Carla Lonzi ha definito un capolavoro una serata ben riuscita. In Libreria, al Circolo della Rosa l’invenzione del gruppo di cucina relazionale Estia ha riattivato l’arte della manutenzione tenendo insieme parola e nutrimento senza soluzione di continuità. Animate dalla passione politica, le neopreziose sono state e sono artefici di tessuti relazionali, artiste della relazione. Un lavoro invisibile perché precede l’esposizione pubblica, la messa in tavola dei piatti che velocemente si svuoteranno ma richiedono molto pensiero creativo, ricerca, studio e lavoro manuale. E soprattutto ascolto delle esigenze dell’altra/o che non sono uguali, quindi a ciascuna/o secondo i suoi bisogni.
Nel tempo ci sono stati spesso momenti di tensione tra il desiderio di alcune di parola come forma di espressività e il desiderio di altre di un fare, che senza contrapporsi hanno poi trovato sbocco in proposte creative come per esempio il ciclo di incontri Cibo dell’anima cibo del corpo, ideato da Luisa Muraro, Ida Farè, Sandra Bonfiglioli, Rossella Bertolazzi, Stefania Giannotti e Clelia Pallotta. In questo gioco di desideri differenti in cui uno nutriva l’altro e viceversa, la gioia del buon cibo generava pensiero di qualità e le relazioni in presenza si arricchivano. L’arte della conversazione ha preso forma e corpo in un continuum tra vita, lavoro e politica come un fiume che scorre: il Fiume dell’Inclinazione della Carte de Tendre.
La Preziosità ha portato la “civiltà della conversazione”1, che fu una rivoluzione linguistica in una Francia afflitta dalle guerre con una divisione rigida fra i sessi. Le Preziose spezzarono la barriera tra i ruoli sessuali trasformando le loro dimore, gli hôtels particuliers, le loro camere da letto, les ruelles, in luoghi di parola che si ampliarono in salotti aperti agli uomini.
Romanzi come La Princesse de Clèves di Madame de Lafayette o Clélie, histoire romaine di Madeleine de Scudéry rappresentano una raffinata operazione linguistica e letteraria volta non solo a demilitarizzare la lingua attraverso una sapiente analisi dei sentimenti e dell’interiorità conflittuale dei personaggi, ma a orientare e guidare una società verso un cambiamento.
La Carte de Tendre è una mappa che disegna un intreccio fra la lingua materna e un paese immaginario, visione di un abitare nel mondo il cui fondamento sono le relazioni fra i sessi, dove gli uomini sono disponibili all’ascolto di parole preziose e prendono le distanze dalle parole armate e il territorio si fa espressione dei sentimenti, non oggetto di conquista e dominio. Una mappa del cuore di cui l’autrice si serve per mostrare come l’autorità di una preziosa regolava il ritmo della conversazione, dava la misura.
Le preziose di oggi incarnano questa modalità del piacere e della libera espressione di sé dando vita a una politica che non si sostituisce alle forme di vita.
- Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, Adelphi 2001 ↩︎
Prof, perché ci parli di artiste che nel libro di storia dell’arte non ci sono?
– Perché il libro è sbagliato.
– Ci sono libri sbagliati?
– No, lo sbaglio l’ho fatto io che ho scelto per voi questo libro.
– Come mai?
– L’ho scelto perché è fatto da due studiose, due donne.
– È questo lo sbaglio?
– No. Ma dovevo controllare che non fossero orbe.
– Orbe?
– Che non avessero la vista difettosa; il problema si pone con chi ha la vista difettosa ma non lo sa.
– Come le autrici del nostro libro di storia dell’arte?
– Sì.
– È per questo che non vedono le opere di Artemisia Gentileschi, di Sofonisba Anguissola, di Rosalba Carriera?
– Sì.
– Qual è la causa di questo difetto?
– È la mancanza di orientamento. Come ti ho insegnato, la comprensione di un’immagine è il risultato di una interazione tra chi guarda e l’immagine stessa, esattamente come capita tra due persone che fanno conoscenza. Si tratta di un processo dinamico che richiede uno spostamento, un andare verso: per questo “andare verso”, è necessario ricercare e definire il luogo da cui muovere, altrimenti è un andare a caso, che è una forma di cecità peggiore della cecità fisica.
– Cercare questo luogo è come cercare il punto di vista?
– Sì. dal punto di vista in cui si sono messe le autrici del nostro libro di storia dell’arte si vedono solo artisti uomini, non si vedono donne.
– È strano, anche loro sono donne.
– Non è tanto strano, perché le donne, più degli uomini, sono messe in difficoltà dalla nostra cultura che nega la madre come primo punto di vista sul mondo.
– La mamma è un punto di vista?
– Rudolf Arnheim nei suoi Pensieri sull’educazione artistica (Aesthetica, Palermo 1992) spiega che la nostra conoscenza si basa molto sul guardare e che procede per gradi, a partire dagli oggetti più familiari, come il cane di casa. Ma l’oggetto primo che ogni bambina e bambino imparano a riconoscere non è il cane di casa, è la madre. La ri-conoscenza della madre permette alla bambina come al bambino di spostare lo sguardo sugli oggetti che la madre le indica e le nomina.
– La mamma, insomma, è una maestra di punto di vista, come te, prof, quando siamo andati al Museo.
– Sì, quello che io ho fatto per farvi conoscere i quadri, ogni madre fa con i suoi figli piccoli per far loro conoscere il mondo in cu li ha messi.
– Come si fa a negare questa cosa?
– In tanti modi. Rudolf Arnheim, per esempio, dice che i neonati si guardano intorno per conoscere l’ambiente ed evitarne i pericoli, e non considera la loro relazione con la madre che li rassicura e li invita a guardare il mondo. Io penso che l’orientamento, cioè la possibilità di vedere, sia il risultato di due sguardi, in successione, un primo sguardo verso la madre e un secondo sguardo verso il mondo. per cui, alla base della conoscenza, non c’è, come dice Arnheim, un’esigenza di difesa dall’ambiente, ma uno schema di amore-relazione, che può diventare, se ne prendiamo coscienza, paradigma di conoscenza, di orientamento personale e di modo di stare al mondo.
– Ma finora come abbiamo fatto per conoscere il mondo?
– Abbiamo fatto con l’insostituibile aiuto del punto di vista materno. Ma senza averne coscienza, per cui la donna, senza rapporto consapevole con il punto di vista materno, ha perso il posto da cui guardare, in maniera sua originale, il mondo. E ha perso, insieme, il senso autonomo di sé, rimanendo esposta allo sguardo altrui. Il nostro libro di storia dell’arte è pieno di donne rappresentate da artisti uomini.
– E l’uomo?
– L’uomo ha sostituito il punto di vista materno con il suo modo scientifico di guardare il mondo. Tu conosci la storia della prospettiva. Nel Rinascimento nasce la prospettiva che rappresenta il mondo visto da un solo occhio. C’è una famosa incisione di Dürer del 1525 (te la farò vedere) che rappresenta un uomo che disegna un vaso in prospettiva, guardandolo attraverso un buco a cui appone il suo occhio e dal quel buco, da quell’occhio fisso, eterno, universale, vede e fa vedere la realtà che diventa essa stessa fissa, eterna, universale. Infatti, nella costruzione prospettica la distanza si annulla perché il punto di vista coincide con il punto di vista più lontano posto sulla linea dell’orizzonte, il punto in cui convergono le linee parallele, cioè l’infinito.
– Io ho capito che gli uomini, al posto del punto di vista materno, hanno messo l’infinito. Hanno sbagliato?
– L’unico sbaglio, da cui siamo partite, l’ho fatto io scegliendo un libro che non corrisponde al mio insegnamento. Io voglio insegnarti a leggere il modo in cui le donne e gli uomini leggono il mondo. L’uomo, con la sua costruzione prospettica, tiene l’occhio fisso sull’infinito, e allontana così, dal suo campo visivo, ogni essere umano in carne e ossa, a cominciare da se stesso, perché ne ha allontanato, per cominciare, la madre, oggetto primario della percezione. Al suo posto ha messo un cane (psicologia) e il buco della serratura (scienza della prospettiva). Si crea così la situazione descritta anche da Arnheim, per cui un essere umano può vedere le cose, “ma non riconoscerle”.
– Allora c’è qualcosa di sbagliato!
– Non so. Certo, adesso sta tornando la guerra e gli uomini si dividono tra quelli che in guerra ci vanno e quelli che della guerra parlano guardandola dal buco della serratura con un occhio solo. ma in realtà abbiamo due occhi, abbiamo un corpo, abbiamo una madre, siamo due sessi. Forse, come dici tu, c’è qualcosa di sbagliato nella prospettiva maschile.
(Via Dogana n. 12, settembre/ottobre 1993)
«Come oggi le pratiche artistiche possono arricchire il vivere insieme?» chiedeva l’invito all’incontro di Via Dogana Tre del 6 ottobre scorso, L’arte della relazione. Una domanda molto importante che mi ha fatto subito pensare alle tante attività della Città Felice, un’aggregazione di donne e qualche uomo che ha sempre cercato di arricchire il vivere insieme legando arte e città con le pratiche femministe. Racconto un’iniziativa recente con la quale abbiamo voluto mettere al centro la nostra storia, politica e artistica, nella città.
Nelle mani, donne, uomini, ragazze e ragazzi tengono una mappa delle strade di Catania in cui in giallo sono evidenziati i nomi dei luoghi del femminismo catanese: quelli storicamente attivi e operativi, quelli che hanno operato sino a non troppo tempo fa e quelli degli anni ’70… tantissimo tempo fa!
