria dove dal 2019 ho una rubrica settimanale che ho chiamato “Io, Donna”, nata dal mio desiderio. La redazione di Via Dogana è arrivata una settimana dopo il convegno a Torreglia dal titolo “Incontriamoci… così come siamo… sulla soglia”, organizzato da Identità e Differenza e dalle Città Vicine. In quella occasione ho raccontato il senso politico della mia scrittura, che ben si lega al tema “Lingua è politica” di cui abbiamo discusso nella redazione. La rubrica oggi è il mio luogo privilegiato in cui faccio politica – per me scrivere è sempre stato un atto politico – che porto avanti con le pratiche del femminismo: partire da sé e relazione. Mi relaziono con le donne a cui mando i miei articoli, con la redazione del sito della Libreria delle donne a cui li faccio arrivare con la mediazione di Clara Jourdan, e a volte vengono pubblicati.
Mi relaziono in particolare con Katia Ricci della Comunità di Storia vivente di Foggia. A lei faccio leggere i miei articoli prima di inoltrarli al giornale, ne parliamo, mi dà suggerimenti e io mi affido al suo giudizio. Una pratica che mi dà forza e sicurezza. Di fronte a ciò che succede nel mondo e di cui voglio scrivere non sono obiettiva ma mi ci metto dentro, mi faccio coinvolgere con il mio sentire, il mio sapere, i miei sentimenti, le mie passioni, il mio femminismo. Insomma mi lascio toccare dalla realtà che cerco di leggere e capire, facendomi aiutare dalle parole di donne del passato e del presente a cui faccio riferimento. Scrivo sempre dopo essermi data un tempo di silenzio, di cui ho bisogno per capire quello che mi sta a cuore e trovare le parole giuste per dirlo e farmi capire da chi mi legge. Infatti, non dimentico mai che sto scrivendo per un quotidiano. Immergermi nella realtà con tutta me stessa fa tutt’uno con la lingua sessuata che uso per narrarla. Quando molti anni fa da docente di filosofia chiesi a Luisa Muraro come insegnarla, lei mi rispose: «Tu insegni la filosofia che sei». Ecco, io parlo e scrivo la lingua che sono, la donna che sono, donna della differenza sessuale.
Quando sono arrivata al giornale, il direttore mi consegnò un “Prontuario per l’unificazione del linguaggio” in cui il linguaggio neutro maschile era la “norma”. Sin da allora mi sono autorizzata a non seguire quel prontuario e a scrivere nella mia lingua. Ero l’unica a usare il linguaggio sessuato ed è capitato che donne della redazione lo correggessero, ritenendolo sbagliato. Spiegai loro che quella era la mia lingua che rendeva riconoscibili i miei articoli, correggerla voleva dire che quegli articoli non mi appartenevano più perché non rispecchiavano la mia soggettività. «Io non vi dico di scrivere come me ma lasciatemi la libertà di scrivere come voglio». E loro me l’hanno lasciata.
Più volte ho scritto pezzi sul senso dell’uso del linguaggio sessuato, partendo dalla cronaca. L’ ultimo “Quando una donna slega la parola dal suo corpo”, in risposta alla richiesta di Giorgia Meloni di essere chiamata al maschile, richiesta che ha cercato di imporre ai giornali e ai tg della Rai con una circolare ai direttori, ma non tutti/e hanno obbedito. Meloni parla il linguaggio che è, una donna fieramente emancipata in un mondo di uomini qual è il suo partito, che non a caso si chiama “Fratelli d’Italia”, e qual è il potere che lei ha scalato fino a rompere il tetto di cristallo per essere, sulla guerra, prova da sempre di virilità per gli uomini, più realista del re nei comportamenti e nel linguaggio bellicista. Ma non è l’unica. È vero che molte parole sessuate al femminile che nel passato facevano sorridere oggi vengono utilizzate da giornaliste/i anche nel mio giornale, ma molta è ancora la confusione, che è disordine simbolico, per cui in una stessa pagina o nello stesso articolo si alternano parole al femminile e al maschile neutro.
La mia esperienza di docente mi ha insegnato che il linguaggio sessuato si può insegnare, io l’ho fatto con il testo di Alma Sabatini, ma non lo si può imporre, lo si può solo mostrare parlandolo. Questo vale anche per le/i giornaliste/i per cui credo che i corsi di formazione, senza una trasformazione di sé, non siano sufficienti. A tal fine non aiuta né il linguaggio paritario né quello “inclusivo” che di fatto cancellano la soggettività femminile.
La questione essenziale, per me, resta cosa e come vogliamo narrare la realtà e questo vale soprattutto per la guerra dove è vero che è prevalso il linguaggio militarizzato, che ha lasciato ai margini quello della vita con cui donne e uomini, le cui storie sono centrali nei miei articoli, sin dall’inizio si sono opposte/i alla guerra, in Ucraina come in Russia. Il fatto che in Tv a parlare di guerra vengono invitati più giornalisti che giornaliste, sempre gli stessi, è funzionale alla narrazione che si vuole fare passare, zittendo e insultando chiunque se ne discosti, con l’accusa di “putinismo” e adesso di “antisemitismo”, se si parla di “genocidio” per Gaza. Giornalista coraggiosa è Francesca Mannocchi, i cui reportages che leggo sempre, su Gaza, Cisgiordania e Israele, mostrano una donna che si lascia toccare dalla tragedia della guerra che racconta con i volti, le storie, le sofferenze delle vittime e le brutalità e la violenza dei carnefici, chiunque siano. Una donna la cui autorevolezza non le viene dalla rottura del tetto di cristallo né dalla pubblicazione dei suoi reportages in prima pagina, ma da come si autorizza a narrare ciò che il suo sguardo di donna vede.
Noi donne nei giornali ci siamo, credo siamo la maggioranza, e siamo anche brave, resta però il problema di come ci stiamo là dove siamo. Io non ho mai fatto parte di una redazione, i miei articoli poche volte sono stati pubblicati in prima pagina, ma questo non mi ha mai fatto sentire ai margini. L’essenziale, per me, è avere la libertà di scegliere cosa raccontare e come, nella lingua che mi è propria.
L’astrattismo come postura del pensiero in economia e l’uso di parole ritenute neutre, come genere, hanno come immediato esito la negazione del pensiero derivato dall’esperienza e quindi legato ai corpi incarnati. Gli scritti di Ina Praetorius sono in tal senso illuminanti, e vale la pena riandarvi per farsi ispirare da un pensiero che funziona da antidoto al veleno astratto. Così come non è più possibile parlare di femminicidio come violenza di genere, anche qui astrattamente riferito a dei corpi generici: no, la violenza è molto materiale ed è rivolta contro le donne, in quanto tali.