La “Passeggiata femminista” organizzata dalla Città Felice di Catania si svolge in maniera allegra, discorsiva e istruttiva. Il percorso è tortuoso e tocca alcune zone della città: soprattutto quelle del centro storico dove erano concentrate, ma lo sono ancora oggi, le sedi di gruppi, reti e collettivi femministi. Quando chi guida il corteo si sofferma davanti ai luoghi femministi storici che si sono trasferiti altrove o che hanno cambiato nome oltre che sede, come ad esempio il SE-NO de “Le Lune”, e racconta la storia di quel luogo spiegando la politica che vi si svolgeva negli anni ’80, gli attuali abitanti di quel luogo che era il più fervente spazio separatista di Catania, si uniscono interessati al gruppo in ascolto, ignari dell’importanza politica che quel posto underground, ora adibito a localino alla moda, avesse ricoperto sino a circa trent’anni fa. In ogni luogo femminista dove ci si sofferma, che sia appena nato, che sia in vita da sempre o che faccia parte integrante della memoria femminista della città, c’è sempre una donna di quel contesto che narra delle attività svolte o da svolgere in quello spazio, del pensiero politico e della pratica che connotano o hanno connotato quelle mura preziose intrise di senso. Quando si prosegue nella Passeggiata femminista, sui portoni dei luoghi che sono stati narrati e significati della politica delle donne, rimangono affisse le loro storie scritte in cartoncini colorati arricchiti da frasi di grandi pensatrici e da opere artistiche realizzate da noi di Città Felice, ora a carattere ironico e spiritoso, ora raffiguranti ricordi stilizzati di episodi avvenuti in quel posto, ora evidenziando immagini e foto riguardanti l’importanza delle relazioni tra donne.
L’idea di proporre alle donne e agli uomini di Catania la Passeggiata femminista e di realizzarla in tutti i suoi momenti, cercando di condurla al nostro presente e di proporla con forme e contenuti più corrispondenti all’oggi, ci è venuta in buona parte dalla storia delle femministe bostoniane che molti anni fa decisero di segnalare in maniera creativa il lavoro politico che svolgevano nella loro Boston, rendendo note le loro storie e le vivaci attività che mettevano in essere, contrassegnando concettualmente con una interminabile striscia gialla tracciata sul selciato i luoghi e le sedi femministe che avevano fondate e che a quel punto erano strettamente legate le une alle altre, potendo ben asserire che nella città di Boston avevano dato risonanza e visibilità a una straordinaria HER STORY.
Arte, relazioni, creatività, lingua materna, lavoro… sono alcune delle parole che mi hanno interpellata nell’incontro di domenica 6 ottobre.
Durante il dibattito, come questione problematica messa in gioco da Giordana Masotto è venuta fuori la contraddizione che esiste tra trovare uno spazio di creatività nel proprio lavoro e avere una stabilità e una retribuzione adeguata. Sembra quasi che sia necessario scegliere tra l’una o l’altra: o creatività o retribuzione. Come si può provare a negoziare la creatività nel lavoro? Era la domanda che si poneva nella conclusione del suo intervento. Poco dopo è intervenuta Elisabetta Cibelli facendo riferimento alla dimensione incommensurabile della creazione e dell’arte, per poi constatare, appunto, le difficoltà di portarla al mondo del lavoro.
Allora ho pensato che, in realtà forse, può essere proprio attraverso l’arte della relazione e della mediazione che si possono mettere insieme le due cose, prendendo, volta per volta, quella parte della mia creatività che riesco a far entrare nel mio lavoro, qualsiasi esso sia. Certo, ci vuole quell’arte della cura che ci guida nel discernere come rendere efficace ma anche bella la mossa precisa che mette in dialogo le due dimensioni. Quale pezzo della mia creatività può andare bene in quel pezzo del mio lavoro? con quale modalità far incontrare i due mondi? Venendo poi fuori un’opera diversa, nuova, ma forse ugualmente bella. La cura o l’arte delle relazioni, in questo caso, mi permette di scegliere l’aspetto che vorrei accentuare e, che forse proprio quel tipo di lavoro, con quel gruppo di persone e in quel preciso momento, mi permette di veicolare senza rinunce o laceranti alternative.
Se parlo del mio lavoro vi posso dire che, per esempio, l’arte della giustizia di Simone Weil, l’incommensurabile purezza del suo pensiero mi porta sempre più spesso a parlare di lei al lavoro, insegnando alle studentesse e agli studenti delle mie facoltà di scienze politiche e di giurisprudenza, frammenti della sua opera. Mi sono autorizzata a saltare la barriera simbolica del diritto (Clara Jourdan): la barriera di un programma universitario basato sull’ordine normativo del lavoro. Ho voluto tracciare un percorso di genealogia femminile nel diritto che, facendo dialogare i due mondi, mettesse sempre più da parte quello normativo. Sono stata facilitata dalla critica ai diritti di Simone Weil e dal libro, a lei ispirato, Non credere di avere diritti. Trovare con grazia ed efficacia il pezzo dell’incommensurabilità da portare al lavoro è stato un mio momento creativo.
La scommessa più recente è far diventare la scrittura giuridica una scrittura creativa. Per farlo ho voluto cogliere quell’attimo – personale, materiale, relazionale e temporale – in cui posso dirlo con la lingua materna, spostando il linguaggio specialistico o mettendolo da parte, per collocare al centro la lingua materna di Simone Weil e creare insieme a lei la strada di un altro ordine, l’ordine del bene e dell’essere umano. La creazione sta nello spostamento verso «la contemplazione delle opere d’arte autentiche, e ancor di più quella della bellezza del mondo, e ancor più quella del bene sconosciuto al quale aspiriamo, per sostenerci nello sforzo di pensare continuamente all’ordine umano che deve essere il nostro primo oggetto» (Simone Weil, La prima radice, SE, Milano, 1990, p. 20).
Suscita gioia poter constatare di persona che un filo rosso lega le scoperte nel campo dell’arte degli anni ’70 e le pratiche artistiche di oggi. È ciò che ho provato quando Donatella Franchi e Giorgia Basch hanno introdotto questo numero di Via Dogana 3, L’arte della relazione, in un dialogo a due voci che ho sentito in forte sintonia. Dentro di me hanno trovato un’eco profonda le parole di Donatella quando ha affermato che tutti e tutte hanno un io creativo che devono poter esprimere per stare in un modo sensato nel mondo. Se da un lato le sue parole mi rimandavano a Carla Lonzi, che pensava che non è immaginabile che si accetti una parte dell’umanità tagliata fuori dal fatto creativo, dall’altro lato toccavano un punto centrale nella mia vita: l’esprimersi come atto creativo, come modo di partecipare alla vita comune.
Per parte mia “l’esprimersi” è stato ed è principalmente legato alla scrittura. Devo tuttavia precisare che, da dilettante, mi piace lavorare con le mani e passo del tempo a creare manufatti di vario tipo, come sanno le molte che hanno in casa le mie tovagliette o usano i segnalibri con il nuovo logo della Libreria delle donne di Milano, ricevuti comprando un libro.
La passione per lo scrivere mi accompagna da tutta la vita e sento che le ore passate a cercare le parole sono ore “belle” anche quando sono un tormento… voglio dire con questo che c’è una soddisfazione e un piacere legati all’atto stesso di farlo. Che appaga. Scrivere apparentemente sembra un atto individuale (una lei da sola davanti a un foglio bianco o a un computer) in realtà è profondamente relazionale. Ho sempre cercato una scrittura in cui io fossi compresa, ma che non fosse solo mia. La desidero non solo mia, nel doppio significato di nascere da una interlocuzione e di dare voce a qualcosa in cui altre e altri possano riconoscersi.
Molte donne della mia generazione – e anche io mi metto tra queste – hanno cercato di riversare nel proprio contesto le scoperte che facevano a partire da sé, ma che erano frutto di tutto il dibattito politico e teorico di quegli anni. Io, allora, mi trovavo a lavorare nella scuola e da insegnante ho pensato che quello che valeva per me, cioè bisogno di esprimersi e scrittura relazionale, potesse valere anche per alunni e alunne. In questo mi sentivo pienamente sostenuta dalle riflessioni di Annamaria Ortese. Per lei l’esprimersi con la scrittura era alla pari con il sopravvivere e in Corpo celeste(1997) afferma che ogni adolescenza ha bisogno di «dare una forma propria, quindi nuova, a ciò che sente» entrando nel mondo. L’Ortese non salva la cultura e le opere letterarie in sé. Infatti dice: «Godere e consumare il bene “prodotto da altri” – l’espressività altrui – sembra buona sorte a chi ha denaro. Non lo è. Necessario non è comprare e godere, ma fare e pensare in proprio. Al ragazzo delle moltitudini come al ragazzo delle minoranze popolari». (p. 93)
Da questo insieme di esperienze personali e pratiche e riflessioni e scambi e ancora pratiche, è nata un’ipotesi di insegnamento della lingua, come ho raccontato in Un’altra possibilità alla vita. La ritengo tuttora capace di operare trasformazioni, perché può orientare ragazze e ragazzi verso bisogni profondi che, per loro natura, sono più veri di quelli di superficie, spesso indotti. Quel testo fa parte di una articolata riflessione sulla lingua e il suo insegnamento, portata avanti nel movimento di autoriforma della scuola sfociata in un convegno e poi in un libro collettivo, Lingua bene comune (2006).
Una concezione dell’arte che abbraccia la vita, offre molti spunti altri di riflessione. Se, infatti, lo scopo dell’arte è «arricchire il vivere insieme» e se creare contesti di relazioni diventa «un atto creativo», questa posizione diventa preziosa per chi porta avanti la politica delle donne. Lonzi ha dilatato l’ambito artistico fino a comprendere anche una «frase trovata», «una serata riuscita» e penso che soffermarsi su questa apertura e metterla in rapporto con la politica delle relazioni, che sostanzialmente è fatta di incontri e di “serate”, possa aprire a spostamenti importanti.
Considerare una serata un’opera d’arte ci sposta immediatamente dal terreno del potere o della visibilità o della ripetizione: è quasi un antidoto quando le pratiche tendono a contaminarsi con logiche di potere o a essere ripetitive, rischiando di diventare burocratiche.
Mi è tornato in mente il libro di Wanda Tommasi Ciò che non dipende da me (2016), in cui l’autrice riflette sulla indimenticabile signora Ramsay, protagonista del romanzo di Virginia Woolf Al faro. La considera un punto di equilibrio perché è una figura che tiene insieme un intenso coinvolgimento relazionale e una forte centratura su di sé. Ai due estremi contrapposti sono le protagoniste di altri due romanzi: quella anonima de La Parete di Marlen Haushofer, che rappresenta la totale solitudine e chiusura in sé; e la Monique di Una donna spezzata di Simone de Beauvoir, che rappresenta il dispendio totale di sé nel ruolo di moglie e di madre.
La signora Ramsay è un personaggio ispirato alla madre di Virginia Woolf e il romanzo è una sorta di omaggio alla sua figura. Quello che qui interessa mettere in luce è che possiede l’arte di tenere insieme in una serata persone molto differenti, di far fluire la conversazione, di offrire cibi ben cucinati. Come padrona di casa, la signora Ramsay conosce l’arte per far sì che una serata sia ben riuscita e ci si può ispirare a lei per riprendere qualcosa da una tradizionale grandezza femminile.
Tuttavia per la coscienza di oggi questo non basta: perché una serata sia ben riuscita sentiamo l’esigenza di qualcosa di più, avvertiamo il bisogno dell’accendersi di un pensiero che susciti rimandi che fanno luce dentro di sé. Possiamo chiamarla l’arte del “pensare in presenza” per dirlo con le parole di Chiara Zamboni.
Negli Scritti di Londra (1957) Simone Weil ci dice che il pensiero si nutre di gioia e che lei stessa sente come una asfissia il suo venir meno, che fa spegnere l’intelligenza. La gioia non coincide con i piaceri, i divertimenti oppure con la soddisfazione delle vanità e ci avverte che «non si dà la gioia dal di fuori ad un essere umano o a una collettività, bisogna che nasca dall’interno». Ma poi aggiunge: «tuttavia ci sono delle condizioni che la rendono o non la rendono possibile» (pag. 168).
Ecco, nell’agire politico ispirarsi alle pratiche artistiche e fare della relazione un’arte apre a una ricerca consapevole per esplorare quali sono le condizioni che rendono possibile la gioia.
Sono contenta di potervi vedere anche se con zoom vi vedo dentro a dei quadrettini.
Grazie per questo incontro sulle relazioni. È un tema che mi entusiasma sempre.
Volevo dare il mio contributo per dirvi che ho conosciuto Donatella Franchi nel 2001 quando è venuta ad inaugurare e a presentare la mostra di ICONE – Spiritualità femminile e Immagini di Dio, allestita nell’Oratorio di Villa Simion a Spinea (Venezia). Vicino alla Biblioteca Comunale.
Il fatto che tutte le icone fossero state create da donne aveva fatto sorgere anche un po’ di scandalo, perché qualche uomo amante di tale modo di esprimersi affermava che era questa un’arte di spiritualità solo maschile.
Donatella, artista e ricercatrice, ci ha detto che la sua attenzione e il suo lavoro avevano, come centro di interesse, i percorsi della creatività femminile nell’arte e nelle relazioni.
Nel dialogo che immediatamente è sorto tra noi e alle sue domande sull’arte io ho confessato che non ero proprio un’artista, non mi intendevo di quadri e tantomeno di icone, l’unica cosa che mi veniva spontanea di dire, quando andavo a vedere qualche mostra e guardavo alcuni quadri, era: mi piace o non mi piace, questo qua è bello oppure non mi interessa. Insomma, non sapevo dare un mio giudizio, non mi azzardavo a criticare l’autrice o l’autore.
«Guarda che tu sei un’artista delle relazioni». E in seguito: «Tu sai stare insieme a tutte e a tutti e fai in modo che tutte e tutti stiano in dialogo e in comunicazione tra di loro. Il lavoro che fai è arte».
In quel momento Donatella ha rivelato me a me stessa, perché ho sentito che era vero che il mio fare-comunicare rispondente al mio desiderio d’amore, la mia passione per metterlo al mondo insieme alle mie simili e con gli uomini di buona volontà, mi richiedeva riflessione, conoscenza, impegno, fatica, ricerca, tempo, pazienza, attenzione per me, per tutte/i le donne e gli uomini che incontravo, e anche per la natura e per ogni vivente.
Così credo di aver capito, mi è stato chiaro che ogni essere umano ha una o più parti di sé, che se si riconosce o viene riconosciuta e desidera esprimere e comunicare al mondo, quando la realizza compie un’opera artistica.
Da tantissimi anni, con Identità e Differenza – Associazione Culturale Politica e Apartitica di Spinea, mi occupo, ci occupiamo di ricerca culturale e politica e della promozione di pratiche di dialogo e di scambio nel pieno e reciproco riconoscimento di ogni differenza e diversità. Abbiamo sempre operato per dare valore, significato e visibilità alla differenza dell’essere donna e dell’essere uomo.
All’interno di questa attività, si articola un lungo percorso di ricerca sull’elaborazione creativa e simbolica che le donne compiono per stare al mondo in fedeltà a sé e in relazione con le altre donne e con gli uomini.
Il nostro stile di ricerca avviene attraverso la pratica dello scambio, del mettersi in gioco personalmente, a partire da sé, e dal saper stare in relazione non strumentale e rispettosa con ogni Altra e Altro e con un unico scopo: la pace.
Forse qualcuna/o di voi ricorda l’installazione Riparare le relazioni. Tessere relazioni è arte, sempre a Villa Simion a Spinea nel 2018, a cura di Donatella, mia, con la collaborazione di Franca Bertagnolli, artista scenografa, e con la partecipazione delle donne e uomini di Identità e Differenza. Un’opera corale molto suggestiva, fatta dei pensieri di 151 persone, stampati e ricamati su tela.
Donatella ha sempre partecipato agli incontri, alle mostre, alle installazioni a Spinea e ai Convegni Annuali, prima ad Asolo e poi a Torreglia, organizzati dalla nostra associazione.
Non ci è mai mancata la sua grande cura sia dell’aspetto comunicativo culturale, sia dell’immagine visiva artistica che, ogni volta, ha aperto i nostri scritti, gli atti degli incontri e dei convegni.
Il mio profondo rapporto d’amicizia con Donatella, che dal 2001 collabora con noi, è un esempio della creatività delle relazioni e di come tessere relazioni sia arte della vita.
A proposito dell’arte e l’arte della relazione. Sono passati quarantasei anni dalla pubblicazione del libro Ci vediamo il mercoledì gli altri giorni ci immaginiamo (Mazzotta ed., Milano 1978), che raccoglie i lavori collettivi del nostro gruppo di artiste e fotografe. Il titolo è l’esatta rappresentazione di cosa è stato quel gruppo, una relazione stretta fra donne che ha prodotto fotografie, filmati e non solo, anche installazioni e viaggi insieme.
Abbiamo vissuto intensamente il nostro operare ignorando il sistema dell’arte, non volendo entrarci, così appagate dal nostro fare in collettivo o anche in solitudine. Molti di questi lavori sono di difficile attribuzione perché siamo intervenute a più mani e a più idee, l’idea di una diventava il filmato o la serie fotografica di un’altra. Dopo quasi cinquant’anni questa pubblicazione è diventata fonte di studio per giovani donne che la presentano nelle loro tesi, donne che si relazionano con noi, che ci intervistano, che ci fanno rivivere nella memoria quella esperienza esistenziale che era arte. Allora le nostre giornate erano scandite da incontri e da un fare che si mischiava fra arte e quotidiano, o gesti quotidiani che diventavano materiale artistico. Il 5 ottobre, il giorno prima della riunione di Via Dogana 3 ci siamo di nuovo ritrovate, io, Diana Bond e Paola Mattioli, in viaggio verso Ravenna per l’inaugurazione della mostra “Fotografia e Femminismi” presso la Fondazione Sabe per l’Arte, Storie e Immagini dalla collezione Donata Pizzi. Mancavano tre di noi: Adriana Monti perché vive in Canada, Silvia Truppi non è più fra noi, Bundi Alberti aveva altri impegni, Esperanza Núñez ha rotto con il gruppo. Comunque, ancora una volta insieme a raccontarci e a confermare questo filo rosso dell’arte che è riuscito a ricucire i nostri conflitti passati, confermando la forza che l’arte femminista ha nel tenere insieme le relazioni nonostante il tempo che passa. L’arte è la cura della propria mente che si fa ad ogni costo. È accettata dagli altri come gratuita, a parte gli artisti inseriti nel sistema, questi diventano dei maestri/e, dei santoni, delle divinità, perché la loro non è una vera e propria professione, è qualcosa di talmente idealizzato che si avvolge in un’aurea divina. L’Arte è biforme, libertaria e classista insieme. Per fare arte bisogna essere molto generosi. Pensiamo a Vivian Maier, ha passato un’intera vita dividendosi fra il ruolo di governante e di fotografa, la fotografia probabilmente le permetteva di resistere alla solitudine. Non si può nemmeno pensare di fare le artiste senza andare incontro a dei conflitti o anche a delle invidie, la nostra esperienza del mercoledì è stata veramente unica e irripetibile e capisco che sia diventata un campo di studio per altre giovani donne.