Per le narrazioni fatte dalla stampa sulle guerre che altre e altri vivono, essere sul campo non è, secondo me, condizione sufficiente per contribuire a scompaginare le carte in tavola per una possibile ripresa di una negoziazione non rinviabile. Occorre anche evitare un linguaggio di totale contrapposizione: di qua solo i buoni, di là solo i cattivi, riportando un pensiero dicotomico perché sposa solo una ragione contro l’altra (e questo ben prima dell’ottobre ’23).
Ciò che resta fuori dall’orizzonte del giornalismo prevalente è il racconto delle esperienze (tante) del dissenso, della diserzione dalla guerra, le esperienze (di nuovo, non di concetti astratti) di cooperazione, di faticoso dialogo intessuto da entrambe le parti in causa. E questa omissione, insieme alle mancate parole, è politica. Come diceva Cecilia Alagna nel suo intervento, prevale la dittatura del pensiero sintetico, incapace di riunire nel breve un’intenzionalità verso la comprensione e il riconoscimento dell’altro, in totale assenza di mediazione (educati come siamo dalla lingua dei social, lingua priva di pensiero in atto).
Anche in Italia esistono associazioni, gruppi eccetera che tentano di far coesistere, di far incontrare soggettività altrimenti distanti e contrapposte, ma anche qui prevale il pensiero dicotomico, di totale e acritica contrapposizione, figlia anche di una colpevole ignoranza della storia.
Se la guerra, come penso che sia, è nella sua essenza una modalità relazionale, manca ancora una efficace mediazione in grado di far risaltare la complessità da un lato, e la volontà di uscire dallo scontro totale dall’altro lato.
Quando fra i banchi dell’università appresi la distinzione fra langue e parole accettai supinamente e senza troppo pensarci l’idea che potesse esistere un aspetto “oggettivo” e uno “soggettivo” della lingua quasi annebbiando la natura convenzionale, e quindi politica, della langue; al tempo stesso questa passività strideva con il mio costante pensare e ripensare al significato delle parole e all’uso che di esse si faceva comunemente, spesso dannandomi o per l’uso improprio che si faceva di alcune o non concordando col significato convenzionale di altre. Grazie soprattutto al femminismo oggi possiamo dire che la lingua è politica e la parola è personale e che esse non sono due campi separati né separabili, nemmeno formalmente: dire che la lingua è politica significa far decadere la pretesa di carattere oggettivo pur mantenendo la dimensione convenzionale e significa anche insistere sul fatto che la lingua e le parole hanno a che fare con le relazioni di potere.
Le parole sono per me una mediazione fra l’esperienza che ciascuna di noi è/fa, la capacità di dirla e quanta possibilità di dirla esista; il mondo umano è un continuum semiotico1 nel quale veniamo immerse fin dalla nostra nascita, esso cambia forma, densità, funzionamento e struttura con l’umanità stessa. Ne Il materialismo dell’anima la filosofa Chiara Zamboni dice che ciò che chiamiamo anima è l’invisibile del visibile2; ripensando a queste parole mi sembra di poter osare di dire che persino il discorso ha “un’anima”: la parola è l’udibile e il visibile, cioè ciò che ci appare ai sensi, la relazione è l’anima. Se la relazione è l’anima del discorso e la relazione è politica allora i mezzi con cui si veicola la parola, la frequenza e il ritmo agiscono sulla forma in cui procede il mondo umano e ciò rende intuibile la direzione dell’umanità. Date queste premesse e se osservo l’oggi mi è evidente che la parola sorge in un campo di assenza di mediazione, cioè secondo il principio di immediatezza. Oggi si scrive e si comunica molto di più rispetto al passato, grazie a una tecnologia che ha reso irrefrenabile e infestante il dovere di comunicare con riferimento soprattutto alle applicazioni di messaggistica istantanea e ai social. Termini come “istantaneo”, “tempo reale”, “a caldo” non sono più descrittivi della potenzialità della tecnologia ma sono diventati espressione di una pratica relazionale che si manifesta nell’invito alla spontaneità coatta, all’essere sempre “dirette”, “in diretta” e “sul pezzo” soprattutto sui social, così che ciascuna si ritrova più o meno volontariamente nella condizione di continua e compulsiva autopresentazione3 senza avere il tempo per pensare.
Sottrarsi per continuare a pensare viene visto quasi con sospetto, soprattutto quando viene chiesta una presa di posizione su questioni che la macchina della comunicazione obbligatoria ci presenta come indifferibili e di primaria importanza tanto più quando la presa di posizione significa inserirsi in schieramenti contrapposti a beneficio del funzionamento dei social. Nonostante sia non di rado logorroica mi capita altrettanto spesso di non pronunciarmi su molte questioni e non perché non abbia un mio punto di vista, ma perché non desidero essere istantanea; mi piace restare sulle questioni soprattutto insieme ad altre per ascoltare e per porre domande. Ad aprile, per esempio, mentre scrivevo un contributo sulla mia esperienza in autocoscienza e riflettevo su questioni come “mentire su di sé”, “autotutela” e “autodifesa” mi è sembrato di non riuscire a cogliere gli aspetti della questione correndo quindi il rischio di scrivere una lamentazione sulle donne in autocoscienza; così ho chiesto alle amiche dell’autocoscienza di parlarne insieme. Il risultato è stato che ciascuna di noi ha riversato in quelle parole il suo vissuto facendo emergere un quadro complesso e multiforme: i confini erano porosi e lo scorrere dei significati mutava in base alle esperienze di ciascuna. Avevamo parlato delle parole ma anche delle nostre esperienze, del nostro modo di vedere e stare nel mondo. La parola umanizza, personalizza. Hannah Arendt diceva che «per quanto intensamente possano colpirci le cose del mondo, per quanto profondamente ci possano commuovere o stimolare, esse diventeranno per noi umane solo quando potremo discuterne con i nostri simili»4.
Cosa sarebbe successo se avessi adottato la pratica dell’immediatezza individualista a una questione delicata come lo è lo scrivere del “mentire su di sé”? La scelta di parlare delle parole, che è quello che poi ho sostanzialmente fatto in quell’occasione, è una pratica di mediazione; parlare delle parole significa sia stare in un processo specifico, sia poter scegliere in quali altri processi stare e come agire. Non bisogna illudersi che essa sia una pratica sempre portatrice di quiete, anzi conflitto, divergenze, esperienze dolorose sono all’ordine del giorno tanto quanto lo è esperire similitudini, riconoscimenti reciproci e somiglianze euforiche, ma solo così possiamo agire il potere. Nella riflessione su Lessing Arendt dice che «forza e potere non sono la stessa cosa; il potere infatti sorge esclusivamente là dove delle persone agiscono insieme, ma non là dove la loro forza cresce solo individualmente»5. In questa prospettiva la guerra e la forma in cui avviene oggi la comunicazione sono una manifestazione della forza in una contrapposizione di individui e macro-individui in cui solo la dimensione quantitativa ha valore e in cui la qualità e la diversità vengono fagocitate dalla forza numerica. Col Novecento si sono disciolte le ideologie ma non la società di massa che anzi ha trovato vigore nell’avanzamento galoppante delle tecnologie e delle scienze, dimentica di quanti orrori fossero stati commessi grazie alle scienze, esattamente come grazie alle filosofie e alle religioni, a partire dalla riduzione – ancora attualissima – degli esseri umani alle sole dimensioni di utilità e funzionalità. In un “mondo di massa” in cui bisogna prendere parola in modo immediato e in cui i tempi del pensiero personale e del pensare insieme vengono sempre più ridotti e stritolati in una morsa fra scientismo e profitto capitalista, l’infiltrazione della guerra non riguarda solo i campi semantici (battaglia, shitstorm, abbattere) ma anche il ritmo del ciclo pensiero-parola (il tempo che intercorre fra l’udire la caduta della bomba e la deflagrazione, per intenderci). Arendt però credeva, e lo credo anche io, che «nessuna forza sarà mai abbastanza grande per sostituire il potere; ovunque la forza si confronterà con il potere soccomberà sempre»; insistere perché le questioni non vengano chiuse e non siano pensate come date una volta per tutte e coltivare le relazioni di scambio/mediazione mi sembrano ciò che è alla nostra portata per mutare la direzione. Parlare-delle-parole è agire il potere e non la forza.