Riproponiamo una riflessione apparsa nel 2019 sulla rivista Alfabeta2
Dicono: l’arte per l’arte. È giusto? A me pare la formula di una malsana purezza. L’arte non vuole stare da sola. Non vuole stare al servizio di niente e di nessuno, d’accordo; l’utile o l’inutile non la riguarda primariamente, d’accordo, dicono che lei è superiore. Ma, dico io, non vuole esserlo da sola. Insieme, dunque; a che cosa, precisamente?
A questo tipo di domanda le mie studentesse rispondevano: dipende. Da che cosa? E loro: a seconda. Avevano ragione, insegnavo pedagogia, che è come l’estetica, che non sono fatte per dare le risposte. Quelle che ci sono, se ci sono, si presentano di suo, a te tocca farti trovare sulla strada giusta e riconoscerle. Sono incontri che a volte ti cambiano la vita, chi ha una vocazione lo sa.
Secondo me all’arte non piace nemmeno stare nei musei, così come alla più parte dei bambini non piace stare chiusi nelle aule della scuola né alle galline di mia mamma piaceva restare dietro la rete di recinzione che le separava dall’orto e dal giardino (quando, in questo scrittarello, dico “secondo me”, non è in vista di una qualche teoria, non aspiro a tanto, lo dico relativamente a un guadagno possibile di intimità con l’opera d’arte).
Non per parlare di me ma per parlare di quello che so: un’idea del bello si è fatta sensibile in me quella volta che entrai in un grande rustico di una villa palladiana in abbandono, abitato da contadini. E vidi, quando gli occhi si abituarono alla penombra, che i pochi mobili e tutto l’arredo erano perfetti e perfetto era lo spazio che li conteneva. Eravamo prima della plastica e del consumismo.
Sempre sul filo dall’esperienza vissuta, arrivo alla mostra Vetrine di libertà, aperta in questi mesi alla Fabbrica del vapore, Milano, fino al 6 giugno.
Come forse sapete, la mostra raccoglie le opere di trenta artiste che, mese dopo mese, hanno arredato una delle vetrine della Libreria delle donne, la quarta. A ogni nuova vetrina c’era un incontro lì sul posto, un comodo locale per conferenze e merende, con lo scopo di commentare la nuova opera insieme all’artista di turno e a Francesca Pasini che l’aveva invitata a esporre.
Non ho mai mancato a quegli incontri, perché in arte contemporanea sono un’analfabeta e volevo almeno vincere la mia ostilità dovuta all’ignoranza, credo. Com’è andata? Bene, ma in un modo diverso da quello che speravo, che avrebbe dovuto essere una specie di nuova competenza. Non l’ho acquisita ma ho capito delle cose.
È andata più o meno così. Si arrivava da tante parti all’appuntamento mensile in Libreria, via Pietro Calvi 29. Arrivando io guardavo la nuova opera da fuori, cioè dal marciapiede, poi da dentro, così come si presentava nella stanza delle conferenze e delle merende. C’erano delle differenze tra dentro e fuori, le vedevo ma, a parte questo, non sapevo mai bene che cosa avevo visto né che cosa ci fosse da vedere. La mia esperienza archetipica del bello, fatta nella barchessa palladiana, era troppo distante da quello che vedevo, troppo distante era cioè la mia infanzia uscita indenne dalla guerra e non ancora raggiunta dal boom economico.
All’appuntamento c’erano anche artisti e artiste; era una situazione simile a quella creata da Carla Lonzi con Autoritratto, dove però tutti parlano dell’arte dall’interno, compresa lei che dell’arte era intima per la familiarità con gli artisti da lei convocati. Tra noi invece c’era una varietà di situazioni, c’erano anche persone ignoranti (come me) o silenziose, ma erano molti quelli che si dedicavano a parlare dell’opera messa a fare da vetrina e lo facevano volentieri. Ogni tanto qualche passante si fermava a guardarla dall’altra parte del vetro, sul marciapiede. Così, pian piano, l’opera diventava anche per me qualcosa che voleva dire qualcosa e di cui si poteva parlare; la guardavo e mi suggeriva dei pensieri, diventava una presenza. I pensieri che mi suggeriva non sempre concordavano con quelli già espressi dai presenti, per la mia impreparazione, sicuramente, ma anche per il bisogno che avevo di provocare risposte. Tant’è che quando li esprimevo a voce alta, c’erano spesso delle risate o delle proteste. È stato molto divertente e, per me, istruttivo.
Ho capito così che l’arte non può stare da sola. Non sarei arrivata nelle sue vicinanze senza gli altri con i loro discorsi di persone esperte e affezionate. Quando poi ci arrivavo, nelle vicinanze, in qualche caso scoprivo che l’opera stessa era già in compagnia, non di cose a me estranee ma, sorpresa, di cose mie. Faccio l’esempio di un’opera che ho soprannominato “Il ripostiglio del Paradiso”, con riferimento alla terza cantica di Dante. È la cantica più difficile da leggere ma, ancor prima e ben più lo fu da scrivere. Lo avevo pensato leggendola l’estate prima. E nell’opera che ornava la quarta vetrina ho cominciato a vedere quella stanza che si chiama anche sgombero, usata da Dante per riporre pezzi in lavorazione e strumenti del suo lavoro poetico, l’ultimo e il più arduo, dal quale si aspettava in premio di essere richiamato a Firenze. Invano.
In quella mia esperienza estetica non c’entrava solo Dante, cioè la mia cultura classica, c’entrava anche il mio senso strategico di casalinga che sa quanto sia importante disporre di un ripostiglio. Non era come i nostri normali ripostigli, era sì una stanza un po’ disordinata ma era ingombra di oggetti delicati, finissimi, lucenti, celesti… era un’opera troppo delicata per essere riprodotta nella Mostra delle Vetrine, dove la cerchereste invano, anche per questo ve l’ho raccontata.
Ho capito un’altra cosa, che riguarda proprio la faccenda del farsi trovare sulla strada giusta. Come si fa? Nella vicenda che ha portato alla mostra Vetrine di libertà, le circostanze suggeriscono una risposta. Si trattava della vetrina di una libreria che si dedica a opere scritte da donne. E donne sono le autrici delle opere confluite ora nella Mostra. Qualcuno può legittimamente pensare che si tratti di una convenzione sensata per rimediare a un ingiusto silenzio verso il lavoro artistico delle donne.
Non io. Per me la preferenza data alle artiste e alle scrittrici è stata e rimane la risposta a una domanda che mi fu posta anni fa da un uomo che merita di essere chiamato filosofo: Luisa, perché vai con le femministe? La domanda mi portò di slancio fuori dal recinto della filosofia imparata a scuola e mi mise sulla strada giusta. Non parlo contro la scuola, ho passato una vita a insegnare. La grandezza di un pensiero teorico è che aiuta a leggere l’esperienza e dà delle buone risposte; penso però che la sua grandezza si mostri pienamente quando ti estromette da sé mettendoti su una pista buona, come fu quella volta per me. Il pensiero filosofico è neutro universale, io vado con le femministe perché sono una donna. Era il taglio della differenza che ha fatto di me una pensante felice. Non posso dilungarmi ma forse già sapete che la vita del pensiero comincia con un taglio.
La fecondità del pensiero della differenza sessuale non è esaurita, come si può sperimentare dal vivo entrando nell’edificio che ospita la Mostra con la consapevolezza di recarsi a incontrare una compagnia di donne una più sorprendente dell’altra.
Francesca Pasini e Chitra Cinzia Piloni hanno curato la Mostra e il Catalogo, pubblicato da Andrea Gessner (Nottetempo). Oltre alle trenta artiste della quarta vetrina, ci sono i nomi e qualche opera delle grandi e generose nove che, introdotte da Lea Vergine, hanno finanziato con le loro opere grafiche la nascente Libreria delle donne, tanti anni fa. Nel mio breve contributo sul Catalogo, m’interrogo sull’effetto di vedere in sincronia (in un unico grande spazio, la Fabbrica del vapore) quello che ho accostato mese dopo mese nello spazio della Libreria. Tutto andrà bene, purché sia salva la Sproporzione, ho scritto, ossia la non corrispondenza tra quello che ti aspetti e quello che trovi. Ne dipende, secondo me, l’esperienza di ogni grandezza e di ogni bellezza. Il senso della sproporzione io l’ho imparato da Cristina Campo, che è la maestra di questo sentimento. E l’ho provato allo stato puro arrivando alla immensa Fabbrica del vapore, che non conoscevo, fino allo spazio che ospita Vetrine di libertà. Una volta entrata, la mia antica esperienza del bello ha cessato di essere nostalgia del prima per diventare trasporto nel qui e ora.
(Alfabeta2, 28 aprile 2019)
Nelle indagini femministe sulle donne che hanno pensato il femmineo c’è un nome che spesso non trova posto: quello di Lou von Salomé. Forse perché non arruolabile né tra le file delle riflessioni sulle teorie di genere né tra quelle sulla differenza sessuale, la sua vicenda biografica e letteraria si oppone a ogni tentativo di incasellamento.
Di Lou Salomé poco si sa, o forse troppo. Spesso evocata, richiamata e indicata per lo più per le sue vicende biografiche, poco si conosce della sua (cospicua) produzione letteraria.
Molte delle sue opere non sono neppure tradotte non solo in italiano ma neppure in altre lingue. Se il destino delle sue opere singole è quello di essere trascurate, ben peggiore è quello della sua produzione sparsa in riviste e volumi collettanei. Solo recentemente una casa editrice tedesca, la MedienEdition di Ursula Welsch, ha intrapreso la pubblicazione di tutto il materiale raccogliendolo per tematiche. Questa attività, indispensabile e decisamente utile, corre però il rischio di catalogare i vari articoli in maniera univoca impedendo di fatto eventuali possibili altre combinazioni. Un esempio sono gli scritti su donne: a seconda che si tratti di letterate o filosofe sono stati sistemati in volumi differenti rendendo un po’ difficoltosa un’indagine, appunto, sul femmineo in Salomé. E invece, se andiamo a osservare il semplice elenco cronologico, ci rendiamo conto che Salomé si occupò del femminile sin dai suoi primi scritti. Lo scritto sulle figure femminili nei drammi di Hendrik Ibsen Frauengestalten è del 1892 a cui seguono alcuni articoli e contributi su riviste, dedicati a letterate e pensatrici. La sua prima analisi autonoma sul femmineo la troviamo nel 1899 Der Mensch als Weib. Qui Salomé conserva il tradizionale abbinamento maschile-mente e femminile-corpo ma attraverso le lenti filosofiche che ha ereditato dal suo filosofo preferito, Baruch Spinoza (benché questi non venga esplicitamente citato in questo testo, sappiamo che era da lei conosciuto sin da giovane e che non smette di essere richiamato in momenti importanti della sua riflessione filosofica), riesce a proporre una nuova versione emancipatoria del femmineo stesso, versione emancipatoria che lei stessa, nella sua vicenda biografica, mostra e persegue. A partire dalle a lei recenti scoperte in campo biologico, soprattutto relativamente alle cellule riproduttive, e conservando un impianto spinoziano in cui mente e corpo, cioè maschile e femminile, sono espressione di una medesima sostanza, Salomé riesce a leggere la differenza maschile e femminile senza dover ipotizzare alcuna conflittualità. Anzi, proprio la loro differenza permette una reale collaborazione tra le due espressività. E questa differenza, che emerge particolarmente vivida nelle composizioni corporee, è altrettanto presente nelle forme che la mente assume. Ci sono, per Salomé, differenti assetti biologici e, simultaneamente, differenti maniere di pensare e quelli e queste sono egualmente degni e degne di essere analizzati e analizzate poiché sono tutti e tutte espressioni dell’unica sostanza. Lo scritto ebbe così tanto successo che Martin Buber le scrisse chiedendo di elaborare un testo per la collana che lui dirigeva. Lei gli inviò solo nel 1910 il risultato del suo lavoro dal titolo Die Erotik. Qui la riflessione sul femmineo e le sue differenze con il maschile sono immerse in un’indagine più ampia che abbraccia l’essere vivente e che ha nell’eros la sua espressione più eloquente. L’eros, infatti, è il campo privilegiato per indagare gli effetti corporei e quelli mentali dal momento che esso, cha ha le radici nella sessualità del corpo, si espande fino alla mente. Se l’eros è una pulsione primaria di ogni vivente, esso si manifesta nel maschile e nel femminile in forme differenti che sono corporee e mentali al contempo. Maschile e femmineo, quando è questione di eros, manifestano la propria singolarità il primo espandendosi verso sempre nuove conquiste, il secondo ripiegandosi verso un’unità con l’intero vivente. E se questo avviene al livello del funzionamento del corpo, esso è ugualmente riscontrabile nei procedimenti della mente. Maschi e femmine hanno menti diverse perché hanno corpi diversi. Questa diversità, però, giace su una unità di fondo indissolubile. Quindi non due sostanze, non due nature ma un’unica sostanza, un’unica natura che si esprime in modi diversi. L’Eros permette di cogliere tutto questo. Per Salomé, di cui Martin Buber ebbe a dire del suo lavoro quando lo lesse «è platonico e spinozista», prende da Platone il mito del Simposio e da Spinoza la potenza del conatus. Questa impostazione è ripresa dall’intellettuale fino al 1931 nel suo magistrale Mein Dank an Freud.
La riflessione sull’arte di Salomé si innerva nella sua indagine sul femminismo. Anche in questo caso occorre rilevare un interesse di Salomé per l’arte sin dai suoi primi lavori. Ma è con il suo incontro con Freud che la sua riflessione sulla creazione artistica prende forma e consistenza soprattutto attraverso il concetto di narcisismo che Salomé rielabora alla luce del suo pensiero sul femmineo. Nel suo saggio Narzißmus als Doppelrichtung del 1921 il narcisismo, cioè ciò che sta alla base della creazione artistica e che per Freud è sintomo di un regresso e (possiamo dire) è segnale della presenza di una nevrosi, da Salomé è rivisto e proposto non come una tendenza regressiva, ma come espressione della componente femminea dell’essere umano. Femminea che per Salomé vuol dire corporea nella sua massima espressione che nulla deve alla mente. Salomé conobbe da vicino questa natura. Amata da Rilke di cui contraccambiava l’amore, conosce la potenza della creazione artistica che tende a sciogliere l’artista in una sostanza universale. Come il femmineo così l’artista conserva un legame profondo e corporeo con l’unità universale di tutto. Ed è per questo che, per Salomé, non è l’artista che fa della propria vita un’opera d’arte ma è la vita stessa che fa dell’artista, se lui si concede, un’opera d’arte.
L’uomo ha sempre dipinto. Dalla preistoria fino alla contemporaneità. E la donna?
La pittura è un’arte che si è sempre praticata con varie tecniche, che si sono modificate a seconda del contesto storico e culturale.
L’importanza della rappresentazione prospettica ribalta la concezione gerarchica di grandezza dei corpi, scelta in base al ruolo sociale, preferendo il rispetto naturalistico – secondo l’occhio umano – delle proporzioni. La prospettiva pone una serie di regole che, insieme all’invenzione di Gutenberg del libro stampato, rivoluzionano anche il modo di pensare dell’uomo. Si scrivono trattati, si iniziano ad usare i chiaroscuri e a studiare l’esposizione della luce, si ricerca una volumetria e allo stesso tempo la realtà inizia a diventare più meccanica, raggiungendo l’apice con la teorizzazione della fisica classica, in un progresso ideale che sembra svilupparsi dal Rinascimento fino all’800, prima della scossa dell’impressionismo. Scossa, non a caso, poiché coincide, l’impressionismo, con la rivoluzione elettromagnetica: la prospettiva e la meccanica si disperdono nell’etere indefinito della forza dei fotoni e dei campi magnetici. Dall’impressionismo in poi, in particolare da Cézanne, la pittura non è più mimesis, imitazione della natura, ma questa viene invece interpretata, fino ad arrivare alla vera e propria arte concettuale.
I più grandi pittori conosciuti sono tutti uomini. I più grandi trattati di pittura sono scritti dagli uomini. Leonardo da Vinci, Gino Piva, Cennino Cennini, Leon Battista Alberti e le Vite del Vasari sono solo alcuni esempi dei classici della teoria pittorica e della storia della pittura.
Marta Lonzi in È già politica scrive che la cosiddetta arte femminista è un’illusione, poiché si calano motivi extra-estetici «in un sistema che segue norme artistiche più o meno aggiornate», cioè il linguaggio non è “originale” ma “conosciuto”, non è “autentico” ma “corrente”. È necessario per lei che l’autenticità si dia un proprio linguaggio.
Conclude dicendo che «l’arte femminista quindi è un problema di femminismo e non di arte».
È possibile quindi essere autentiche in un linguaggio prettamente maschile, storicamente maschile, poco aggiornato come è la pittura?
Eppure la pittura, come la scrittura, linguaggio scelto da Rivolta Femminile, può essere un linguaggio autentico per alcune donne che l’hanno scelto come mezzo d’espressione d’elezione.
C’è una storia che parte dalle emancipate e arriva fino alle donne che hanno sperimentato con la pittura in un secolo, il Novecento, che gliel’ha permesso.
Partiamo dalle cosiddette emancipate. Cosa intendo per emancipate? Quelle donne che sono rimaste effettivamente nella storia dell’arte, quelle che sono diventate grandi artiste. Un esempio tra tutte è Artemisia Gentileschi, altre potrebbero essere Élisabeth Vigée Le Brun e Angelika Kauffmann, due ritrattiste nate nella metà del 1700.
Seppur si disquisisca molto della pittura delle citate, si nota che esse sono emancipate in quanto ormai pienamente accettate nella storia dell’arte maschile. Si ricerca infatti in queste uno «stile peculiare e riconoscibile, diverso da quello maschile sia a livello formale che espressivo, e in grado di trasmettere il carattere unico della condizione e dell’esperienza delle donne», per dirlo con le parole di Linda Nochlin, ma ci si rende conto che lo stile delle artiste in realtà non evoca niente di “femminile” o “femminista”, ma è perfettamente integrato con quello degli uomini del tempo. Le artiste, cioè, hanno molto più in comune con i colleghi maschi della loro stessa epoca e corrente di pensiero che non tra di loro.
Questo è perfettamente normale in un mondo a misura maschile, e anzi molto poco normale che in epoche e culture decisamente patriarcali alcune donne ce l’abbiano fatta a spiccare e affermarsi come artiste. Certo non c’è l’equivalente di un Michelangelo o di un Caravaggio (seppur la Gentileschi si avvicini, è pur vero che il Caravaggio è il Caravaggio e non a caso lei è una caravaggesca, e non viceversa), ma se così non fosse non ci sarebbe probabilmente bisogno del femminismo, perché le cose andrebbero bene così come stanno.