- Rocco Ronchi, Teoria critica della comunicazione, Bruno Mondadori 2003, pag. 19. ↩︎
- Chiara Zamboni, “Il materialismo dell’anima”, in La sapienza di partire da sé, a cura di Diotima per Liguori Editore 1996, pag. 160. ↩︎
- Hannah Arendt, La vita della mente, Il Mulino 2009. ↩︎
- Hannah Arendt, L’umanità in tempi bui, Mimesis 2023, pag. 47. ↩︎
- Ibid., pag. 45. ↩︎
Sono una scrittrice e mi occupo di narrativa, poesia, articoli e recensioni. Le parole e il linguaggio sono il mezzo che mi permette di scandagliare il mondo e di dargli un senso, ma anche (almeno nella narrativa) il luogo di una ricerca che possa produrre uno scarto rispetto all’esistente per concepire delle visioni alternative. Quando creo una storia o compongo una poesia, scrivere diventa incanto e metamorfosi, un rituale dove ogni parola conta e il loro insieme costituisce un modo per modificare la realtà. Il fine ultimo è quello di creare un universo potenzialmente rivoluzionario ed eccentrico rispetto al centro del potere decisionale e politico. In questo universo parallelo, le donne e tutte le persone discriminate e collocate in posizione marginale per via del genere, dell’etnia, dell’orientamento sessuale, della cultura o spiritualità di appartenenza possono dar corpo alla molteplicità delle proprie voci per costruire nuove verità e nuove visioni, finalmente libere dal dominio e dall’oppressione.
Nel far questo, ma anche nell’interpretare ciò che scrivono altre persone, il linguaggio si rivela sempre come uno strumento politico. In quanto donna femminista, analizzo ciò che vedo, leggo e scrivo a partire dalla mia posizione politica, culturale ed esistenziale, scegliendo storie o percorsi che in qualche modo rivelano quanto ho espresso sopra, o smascherando le contraddizioni di quelle opere che si vorrebbero eccentriche ma che in realtà si scoprono essere problematiche. Per quanto mi riguarda, fare letteratura è sempre un modo per creare i possibili mondi futuri, o indovinarne percorsi inediti analizzando il presente e il passato, riscrivendoli in modo più aperto ma anche più critico, che non cancelli le voci divergenti o gli sguardi diversi, ma anzi li renda visibili, tangibili, irrinunciabili.
In un mondo ormai fatto di fake news, hate speech e continuo revisionismo non solo della storia passata ma potenzialmente dell’intera civiltà umana, compreso l’istante presente corrotto dal volgare chiacchiericcio e dalla polemica sterile, coltivare ed esercitare il proprio spirito critico è necessario e vitale, per non soccombere all’ignoranza e all’oblio. Sono d’accordo con Laura Colombo quando afferma che il dilagare dell’astrazione rispetto alla precisione nel linguaggio contemporaneo dei social media e della politica possa produrre disorientamento in chi non si riconosce in questo uso deleterio dello strumento comunicativo per eccellenza; citando Chiara Zamboni, Colombo precisa inoltre come il linguaggio dominante produca sempre una forma di alienazione, e mi ritrovo pienamente in questa condizione: in quanto donna femminista, sono sempre partita dal constatare di ritrovarmi in una posizione di alterità ed eccentricità rispetto al potere, perché mi aliena e non mi rappresenta e mio compito è dunque quello di combatterlo (e se possibile abbatterlo). Marina Santini parla anche di “afasia” nel constatare un rifiuto (per me quasi inconscio) di rapportarsi agli attacchi frontali e all’aggressività continua che esponenti dei mass media e della politica utilizzano di continuo, finendo per stritolare il linguaggio e cancellandone la bellezza.
Credo che tutte noi ci sentiamo parte di questa condizione. Personalmente, da diversi mesi ho interrotto quasi totalmente l’abitudine di postare contenuti sui social media, pur essendo consapevole che per una scrittrice questa decisione costituisca una condanna all’oblio, ma in un mondo fatto di corti circuiti e casse di risonanza, ha davvero senso pensare a inseguire i like, piuttosto che costruire senso, e sperare che qualcuna/o possa leggere ciò che ci siamo sforzate di scrivere? Credo che uno dei paradossi più drammatici della nostra fase storica sia che ci ritroviamo dentro un enorme contenitore che si sta trasformando in un contenuto fagocitante che rende la condivisione e la convivenza sempre più aleatorie: la parola scritta e il linguaggio sono ovunque, moltiplicati all’infinito; chiunque può scrivere quello che vuole quando vuole e dove vuole, e questo invece di produrre pluralismo e pluralità di voci produce azzeramento, perché tutto si perde e nulla rimane, salvo poche eccezioni che costituiscono la cresta effimera di un’onda che presto si schianterà a riva. Solo che non si tratta di costruire un mandala per ricordarsi della caducità degli accadimenti umani, come nella pratica buddhista; direi che è tutto il contrario, un ridurre il mondo della comunicazione, dello stare insieme e del parlare, a una discarica, dove se urli forse puoi sperare di farti sentire per quindici secondi.