E via così fino al Novecento, passando per l’impressionista Berthe Morisot, fino alle futuriste come Barbara e Benedetta Cappa e alla dadaista Sophie Taeuber-Arp.
Si inizia a parlare di arte specificatamente femminista a fine degli anni ’60, quando appunto esplode il femminismo. Le artiste cercano così una nuova storia da raccontare, la propria storia, cercando di influenzare gli atteggiamenti culturali, creare spazi e possibilità nel mondo dell’arte anche per le donne. L’arte femminista è tipicamente ricollegata ai nuovi media o a materiali usati solitamente nell’universo femminile come le stoffe e i ricami, ma la maggior parte delle pratiche artistiche femministe si rifanno alla performance e alla body art. La performance è tutt’ora molto usata per la sua caratteristica di fisicità che permette di comunicare in maniera potente e diretta. Un altro medium molto usato è stato la fotografia, assieme alla videoarte.
E la pittura?
C’è un caso esemplare, secondo me, dove la pittura femminile e proto-femminista inizia a distinguersi e a distaccarsi da quella dei colleghi maschi: è il caso delle surrealiste.
Le pittrici surrealiste hanno esplorato temi affascinanti e complessi attraverso le loro opere d’arte. Nei dipinti di artiste come Frida Kahlo, Leonora Carrington e Remedios Varo si trovano riflessioni profonde sulla psiche umana, il sogno e la realtà, l’identità e la condizione femminile.
Frida Kahlo ha utilizzato il surrealismo per esplorare la sua sofferenza personale e le esperienze di vita, mescolando elementi autobiografici con la mitologia e il simbolismo. Leonora Carrington, d’altra parte, si è immersa nel mondo dell’inconscio, creando opere oniriche che sfidano la logica e celebrano la libertà dell’immaginazione. Remedios Varo ha intrecciato scienza e magia, esplorando il potere della creatività e dell’auto-trascendenza. Il legame con la stregoneria è molto profondo, spesso rappresentante il proprio alter-ego, così come la figura del gatto e altri animali, inseriti in un discorso che possiamo definire proto-antispecista ed ecofemminista, evidente nelle opere di Varo ma anche di Leonor Fini e Lise Deharme.
Questi temi non sono solo meraviglie estetiche, ma spingono anche i limiti della percezione e invitano a una riflessione più profonda sulla nostra esistenza.
Spesso usano l’autoritratto, a differenza dei surrealisti che ri-costruiscono la figura femminile in maniere stereotipate e influenzate dalle teorie freudiane, nelle immagini si autorappresentano e si moltiplicano – non solo pittoricamente, spesso anche nei numerosi scritti autobiografici.
Il corpo è l’elemento centrale della poetica delle surrealiste, in cui le figure femminili sembrano consapevoli in mezzo alle creature magiche e personaggi leggendari. Scivolano tra fecondità e sterilità, caos ed isolamento, interiorità ed esteriorità. C’è un’implosione della riflessione. Non c’è uno smembramento del corpo come nelle opere dei surrealisti, ma l’integrità di esso rappresenta anche l’integrità delle artiste. La differenza sostanziale, per dirla con le parole di Katharine Conley, è l’immagine maschile della “donna automatica” e l’immagine femminile della “donna autonoma”
La differenza è anche formale: i surrealisti si rifanno alla pittura rinascimentale. Questa, tramite le parole di numerosi studiosi come il Leon Battista Alberti, insieme al nuovo umanesimo riscoperto, pone la donna in una condizione di inferiorità ben diversa da quella del Medioevo. Inizia nel Rinascimento, riprendendo la classicità, la patrilinearità giustificata dalla teoria per il quale la donna è solo un utero, un contenitore, mentre è il padre che dà l’anima e di conseguenza il cognome ai propri figli e alle proprie figlie.
Non è un caso secondo me che le surrealiste si rifacciano invece a uno stile pre-rinascimentale, quasi gotico, riecheggiando non solo tempi di streghe, ma ponendosi in opposizione a una classicità maschilista e patriarcale.
Ma veniamo al giorno d’oggi: ho scelto tre artiste che, benché utilizzino un mezzo tradizionale come la pittura, hanno uno sguardo a mio parere femminile sul mondo, hanno cioè attuato un tabula rasa della concezione maschile della cultura.
Prudence Flint è una pittrice di Melbourne. Ritrae solo donne, spesso in interni di case, luoghi soffusi. Non c’è una narrazione specifica ma sono pieni di uno sguardo interiore sulla propria femminilità, non intesa come genere ma come specifica condizione dell’essere donna. Le figure sono spesso solitarie, anche se in coppia sembrano assorte nei propri pensieri, circondate da oggetti di uso quotidiano che fungono da metafore per il mondo interiore. Sembra voler ribaltare il tipico stilema della rappresentazione delle donne nella storia dell’arte, seppur tecnicamente ricordi le imponenti figure del ritorno all’ordine degli anni ’20 del ’900.
Emma Talbot è un’artista inglese. Spesso dipinge su seta, usando un materiale che richiama le vesti femminili, la pittrice si rifà alla teoria dell’écriture féminine degli anni ’70 della francese Hélène Cixous. Segnati dall’influenza del pensiero post-antropocentrico e postumano, i dipinti su larga scala di Talbot incorporano figurazioni semplificate, motivi mitologici, modelli ritmici, colori vivaci e testi calligrafici per esprimere aspetti delle esperienze personali e interiori dell’autrice, mentre si estendono ad argomenti che vanno dalla tecnologia, natura, urbanistica ed ecopolitica alla pandemia e all’invecchiamento. Le scritte che spesso inserisce nei suoi dipinti cercano una relazione con lo spettatore o la spettatrice invitandola a riflettere sul significato delle sue opere.
L’ultima artista che chiamo in causa è la giovanissima Laetitia Ky, più famosa per le fotografie dove ritrae le sue acconciature, essendo ivoriana i capelli afro hanno una forte connotazione simbolica, ma anche pittrice. Non nasconde il suo essere femminista e con la sua pittura naïf esprime forti messaggi che riguardano il corpo delle donne, come le mestruazioni, i peli, l’anzianità e la sessualità. Non usa filtri nei suoi dipinti ed elementi come sangue, sesso e parti del corpo sono sempre molto espliciti.
Oggi la nuova ondata pop di femminismo è un’arma a doppio taglio: può essere la commercializzazione e la liberalizzazione delle istanze femministe, ma può aiutarci a scoprire anche modi di vivere – e di dipingere – femminili e femministi.
Invitata da Donatella Franchi a intervenire alla mattinata di studio su arte e relazione, il mio racconto non poteva non concentrarsi sull’esperienza di Cuore di pietra, un progetto di arte pubblica, partecipativa e relazionale, che ho ideato e realizzato, come curatrice e artista, a Pianoro, paese dell’area metropolitana bolognese.
Attivo dal 2005 al 2020, Cuore di pietra è nato inizialmente come una mia azione poetico-politica a partire da un’emergenza: un piano di riqualificazione urbanistica che si avviava a stravolgere con abbattimenti e ricostruzioni il vecchio centro del paese portando a dei mutamenti, anche antropologici, molto profondi, di abitudini e rituali di vita quotidiana. Da subito, visto il coinvolgimento immediato ed emotivamente partecipe degli abitanti, è iniziata la costruzione di una tessitura continua di relazioni fra me, i moltissimi artisti di volta in volta invitati (per non citarne che alcuni MP5, Andreco, Alessandra Andrini, Emanuela Ascari, Eva Marisaldi, ZimmerFrei, Annalisa Cattani, Mona Lisa Tina) e un tessuto umano, sociale e generazionale diversificato: gli abitanti delle vecchie case (per la maggior parte donne, che abitavano le case dal dopoguerra e che costituivano un po’ la memoria del paese), i bambini delle scuole locali, le loro famiglie, gli abitanti tutti e, col tempo, anche studenti universitari e dell’Accademia di Belle arti di Bologna interessati a un percorso di formazione alla progettazione di arte negli spazi pubblici non finalizzata alla monumentalità né alle opere troppo “egocentrate” ma “portatrici di senso” non solo per l’artista che le crea ma per la comunità. I linguaggi artistici che negli anni abbiamo utilizzato sono stati i più diversi: dal video e la fotografia, nel nostro caso continui “pungoli relazionali”, strumenti di sollecitazione a un dialogo in divenire, alle installazioni effimere o permanenti, le performance. L’obiettivo di tutti i lavori è stato attivare una memoria il più possibile vitale, non retorica né strumentale ma capace, nel suo muoversi con levità e restituendo dignità di racconto ad ogni singola piccola o grande voce, di costruire insieme un’identità rinnovata e far sì che ciò che stava per essere cancellato rimanesse come un racconto “caldo” e “profondo” di tutto ciò e di chi sarebbe inevitabilmente scivolato nell’oblio. Ne è nato così un racconto corale le cui tracce si trovano ancora, dal centro alle aree verdi e alla zona industriale, in un percorso visitabile anche attraverso periodiche passeggiate guidate.