Bisogna dunque vedere le cose da un’altra prospettiva, fare propria la consapevolezza che tutto ciò che diciamo e scriviamo si perda ma provarci lo stesso, perché non abbiamo alternative. E porsi anche delle domande. Innanzitutto, se lo scopo è quello di comunicare qualcosa di vero, che vada al di là dell’argomento di tendenza momentaneo e del linguaggio frenetico e istantaneo (spesso anche grammaticalmente scorretto e frettoloso sia concettualmente che sintatticamente), il social network o l’instant book sono sempre e comunque il mezzo giusto per farlo? Magari, prendersi una pausa ogni tanto, soprattutto non leggere i commenti né farli, fare un passo indietro insomma, come suggerisce Vera Gheno, può essere salutare. Inoltre, davvero le cose sono così cambiate rispetto al passato, quando i social network non esistevano? Sì, lo storytelling sta minando la nostra capacità di condividere sostanza e di comunicare qualcosa che produca senso e non un mero insieme di suoni – Byung-chul Han parla giustamente di “crisi della narrazione”, e già nel 2017 profetizzava che lo shitstorm sarebbe diventato la norma del comunicare urlato e distorto in cui ci ritroviamo nostro malgrado. Però mi viene anche da dire che forme di controllo e di distorsione del linguaggio siano sempre esistite, ad esempio nella propaganda e nella retorica usata dai quotidiani e dalle radio sotto i regimi dittatoriali o durante i conflitti bellici. Il potere ha sempre esercitato un controllo sulle persone cercando di annebbiarne le coscienze e di condannare la loro esistenza alla barbarie, e tante epoche storiche hanno visto il prevalere della distruzione del tessuto sociale, culturale e politico sulla convivenza civile, anche attraverso un uso aggressivo del linguaggio e della forza. Mi viene da pensare al Terrore Bianco, quella fase violentissima della storia della Cina moderna in cui il governo nazionalista ordinò la cattura, la tortura e l’uccisione pubblica di tutte le oppositrici e gli oppositori del regime, non ultime le femministe, che vennero anche stuprate e mutilate pubblicamente per mostrare alla popolazione cosa succede se una donna osa ribellarsi alla camicia di forza che il patriarcato le ha cucito addosso. Quello che è cambiato non è tanto il mezzo attraverso cui esercitare il controllo ma l’invasività di tale mezzo, la cui diffusione capillare in potenzialmente ogni angolo del globo (laddove i quotidiani e la radio irradiavano la propria influenza in modo più circoscritto nell’arco dell’esistenza umana, perché un giornale o una radio li puoi chiudere o spegnere, mentre un telefono, avendolo sempre in tasca, avrai sempre lo stimolo a usarlo viste le sue innumerevoli e oramai insostituibili applicazioni e funzioni) rischia di distruggere tutto quello in cui ci riconosciamo come creature umane e parte di una comunità. Già ciò che facciamo è disgregato in messaggi, slogan o like effimeri, che nulla aggiungono alla qualità delle nostre vite, anzi la snaturano. Ha senso dunque ostinarsi a adattarsi a tale forma di comunicazione, o non sarebbe meglio piegarla (per quel che è possibile) al nostro volere, scrivere e condividere solo quello che riteniamo veramente sensato e necessario per la nostra crescita, e per dare spunti a chi ci legge?
Sarà anche vero che se sei una scrittrice ma non sei sui social network o non posti regolarmente nessuno ti vede (che è un po’ come il «se un albero cade su una foresta ma non se ne parla su instagram ne sentiamo il suono?» di cui parla Daniela Santoro) ma postare di continuo ti rende davvero più visibile se non avevi già visibilità in partenza? In altre parole, solo se hai già un nome in quanto personaggia/o di fama allora puoi aspirare a tanti followers, altrimenti, ti ridurrai ad avere la tua piccola tribù, fatta di dieci persone che ti seguono, che non porterà a nulla se non ad alimentare il tuo ego. Non credo abbia senso. Rinunciare a comunicare non può essere la soluzione, ma bisogna trovare la forza di farlo in maniera intelligente e non accontentarsi dell’effimero. Ritengo che se vogliamo fare senso e dunque politica quando scriviamo sia nostro dovere scavare a fondo per ritrovare la vitalità che solo la parola e il raccontare storie riescono a darci, usare il linguaggio da una posizione eccentrica e critica rispetto al potere, e quindi in qualche modo sperare nell’utopia del possibile. Per chi scrive in particolare, penso sia anche un modo di “inventare il futuro”, per dirla con Nick Srnicek e Alex Williams, un modo per aprire le faglie della realtà e dipanare una possibile via di fuga dal potere e dalle sue forme di controllo, smascherarle dunque ma anche ribaltarne i meccanismi e costruire mondi dove non solo uno sguardo eccentrico sia possibile, ma si riesca anche a superare il confine stesso fra centro e margine, viaggiando direttamente lungo le venature di giada che soggiacciono alle cose. Aggiungerei che per me il linguaggio e la scrittura sono i luoghi dell’utopia dell’indagare forme nuove di convivenza e di trasformazione. È questa per me l’essenza del fare letteratura e tessere l’arazzo della scrittura a tutti i livelli e oltre i confini di ogni genere: intonare il proprio canto alla metamorfosi, o all’irriducibile mistero dell’esistere. L’idea stessa di poter cambiare il mondo scrivendo, o indagando il reale e il suo invisibile rovescio nelle pieghe della scrittura, è per me un’utopia. In un mondo in cui la narrazione e il cantare storie sono costantemente minacciati dall’imperversare dello storytelling effimero e superficiale imposto dai social network, scrivere diventa di per sé un atto utopico, e dunque un atto politico.
Ma l’utopia, per me che non sono né linguista né filosofa, si estende anche ad un dialogo possibile fra due universi all’apparenza inconciliabili: da una parte, il riconoscersi nell’istanza femminile e femminista posizionandosi come donne a partire dal dato biologico, oltre che culturale; dall’altra, il riconoscersi nell’istanza (trans)femminista posizionandosi come persone all’interno dello spettro LGBTQAI+, che comprende anche le donne ma non solo le donne. L’aver assistito sia a una conferenza pubblica di Judith Butler presso l’Università di Bologna (e online) che all’incontro della redazione di Via Dogana 3, non ha fatto che rafforzare una convinzione in me già radicata da tempo: le due posizioni non sono così lontane come potrebbe sembrare, almeno da chi come me le osserva dall’esterno. In entrambi i casi, ci si interroga sull’uso del linguaggio, si analizza e si decostruisce il potere e si fa politica non riconoscendosi come parte della narrazione e della rappresentazione dominante. Per quanto mi riguarda, se lo scopo è cambiare la realtà e rendere l’utopia possibile anche solo per un istante, ossia all’atto pratico combattere il dilagare della destra e del suo discorso oppressivo sui corpi, sulle identità e sull’esistenza, bisogna trovare un linguaggio comune e superare le divergenze, altrimenti non si produrrà mai quel salto necessario ad inventare il futuro. Nella mia scrittura, e nel mio analizzare la scrittura altrui, cerco di accogliere entrambe le istanze perché le ritengo entrambe valide in quanto eredi di un’esperienza di lotta per molti versi parallela e comune, se pensiamo a quante realtà del pensiero e delle azioni siano nate dalle proteste degli anni ’50 e ’60 nel mondo anglosassone (che, scrivendo anche in inglese, per me è un punto di riferimento culturale e politico importante, anche se non esclusivo). Sono contemporaneamente a favore dell’uso del femminile e dell’uso di una desinenza che possa accogliere tutta la pluralità delle differenze nella lingua italiana, e non vedo contraddizione in questo perché la ritengo la forma più vicina all’utopia che ci possa essere, l’espressione non di un’inclusione (parola che trovo paradossale in quanto donna che lotta per creare un mondo utopico e aperto rispetto a una realtà monolitica e di per sé escludente in partenza), ma di un’apertura alla molteplicità di fronte al potere che fa di tutto per negarla. Dal mio punto di vista, ritengo che i due discorsi possano cercare un punto di incontro, dando alla lingua e ai corpi la possibilità di modificarsi a seconda delle circostanze; fermo restando che parlando di me stessa e di donne non esito a usare la desinenza al femminile plurale, probabilmente se dovessi scegliere una desinenza che possa esprimere questa idea di apertura in tutta la sua pienezza, non userei lo schwa, che mi sembra anche graficamente una figura che si ripiega su se stessa, ma una forma di abbraccio, magari simile a un &&&&&, come fa (probabilmente in senso provocatorio) Arca nel suo omonimo disco. Un accogliere, non un cancellare.
Se un albero cade in una foresta ma nessuno ha messo una storia su Instagram, fa rumore?
Quando nei primi anni 2000 si sono uditi i primi vagiti dei social network sapevamo che avrebbero rivoluzionato il mondo ma non fino a questo punto. Per gran parte della popolazione (quanto meno tra under 20-30-40) sono diventati la prima forma di scambio, informazione, esistenza. Il nostro modo di comunicare si è scontrato con una nuova realtà, con le sue regole confuse, i suoi algoritmi misteriosi, le moderazioni prima umane poi sempre meno umane, e ne ha incassato i colpi. Non solo, la realtà si è rimpicciolita in uno schermo che va dai sei ai sette pollici e, di conseguenza, distorta per poter essere rappresentata in uno spazio così infinitesimale che ha la pretesa di farcela entrare tutta quanta.
O forse siamo noi ad avere questa pretesa: a cercare di far conoscere a tutti la nostra visione del mondo, il nostro punto di vista, il nostro lato di noi che preferiamo. Così, troviamo slavate e intramezzate da selfies e codici promozionali immagini dilanianti della guerra, oppure la nostra foto in fila al seggio elettorale per far sapere a tutti che «sì, io vado a votare. Io sono un cittadino modello. Io».
È una politica avulsa dalla relazione, che vive in una cassa di risonanza in cui ci si dà continuamente pacche sulla spalla da soli, in cui non esiste il confronto, in cui esiste solo l’attacco e la difesa, in cui c’è un solo centro, un solo riflettore: io. Non è più il personale politico, ma il politico che diventa personale. Non solo è cambiato il linguaggio politico, ma i social hanno cambiato lo spazio politico, e come il soggetto lo vive. Così della politica non resta che una foto della durata di ventiquattro ore con cui ci ungiamo il capo, che diventa parte della nostra presentazione al mondo: l’ennesimo badge da mostrare nella selezione delle parti migliori di sé. Così nasce questa idra a tre teste: l’influ-attivismo, o almeno così ho parafrasato da una recente diatriba tra cd. influ-attiviste (oh, loro si sono chiamate così!) apertasi (e chiusasi) su Instagram. Diatriba svolta a suon di varie storie ricche di testo e prive di parole, in cui due personalità del mondo “politico” social si accusavano a vicenda di questo o di quello. Vorrei potervi dire di più, ma l’ho seguita poco: mi è sembrato surreale dedicare la mia attenzione a una inutile battaglia di ego, mentre arrivavano notizie sempre più tragiche dal fronte palestinese.
In un mondo in cui non solo le grandi influencer (vedi Ferragni e pandoro-gate) ma anche quelle ragazze che fanno dell’attivismo online il loro mestiere sembrano completamente sconnesse dalla realtà e devote solo alla loro immagine, la libertà femminile, la pace, la democrazia – di cui queste ultime si fanno portavoce –, diventano schiave dell’algoritmo, al nostro seguito.
Quando la storia più ri-condivisa dell’ultimo periodo è un’immagine generata artificialmente di un campo profughi a Rafah vuol dire che in questo lato del mondo il senso della politica è sparito, inglobato dall’esigenza di mostrarsi più sensibili, più informati, più impegnati. Non solo, i 47 milioni di ri-condivisioni spesso silenziano altre iniziative, altre voci – come quelle del gruppo “Mai indifferenti” di Renata Sarfati, e non solo.
Spesso mi sono chiesta come siamo arrivati a questo punto e che cosa possiamo fare per contrastare questa deriva che sembra fuori dal nostro controllo. Penso che la perdita della politica reale in favore di quella virtuale sia legata alla privazione degli spazi. La mia generazione ha subito più di altre la cementificazione dello spazio pubblico, concomitante con gli albori dei social network. Così, mentre fuori si asfaltavano i parchi e si chiudevano i centri sociali, si apriva una nuova vita, un nuovo luogo terzo che abbiamo iniziato ad abitare ignari di quanto sarebbe in futuro diventato primario.
E ora la mia generazione ha una grande responsabilità: quella di riportare la politica fuori dalle logiche degli algoritmi, fuori dalla censura dei vari CEO, fuori dalla monetizzazione della vendita dei nostri dati. Abbiamo il dovere, soprattutto nei confronti delle nuove generazioni che si stanno plasmando, di riprenderci i luoghi della politica aperti sulla strada, non indicizzati su Google. E lo sta facendo: basti pensare ai picchetti per la liberazione palestinese in Università, un luogo che aveva ormai perso tutto il suo valore politico nella maggior parte dei casi per svendersi al miglior offerente. Non solo ciascuno nel suo piccolo, e qui forse parlo per mia personale esperienza, ha cercato di cambiare la logica dell’algoritmo, portando avanti la propria voce, fatta di pensieri e comunità: il progetto delle Compromesse, che poi mi ha indissolubilmente legato a quello analogo di VD3, è nato con l’idea di portare altro (e d’altronde non ci abbiamo mai tirato su un euro!) nella cassa di risonanza del femminismo-pop.
Forse sono un po’ troppo ottimista, ma siamo sulla buona strada: per ricostruire il futuro, abbiamo la responsabilità di ricongiungerci con il nostro passato, con la nostra storia e di ritornare a quel primato della parola ormai soppiantato dal primato dell’immagine.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Lingua è politica, 9 giugno 2024
La lingua è sempre politica e lo è ancora di più per chi di ne fa il proprio strumento di lavoro, uno strumento da maneggiare con molta cura.