In questa fitta trama di relazioni il tempo e la durata hanno acquisito una funzione fondamentale: niente eventi spettacolari e a spot, ma un’arte che ha lavorato nelle pieghe del quotidiano e nel tempo lungo necessario per entrare in contatto con il territorio, con i suoi abitanti in uno scambio di racconti alla pari fra generazioni e in una cura che voleva essere training alla consapevolezza e responsabilità in progress: cura dell’artista nel momento della fase progettuale e nel suo rapporto (fondamentale) con la comunità, cura nella realizzazione dei diversi progetti che, facendo entrare l’altro dovevano aprirsi a una elasticità e agli imprevisti, cura e attenzione nella manutenzione, contro l’indifferenza, l’invisibilità e l’incuria nelle quali il più delle volte gli interventi di arte negli spazi pubblici scivolano inevitabilmente. Quest’ultimo punto è argomento di una mia battaglia dura, un po’ sconfortante e tutt’ora aperta, perché non è così assodato che tutto ciò che è stato faticosamente creato e con un discreto successo in un certo momento, si sedimenti come cambiamento culturale e di mentalità in chi, soprattutto le istituzioni, ha dovuto e dovrà, nel tempo, e soprattutto in nostra futura assenza, gestire e prendersi cura di un bene divenuto comune. Molto, in questo modo di intervenire con l’arte, ha a che fare con il dono, uno scambio in cui energie e risorse non potranno, men che meno in Italia, essere equiparate alle energie e alle forze e alle risorse spese.
Questa mia pratica e metodologia, sicuramente complesse, che necessitano di presenza, sguardo e ascolto sempre vivi, penso, e me ne rendo conto solo negli ultimi tempi, nascano sia dal non avere avuto una formazione artistica tout courtma avere fatto degli studi trasversali sullo spazio metropolitano moderno in chiave letteraria, artistica e antropologica, sia dall’impegno politico e dalle pratiche femministe della fine degli anni ’70, a Firenze, quando frequentavo il collettivo femminista che si riuniva nella sede del Manifesto, oltre che dalle strade invase dai sogni dell’utopia creativa del ’77 bolognese.
Qualcuna di voi diceva, citando Carla Lonzi, che le artiste hanno reso l’arte uno strumento di azione nella loro vita, io aggiungerei che l’arte è stata per me oltre che un potente strumento di azione nella mia vita anche uno strumento di incontro e azione nella vita degli altri. Essa in Cuore di pietra ha avuto un valore sociale, umano e affettivo, catartico e terapeutico per un’intera comunità.
Cuore di pietra è nato da un’emergenza urbanistica dicevo prima. Ma l’incontro con varie emergenze nel corso del tempo ha fatto sì che, quasi naturalmente, il nostro lavoro proseguisse malgrado difficoltà e intoppi, in un’azione cocciuta e necessaria di Resistenza e resilienza. Nel 2011, di fronte a una crisi economica che imponeva tagli alla cultura, all’arte e all’istruzione e che, anche dai racconti dei bambini di Pianoro, toccava pesantemente le famiglie, abbiamo deciso di proseguire concentrandoci sulle memorie del territorio produttivo entrando con gli artisti nelle fabbriche e nelle aziende, anche e soprattutto in orario di lavoro e cercando di creare una rete di scambio fra le zone della produzione e la vita del paese, spesso rigorosamente separate.
Dal 2016, seguendo gli sviluppi nazionali e locali delle politiche di accoglienza e integrazione dei migranti abbiamo lavorato, attraverso dei laboratori focalizzati sulle narrazioni e le esperienze dei loro viaggi e sulla loro identità nei paesi d’origine e in Italia, con le famiglie ospiti di una struttura gestita da Mondo donna Onlus e con un gruppo di giovani maschi. Onde dorate/Golden waves, nel 2019, con un mio intervento che dalla piazza del municipio di Pianoro si è diffuso ad una partecipazione più allargata a varie città, e con due interventi artistici di Tina Besoni Pesoni e di Valeria Notarangeli, realizzati con i migranti all’esterno della scuola media e in una sala della biblioteca comunale, è stato il risultato di quegli ultimi anni di impegno febbrile e coinvolgente dal quale è nato anche un toccante libretto di racconti di viaggi migranti: Io sarò la tua voce, scritto da Clement I. Thomas, un giovane nigeriano.
Ciò che di Cuore di pietra è rimasto, ed è visibile, oltre ad un percorso di arte contemporanea partecipativa fra i primi in Italia e che segna alcuni spazi pubblici all’aperto e al chiuso, sono alcune pubblicazioni e molti film e video, alcuni fruibili sul web e dei quali vi riporto qui il link qualora voleste approfondire il tema.
Un’ultimissima riflessione, con la quale concluderò, mi è stata sollecitata dalla citazione della secentesca Carte de Tendre che aveva illustrato il romanzo Clélie di Mademoiselle de Scudéry, fatta da Donatella all’inizio di questo nostro incontro. Quella mappa ha molto influenzato periodicamente l’arte e la letteratura, non soltanto femminile, soprattutto dal ’900 in poi: dai surrealisti francesi alle mappe psico-geografiche dei situazionisti. E la public art delle nostre pratiche altro non è, anche, che un tentativo di mappatura emotiva e affettiva degli spazi pubblici e di un territorio che, proprio in virtù dell’emersione di questa affettività riesce a trasformarsi in “paesaggio”, caldo e umano.
www.cuoredipietra.it
https://www.facebook.com/CuoreDiPietra.PublicArt
Cuore di pietra. Un paese si racconta con l’arte, film di Marco Mensa, Elisa Mereghetti e Mili Romano: https://www.youtube.com/watch?v=7yN4ipJFMm8
Trailer del film Lavoro ad arte: https://www.youtube.com/watch?v=YBGxlkbCnMM
Video Onde dorate/Golden waves: https://www.youtube.com/watch?v=VxqZ0-LgXrcVideo Onde dorate/Golden waves. Let’s save them… Let’s save ourselves: https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=LxoqJ1WxiG8
I contributi di Giorgia Basch e di Donatella Franchi sulle pratiche artistiche femministe che diventano pratiche relazionali e aprono spazi di sperimentazione nuovi, insieme alle riflessioni riportate di Carla Lonzi sull’arte, mi hanno richiamato alla mente il fiorire negli anni settanta all’interno dei collettivi femministi di gruppi di donne che si occupavano in particolare di cinema, girando film, documentari e video artistici.
Un’esperienza intensa e fruttuosa che voleva documentare non solo le lotte, ma la politica di presa di coscienza, la ricerca di nuovi linguaggi di rappresentazione delle donne come soggetto e il desiderio di sovvertire l’ordine patriarcale. La pratica dell’autocoscienza, che è una pratica di relazione per eccellenza, ha qui avuto un ruolo fondamentale.
In quella fase le sperimentazioni filmiche e le teorie sulla creazione di un nuovo immaginario femminile andavano di pari passo.
Una raccolta di questi video fu presentata all’interno della mostra che si tenne a Milano tra aprile e maggio 2019 dal titolo Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e femminismo in Italia*.
La grande Agnès Varda è un esempio. Fin dal suo debutto con il film La Pointe Courte, la regista pone in primo piano la forza delle relazioni, non solo nelle trame dei suoi film ma nella loro realizzazione, sia con le persone con cui lavorava sia con i soggetti che filmava: i suoi vicini di casa, i commercianti della sua via, le donne che animavano i cortei o il suo girovagare incinta fra gli abitanti del quartiere.
Il cinema anni settanta definito Feminist Avantgarde nasceva dall’autocoscienza, dalle teorie femministe e dalle pratiche di relazione e sviluppò una lunga ricerca e un acceso dibattito su come decostruire l’immaginario maschile. Da qui i film e le analisi della regista e critica Laura Mulvey che con il suo saggio Visual Pleisure and Narrative Cinema(Piacere visivo e cinema narrativo, 1975) intendeva mettere in discussione e modificare la rappresentazione del corpo femminile nel cinema e nella pubblicità. Sosteneva che in una società costruita sul dominio sessuale maschile il piacere di guardare era stato diviso tra l’attivo/maschile e il passivo/femminile. Di conseguenza lo sguardo maschile sulla figura femminile la modellava. Divenuto un testo di riferimento per le teorie del “male and female gaze” (sguardo maschile e sguardo femminile), il dibattito critico è arrivato fino ai giorni nostri.
Perché cambiare lo sguardo significa mettere in atto una relazione differente tra spettatrici e spettatori, tra chi guarda e chi è guardato, e non è reso oggetto.
A questo proposito una lezione raffinata e illuminante sul tema ci viene da Céline Sciamma nel suo film Ritratto della giovane in fiamme che a questo proposito in un’intervista a Emily Van Der Werff su Vox (rivista on line, 19/02/20) afferma: «Vedo il film come un manifesto sullo sguardo femminile. Vedo questo come una forte opportunità per creare nuove cose, nuove immagini, nuove narrazioni».
Come sempre anticipatrice, Agnès Varda, a proposito dello sguardo femminile, dà una sua originale interpretazione in Cléo dalle 5 alle 7 dove la protagonista in un gioco di sguardi, di specchi e di rispecchiamenti, confronta la percezione di sé e quella attribuitale dallo sguardo maschile fino a rompere, non solo simbolicamente, con questi continui rimandi a sé come oggetto, per incominciare a percepire se stessa come soggetto.
(*) Un importante archivio di quelle pratiche è il Centre Audiovisuel Simone de Beauvoir di Parigi che, creato nel 1982 da Carole Roussopoulos, Delphine Seyrig e Ioana Wieder, ha come scopo «la conservazione e la creazione di documenti audiovisivi sulla storia delle donne, i loro diritti, le loro lotte, le loro creazioni».
Da alcuni anni curo mostre di mail art organizzate dal circolo La Merlettaia di Foggia a cui si è poi unita la rete delle Città vicine e quest’anno, con la mostra, anche le artiste dell’Alveare di Lecce.