Per noi giornaliste attiviste di GiULiA (Giornaliste Unite Libere Autonome), è un impegno quotidiano da dodici anni, rispetto al quale abbiamo assunto una posizione precisa: la lingua deve rappresentare tutti e tutte, deve essere declinata secondo i generi, non può essere neutra e quindi nemmeno falsamente neutrale. A volte per questa nostra insistenza ci hanno dato delle fanatiche. Ma che la lingua sia politica ce lo ha rappresentato molto efficacemente, al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori, la nostra presidente del consiglio, definita non a caso dall’house organ Libero “L’Uomo dell’anno”. La prima cosa che ha fatto Giorgia Meloni appena si è insediata al governo è stato imporre il maschile sui documenti ufficiali per il suo incarico, mandando una circolare a tutti i media. Un modo per rimettere le cose a posto: rispetto all’orizzonte valoriale della destra che lei rappresenta, “Giorgia” è e deve rimanere un’eccezione, che va normalizzata attraverso le parole, rimettendo nei ranghi una leadership femminile che solo eccezionalmente, per meriti individuali, ha rotto il soffitto di cristallo. Pronto a richiudersi alla prima occasione. Ed è su questo “eccezionalismo”, anche linguistico, che si struttura tutta la sua narrazione. Durante il suo insediamento in Senato persino il suo braccio destro Davide Rampelli, uomo forte di Fratelli d’Italia, si è dovuto correggere, perché aveva usato il femminile, ormai entrato persino nella grammatica istintiva di un uomo di destra. E, giusto nell’ultimo congresso di Vox, l’hanno presentata come “la Presidenta”. Sarebbe comico se non fosse che questa pervicace volontà di ingranare la retromarcia della storia per imporre un punto di vista esplicitamente “reazionario” sulla lingua non si caricasse anche di un’enfasi bellicista: si combatte tra un noi e un loro sul corpo della lingua, per poi proseguire direttamente sui corpi fisici delle donne. Il femminile considerato svalutativo e il maschile come legittimazione politica sono le armi di riproduzione di massa delle discriminazioni di genere, a cui seguono l’enfatizzazione di parole come “madre” e “maternità”, usate in questo caso come corpi contundenti contro la libertà femminile, con tutto lo spiegamento della propaganda sul tema della natalità e della progressiva delegittimazione della legge 194 che espropria le donne della loro autodeterminazione per una superiore ragione di stato.
Va detto che sulla questione dell’imposizione del maschile i media si sono in generale sottratti. Non la Rai, o per lo meno non tutte le reti e non tutte le trasmissioni, pur avendo l’azienda pubblica sottoscritto da anni documenti di policy interne che vanno nel senso un uso non sessista della lingua. La situazione, quindi, può certamente peggiorare. Ma vale la pena sottolineare anche i segnali di cambiamento. Nei nostri corsi di formazione per giornalisti all’inizio, dieci anni fa, ci capitava di fronteggiare irrisioni e aperte critiche quando parlavamo di sindache e ingegnere, ora succede che i colleghi anche uomini – sempre di più quelli che partecipano ai corsi sul linguaggio di genere – ci chiedano come convincere le ministre e le avvocate intervistate che si ostinano a preferire il maschile.
L’asprezza di toni però si è spostata direttamente sul terreno politico e poi di rimbalzo sui social. È stupefacente constatare quanto odio misogino si scateni sulle questioni del linguaggio, evidentemente vissute come una minaccia all’ordine patriarcale costituito, e come le attiviste e le giornaliste più impegnate su questi temi siano costantemente bersaglio di hate speech online. Abbiamo visto cosa ha provocato contro di lei l’evocare, da parte della sorella di Giulia Cecchettin, l’uso di una parola come “patriarcato”. E tutta la vicenda intellettuale e umana di Michela Murgia incarna esattamente la portata politica e la sua martirizzazione proprio per la sua battaglia sul linguaggio. O Vera Gheno, un’altra donna nel mirino degli hater. Per non parlare dell’ex presidente della Camera Laura Boldrini, vittima di shitstorm perché ha osato portare quelle istanze nelle sedi istituzionali.
Nel nostro lavoro di advocacy e di analisi sui come i media affrontano le questioni di genere, noi misuriamo non solo l’utilizzo delle parole “sbagliate”, ma anche il sistematico nascondimento del ruolo positivo delle donne della società, delle loro competenze, fino alla loro stessa esistenza al di fuori del cliché della vittima, della stuprata, dell’ammazzata. Da alcuni anni conduciamo una rassegna stampa mensile, intitolata Sui generis, dove proprio partendo da una suggestione di Michela Murgia, contiamo e dividiamo per genere le firme in prima pagina, gli editoriali e i commenti, le interviste, su una quindicina di giornali, per una settimana al mese. Le giornaliste rappresentano il 50% della forza lavoro, ma in prima pagina firmano quando va bene il 25% degli articoli, stessa percentuale per le donne intervistate. E si scende sotto il 20%, ultimamente anche sotto il 15%, per quanto riguarda i commenti e le analisi firmati delle donne. Questi dati che raccogliamo in modo del tutto empirico grazie al lavoro delle volontarie di GiULiA sono in totale sintonia con quelli ben più scientifici del Global Media Monitoring project, che ogni 5 anni dal 1995, sulla scorta di quanto raccomandato alla conferenza Onu di Pechino per quanto riguarda il ruolo dei media nel contrasto alla discriminazione delle donne, misura il grado di rappresentatività di genere dei media a livello globale, usando criteri quantitativi e qualitativi: quante notizie sulle donne ci sono, come se ne parla, e chi ne parla. Il tema della diversity, della pluralità delle voci per aprire a sensibilità, visioni e punti di vista differenti perché basati su differenze è diventato un tema di tendenza, ma la verità è che nei nostri media la diversity è ancora molto scarsa.
Un punto cruciale riguarda le esperte e le commentatrici interpellate da giornali e televisioni per analizzare la realtà: sono poche e dalle nostre rilevazioni durante la guerra sono ulteriormente diminuite. Così come erano diminuite anche in un altro momento di forte tensione, durante la pandemia. C’è il famoso titolo di Svetlana Aleksievič La guerra non ha un volte di donna. Per parafrasare si potrebbe dire che sui giornali non ha nemmeno voce di donna, con le dovute eccezioni. In questo modo si cancellano punti di vista e sensibilità diverse preziose. Per esempio ci sono ormai molte indagini che mostrano come quando si parla di temi economici le economiste di solito abbiano uno sguardo più lungo e insieme concreto, si soffermano di più sulle conseguenze sociali sulla lunga distanza, danno corpo sociale ai dati. Altri studi legati al Global Media Monitoring project suggeriscono che anche nella narrazione bellica la prospettiva delle reporter tende ad essere sensibilmente diversa da quella dei colleghi.
Parole e guerra, quindi. La guerra moltiplica lo squilibrio di genere sul campo e sui media. Per sua natura è sessista, rimette in riga i ruoli del patriarcato, le donne diventano beni da difendere, corpi abusati. Agli uomini viene chiesto di spiegare e interpretare il conflitto in molti ruoli diversi: combattenti, signori della guerra, esperti e politici. Le donne, invece, sono raramente interpellate sulle loro opinioni riguardo al conflitto in generale e, se lo sono, di solito lo fanno dal punto di vista della donna o della vittima. Lo scenario sta cambiando: ci sono tantissime e bravissime inviate di guerra che in larga misura hanno una postura diversa da quella dei loro colleghi e molte di loro lo rivendicano. Nella narrativa maschile prevale ancora il linguaggio bellico, una retorica molto forte dell’apparato e della tattica militare, il mito dell’eroe, mentre generalmente le reporter fanno un racconto che demitizza la guerra e se mai illumina gli effetti dell’azione militare sulle persone e sui loro corpi, concentrandosi sulle singole storie che sopravanzano le statistiche o i calibri dei missili. Demitizzare significa fare fact checking: quando si è dato voce al protagonismo femminile esaltando le soldate curde di Kobane, le si è romanticizzate, le si è sessualizzate, erano tutte belle, erano tutte eroine. Ma come ha raccontato l’inviata Marta Serafini del Corriere della sera che è andata a intervistarle, molte di loro non erano davvero volontarie, non avevano nessuna voglia di andare a combattere ma erano in qualche modo obbligate ad andare in guerra dal contesto: si è preferito prendere quello che offriva la propaganda, perché era più “sexy”, senza verificare.
Le reporter parlano dell’essere donna sul campo di guerra come di un vantaggio, più che un limite, perché apre porte di solito chiuse, in contesti tradizionali e misogini, apre quindi anche cuori e voci altrimenti non ascoltati. Basta vedere i reportage di Lucia Goracci dal Medio Oriente nello scenario dell’ultimo conflitto. Clarissa Ward, la famosissima giornalista della Cnn che per due volte è andata in missione in teatri di guerra mentre era incinta, ha detto chiaramente che anche la sua condizione ha cambiato la sua prospettiva e il suo punto focale mettendola nei panni delle donne incinte che non hanno scelta e vivono in quei contesti. Per questo è stata duramente criticata. Ward inoltre è andata oltre la pura cronaca e nel 2016 di fronte all’assemblea dell’ONU ha chiesto di smettere di raccontare in modo superficiale il conflitto in Siria, paragonandolo all’inferno sulla terra e concludendo che in Siria, di fronte a quella distruzione, non ci sarebbero potuti essere vincitori. Esattamente un punto di vista che ritroviamo nei reportage di un’altra famosa inviata di guerra, Francesca Mannocchi.
Volendo forzare una similitudine, la sensibilità e l’attenzione alle cause, ai processi, alle conseguenze, invece che al singolo fatto avulso dal contesto che lo origina, è una pratica di giornalismo proattivo che mettiamo in campo anche quando parliamo di violenza di genere e cerchiamo di uscire dal frame narrativo dell’atto singolo inspiegabile, del raptus improvviso, per illuminare un femminicidio come un’azione che trova le sue spiegazioni solo all’interno di un sistema di relazioni oppressive.
Tante bravissime giornaliste di guerra, preparatissime, che conoscono nei dettagli le storie e la storia, molto spesso anche la lingua dei posti in cui operano, riempiono, per fortuna, le pagine interne dei giornali ma solo saltuariamente rompono il muro della prima pagina, del commento e dell’analisi. C’è ancora quindi molto lavoro da fare per colmare questa assenza.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Lingua è politica, 9 giugno 2024
Inizio con una citazione tratta dal libro di Melita Richter Malabotta Guarire mondi in crisi, letto su suggerimento dell’amica Luciana Tavernini.
Siamo intorno al 1995: l’autrice cerca a Zagabria per «alcuni amici che seguivano un corso di lingua all’Università Popolare di Trieste un libro di testo di “croato-serbo”, […] un buon libro di testo. Nella libreria – continua la Richter – non vollero vendermelo. Lo avevano ma non lo vendevano più. Per quell’abbinamento “croato-serbo”. Ritirato. Quasi si trattasse di stampa nemica. E mi guardavano con astio per il solo fatto che avevo osato chiederlo. […] Lo stesso astio che notai nella risposta della commessa di una nota salumeria quando chiesi dei “viršli” (Würstel) parola sempre usata a Zagabria. “Non li abbiamo”, disse la commessa. “E quelli lì?”. “Hrenovke, signora. Noi non vendiamo viršli, solo hrenovke”».
La guerra dei Balcani è diventata anche una guerra sulle parole. Oggi trent’anni dopo, anche qui da noi, assistiamo nel linguaggio dei media a uno scivolamento verso termini guerreschi.
L’incontro odierno vuole portare elementi di consapevolezza sull’uso delle parole, su come si forniscono le notizie e gli effetti che producono. Mentre con il Vietnam molta parte dell’informazione suscitava il rifiuto della guerra, dal ’91 (prima guerra del Golfo) in poi, come dice Ida Dominijanni, l’informazione induce a prendere posizione “per i buoni”. È la guerra giusta. Di quello che accade sul campo non veniamo a sapere nulla. Il dissenso nasce col giornalismo di prossimità che restituisce l’esperienza della guerra di chi la fa e di chi la subisce: mostrare la guerra produce reazioni avverse alla guerra stessa. Se all’inizio dell’invasione le numerose interviste e immagini delle donne ucraine hanno favorito una sorta di empatia nell’opinione pubblica occidentale, poco o niente è accaduto con le donne palestinesi.
Pochi giorni fa, ho visto l’installazione Art for the Art World Surface Pattern del 1976 di Adrian Piper al PAC di Milano. Una minuscola stanza è interamente tappezzata di immagini ripetute tratte da giornali che riportano vari tipi di atrocità avvenute nel mondo. Su queste immagini, in rosso, è impressa più volte la scritta provocatoria “Not a Performance”, e un audio trasmette la voce dell’artista che imita il distacco e l’indifferenza di chi osserva. Mi ha colpito la distanza tra ciò che è rappresentato e la voce fuori campo. Le fotografie sono state scattate da chi è prossimo a ciò che accade e inducono a partecipare al dolore delle vittime, mentre l’audio mi ha richiamato il linguaggio utilizzato dalla maggior parte della politica attuale e dei media, dove le informazioni e i commenti carichi di espressioni e parole violente conducono progressivamente all’assuefazione che ci fa scivolare nella medesima indifferenza.
Ora in ogni campo c’è in atto una sorta di polarizzazione che carica in chiave bellicosa e aggressiva le parole.
La ministra Roccella, che pure si dice femminista, contestata a Catania all’inizio di maggio accusa di subire una censura dalle ragazzine, che protestano e manifestano un dissenso. Nella scelta di usare censura, in questo rapporto asimmetrico tra chi detiene il potere e chi vi si oppone, diventa evidente che siamo di fronte a un problema: si distorce il significato delle parole, perché questa parola è legata al potere ed è solo con il potere che si può impedire la libera espressione.
Donne e uomini sono sottoposti a questi meccanismi, che vorremmo cominciare a smontare. Quali parole scegliere? Un esempio: è più facile leggere e sentir parlare di invio di armi al posto di guerra. Non si discute più di guerra, siamo già oltre!
Si parla della morte di una donna vittima di femminicidio, e non di uccisione. Si parla di invasione per l’Ucraina e di conflitto per la Palestina. I governi vengono confusi con i popoli e ignorate le diverse posizioni che ciascuna/o ha all’interno dei singoli Paesi. Hamas è popolo palestinese? Si parla di vittime o di morti, volutamente confondendo i connotati diversi delle due parole. Prevale l’astrazione alla precisione in una generale sciatteria in cui quasi tutti i media si sono allineati. Giulia Siviero, giornalista de Il Post, ha fatto su questo uno studio lessicale e statistico. Si parla di emergenza non di dignità per la guerra, per i migranti; gli esseri umani sono ridotti a emergenza umanitaria.1
Contemporaneamente non si dà notizia del dissenso in Israele, delle pratiche di pace in Russia, della diserzione di molti uomini in Ucraina, si tacciono le molte voci contrarie in Europa.
È facile perdere la fiducia nella lingua, quella che la madre (o chi per lei) ci ha insegnato mettendoci nelle mani il mondo, se quello che vediamo non corrisponde alla parola detta. Ci ritroviamo afasiche: un’amica qualche giorno fa diceva che le mancavano le parole per significare l’esistente.
Luisa Muraro in un intervento del 2006 in Lingua bene comune dice «restiamo moralmente disgustati, sì, ma senza argomenti politici, davanti all’uso strumentale della parola nella vita politica – anche questa una presa di parola – e davanti alla degradazione che colpisce l’una e l’altra. […] ci si allontana dalla politica per convinzione che non ci sia nulla da fare, invece di allontanarsi, insieme alla politica, dai comportamenti che la degradano»2.
Quali parole usare per dire quello che sentiamo?
Tremo e temo quando cerco di mettermi in contatto con la signora ucraina che ha vissuto con i miei genitori negli ultimi anni della loro vita. Paura che non mi risponda, come è successo varie volte; poi finalmente la sua voce sempre più stanca per le notti passate a cercare di dormire vestita in cantina, i figli e i nipoti messi in salvo lontano, la sua solitudine in un territorio di confine, ormai spopolato. Racconta a lungo, se le linee non cadono, se c’è elettricità. Poi il discorso prende la via della quotidianità “normale”: le patate da piantare, le rose italiane sbocciate e subito bruciate dal gelo che è tornato e tarda a lasciare posto alla primavera, la “decabrista” figlia della mia, che quest’anno ha fatto due fioriture. Ci salutiamo, la promessa di sentirci presto e, chissà, forse di rivederci.
Mi volto a guardare la mia piantina che sta sul balcone, aspetta il sole e l’annaffiatura e penso alla “decabrista” di Lyudmyla che non sa cosa aspettare.
La mia paura della guerra, la sua paura della guerra. Quanta distanza di significato in questa parola! Quali parole usare per dire la realtà che ci sta di fronte?
Nel 1987 fa uscivano le Raccomandazioni per un uso non sessista della lingua italiana di Alma Sabatini, in quegli anni ho avuto molte difficoltà con il preside della mia scuola, quando rivolgendomi alle ragazze con il femminile e ai ragazzi con il maschile, ne marcavo la differenza.
Ci sono voluti quarant’anni perché l’uso del femminile fosse interiorizzato e si sentisse come una imposizione politica la presidente del Consiglio che vuol essere chiamata il presidente, facendo scivolare chi la segue in evidenti errori di grammatica. Ma, contemporaneamente, assistiamo di nuovo a una cancellazione progressista del femminile con la sostituzione, almeno nello scritto, della inclusiva ә o dell’*.
Accenno per ultimo anche alla questione dei social, che peraltro non frequento, dove il linguaggio è spesso violento, anche se non direttamente riferito alla guerra, e mira alla polarizzazione producendo un’aggressività delle parole in tutti i campi.
Riprendo le domande dell’invito pensate per avviare la discussione.
Come uscire da questa stretta? Come dare forza a una parola che non stia nella logica violenta della contrapposizione? Come produrre una parola autorevole femminile che non si confonda con un’espressione narcisistica di sé che poco ci interessa?
- Cfr. sull’argomento il video dell’incontro tra Ida Dominijanni e Giulia Siviero al Circolo della Rosa di Verona il 5 aprile 2024, nell’ambito del ciclo “Pensare il presente 2024” in https://www.youtube.com/watch?v=7xHjYM9-Xj0 ↩︎
- Luisa Muraro, Non una lingua qualsiasi, in Vita Cosentino (a cura di), Lingua bene comune, Editore Città Aperta, Troina (EN) 2006, p. 81. ↩︎
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Lingua è politica, 9 giugno 2024
Domenica 9 giugno 2024, 10:30-13:00
Libreria delle donne, via Pietro Calvi 29, Milano
La lingua è politica in quanto nell’inesauribile flusso degli scambi ci permette di passare da un’esistenza già prevista e regolata a una consapevole e libera, praticata parlando e decidendo insieme ad altre e altri.
In questi difficili tempi di guerra incombente, al conflitto armato sul campo corrisponde un conflitto nel linguaggio che riguarda tutte e tutti. In questione è la scelta e l’uso delle parole, è ciò che si dice, è ciò che si tace, è come si comunica e a quale scopo.
Nel dibattito pubblico veicolato dai media assistiamo a una militarizzazione e polarizzazione del linguaggio a favore di un racconto di una presunta “parte dei buoni” rappresentata dall’occidente. In più nei social prevale lo scontro di piccoli ego gonfi di sé, dove la parola è svuotata di senso perché priva di dimensione relazionale.
Per contro ha sempre meno spazio e peso tutto ciò che è estraneo a questa visione: non si dà conto di un sentimento profondo e diffuso che è contrario alla guerra, tende a sparire la vita quotidiana in trasformazione e ricerca.
In questo presente che tanti chiamano giustamente post-patriarcale durante la pandemia c’era stata un’apertura a un orizzonte di marca femminile, mentre ora sembra in atto una rivalsa maschile.
Come uscire da questa stretta? Come dare forza a una parola che non stia nella logica violenta della contrapposizione? Come produrre una parola autorevole femminile che non si confonda con un’espressione narcisistica di sé che poco ci interessa?
Introducono Paola Rizzi, Marina Santini e Daniela Santoro.
Sull’argomento consigliamo il video dell’incontro tra Ida Dominijanni e Giulia Siviero al Circolo della Rosa di Verona il 5 aprile 2024, nell’ambito del ciclo “Pensare il presente 2024”.
Gli incontri di VD3 contano sullo scambio in presenza. Poiché i posti sono limitati, prenotatevi all’indirizzo: info@libreriadelledonne.it. È possibile anche il collegamento in Zoom, sempre su prenotazione.
Immagine di Bibi Tomasi. Dall’archivio fotografico della Libreria delle donne di Milano.