Nello scenario della società contemporanea l’arte assume un rilievo fondamentale come strumento critico e politico. In particolare negli ultimi anni è cresciuto l’impegno di artiste e artisti sulle questioni che riguardano l’attualità attraverso le loro opere, facilitato dall’uso di strumenti digitali, che hanno consentito loro di raggiungere un pubblico molto vasto e di diffondere in modo rapido ed efficace i loro messaggi. Anche le città sono investite da nuove forme d’arte che mirano all’occupazione dello spazio pubblico e diventano teatro di nuove sperimentazioni culturali, in cui artisti/e agiscono su territori non deputati generando spazi di socialità, occasioni di incontri, attraverso forme d’arte e performance agite anche in modo illegale.
In particolare la pratica della mail art, che non ha scopo di lucro, si serve delle tecniche più disparate, con la sua lunga tradizione di carattere politico e di resistenza a ogni forma di potere, è particolarmente adatta a veicolare pensieri, parole, messaggi che hanno stretti legami con l’attualità e profondi significati sociali e politici. È, infatti, lontana dai condizionamenti, dalle mode del cosiddetto sistema dell’arte ed è anche un atto politico, che crea relazioni tra i partecipanti e tra mittente, destinatario, spettatore. La comunicazione mailartistica, la più grande espressione artistica fuori dal mercato, si avvale di reti che coprono l’intero pianeta. Non c’è paese, infatti, in cui non ci siano artisti/e che si servono di questa pratica per comunicare e scambiarsi idee, anche a costo di subire persecuzioni, come accade nei paesi a regime totalitario. Questa forma d’arte si diffuse all’inizio degli anni Sessantanelle due Americhe con la caratteristica di opporsi all’establishment culturale e politico.
Mentre i nordamericani si ribellarono al formalismo, alla fama, alla moda, ai musei, ai critici delle gallerie e alle istituzioni, i latinoamericani invece si opposero ai propri regimi repressivi. Anche nell’Europa dell’Est gli artisti si servirono della mail art per criticare i regimi da cui furono perseguitati.
In Giappone si è diffusa con un particolare interesse per la pace. Famoso il Progetto Ombra di Ruggero Maggi che culminò a Hiroshima il 6 agosto 1988 con un grande “Mail art meeting”.
La mail art ha interessato molto le artiste che volevano intrecciare l’arte con la vita ed esprimersi creativamente al di fuori del mercato.
All’inizio del 1975 fino al ’79 un gruppo di donne in tutto il mondo, a partire dall’Inghilterra, iniziarono a inviarsi reciprocamente piccole opere d’arte attraverso il mezzo postale con l’intento di unire aspetti apparentemente disparati: il privato, domestico e personale con il politico e sociale. Avendo poche risorse, molte di loro usavano vecchi imballaggi, pezzi di stoffe ricavate dall’abbigliamento, cose di uso comune. Nel 1977 ci fu un grande evento di arte postale femminile, Feministo. Ritratto dell’artista come casalinga, presso ICA di Londra.
Dalle sue origini la mail art rappresenta, dunque, un linguaggio che evidenzia l’importanza delle differenze a partire da quella uomo donna ed è espressione del multiculturalismo e delle varie identità e personalità artistiche che coesistono e si confrontano. I mailartisti hanno sempre lottato per la giustizia sociale e hanno creato progetti che esaltano la diversità culturale, etnie e classi sociali.
Il tema che proponiamo per le mostre di mail art del circolo La Merlettaia è scelto tra quelli al centro di riflessione e discussione di donne e uomini delle associazioni interessate e spesso riguarda l’attualità. Dallo scambio di pensieri, dal racconto delle proprie esperienze e a partire dal proprio sentire emergono spunti che proponiamo nella lettera di invito rivolta ad artiste e artisti, e non, con cui siamo in relazione e che a loro volta invitano altre e altri. Si crea così una ampia rete che comprende varie città italiane e anche straniere. Abbiamo cominciato nel 2013 con Immagina che il lavoro, che riprendeva il titolo della pubblicazione del Sottosopra, poi nel 2015 Kintsugi, ispirata alla tecnica artistica giapponese che consiste nel riparare una ceramica rotta con l’oro o l’argento. Questa modalità può aiutare ad affrontare e riparare senza cancellarli ferite e dolori in casi di un forte conflitto, come capita quando c’è uno scambio reale tra persone.
In cielo, in terra e… in mare del 2016 allude alla libertà femminile, l’imprevisto della storia che non stava né in cielo né in terra, ma che le donne sono riuscite a conquistare.
Nel 2017 Concepire l’infinito, tema dettato da una riflessione e una serie di letture in cui eravamo impegnate da alcuni mesi in incontri presso La Merlettaia. Nel 2018 Ci deve essere un luogo in comune, tratto da un passo del libro di Antonietta Potente Come un pesce che sta nel mare, che recita: «Ci deve essere un luogo in comune, uno spazio, un cuore dove viviamo, nella verità della differenza, questa bellissima appartenenza gli uni dagli altri, le une alle altre».
La mail art del 2022 Rigenerazione nasce dall’ispirazione dell’opera di Shamsia Hassani, Donna che vola sopra il Covid 19 e la guerra. Ci chiedevamo: come, in che cosa ci sentiamo trasformate e trasformati? Come è cambiata nel sentimento di ognuna/o la città? E l’ambiente naturale? È possibile creare un nuovo rapporto tra tecnologia e natura? Che cosa abbiamo scoperto di diverso sulla nostra percezione del corpo, la vecchiaia, la cura, la fragilità? Nel 2023Donna Vita Libertà esprimeva solidarietà alle donne iraniane e sottolineava la continuità fra le parole donna, vita e libertà. Nel 2024 la scelta del tema Trame di vita – Trame di pace è stata inevitabile in un periodo buio dell’umanità, ma nello stesso tempo illuminato da sprazzi di luce e di speranza per le azioni di tante donne e uomini in ogni parte del mondo tese al cambio di civiltà.
Giorgia Basch: Il titolo che abbiamo scelto per questa redazione aperta è “L’arte della relazione” e il perché lo capirete durante il nostro intervento, mio e di Donatella. Non si tratterà di parlare solo a un pubblico specifico, a chi fa parte del mondo dell’arte contemporanea, ma anche a chi fa uso di pratiche artistiche e creative nella vita di tutti i giorni, qualcosa che il femminismo ha fatto e continua a fare anche nella mia generazione. Vorrei anche fare un’altra precisazione: chi viene spesso agli incontri di Via Dogana sa che siamo solite leggere una sorta di relazione, o comunque lavorare su interventi singoli. Con Donatella però, vista la tematica e quello che andremo a discutere poi con voi, abbiamo scelto di mantenere un dialogo tra di noi e di creare una conversazione in cui cercheremo di portare innanzitutto le nostre esperienze, quindi a partire da noi, e poi di dare anche qualche indicazione storico-culturale che è a noi vicina e che pensiamo possa aiutare a introdurre questo tema. Vedremo anche delle immagini, cosa che accade ogni tanto nei nostri incontri, ma devo dire che in questo caso ne avremo molte, e speriamo che possano sostenere la narrazione. Lascio la parola a Donatella.
Donatella Franchi: Grazie. Dichiaro subito la posizione da cui parlo, che è quella di una femminista degli anni ’70 con una gran passione per l’arte e la politica. Le due passioni per me coincidono.
Il fatto di parlare insieme a Giorgia, una giovane donna, mi fa pensare che il femminismo è un movimento che continua a rinascere e ad essere ricreato da ciascuna. Non è un tempo storico, è una ricerca, un modo di stare nel mondo. Ne è una dimostrazione il rinnovato interesse per la figura di Carla Lonzi. In tutti i suoi scritti la riflessione sull’arte e la creatività occupa un posto centrale. È un pensiero generativo che oggi continua ad essere fertile e a dare nutrimento.
Carla Lonzi oggi viene ripubblicata, riletta e rivissuta anche da studiose di storia dell’arte e da diverse artiste. Segnalo due testi particolarmente efficaci: Carla Lonzi, un’arte della vita di Giovanna Zapperi, 2017, e La storia dell’arte dopo l’autocoscienza a partire dal diario di Carla Lonzi di Carla Subrizi, 2021. Il suo pensiero è un punto di riferimento in mostre sulle pratiche artistiche delle donne dagli anni ’70 in poi come Il soggetto imprevisto (Milano 2019), e Io dico io (Roma 2021).
Nella sua premessa a Sputiamo su Hegel (1970) Carla Lonzi dice: «Il bisogno di esprimersi è stato da noi accolto come sinonimo di liberazione». Esprimersi dunque è una azione politica e fare politica coincide con il desiderio. Questa secondo me è la chiave di volta per capire che cosa è stato il femminismo per una donna della mia generazione. Un urgente desiderio di esprimersi che si traduceva in una sperimentazione a tutto campo, a partire dalle nostre vite, per trovare la nostra voce, parole e immagini proprie, libere dalla tradizione maschile. «Non credere più a una liberazione di riflesso fa uscire la creatività dai rapporti patriarcali» (Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile, 1971).
Il pensiero rivoluzionario che Carla Lonzi elabora nel suo gruppo di Rivolta Femminile, e soprattutto attraverso il dialogo con Carla Accardi, libera l’atto creativo dal dominio dell’artista restituendolo al vivere e all’agire creativamente, alla vita.
È necessario smitizzare la figura dell’artista che, sentendosi depositario privilegiato della creatività, accentra su di sé la creatività che tutte e tutti in modi diversi possediamo e che è indispensabile per orientarsi dentro la vita. «[…] tutti devono essere creativi, non è immaginabile che si accetti una parte di umanità tagliata fuori» (Taci. Anzi parla, 6 agosto 1972). Qui mi risuonano anche le parole di Anna Maria Ortese, quando dice che “Il fatto creativo” è entrare nel mondo per il verso giusto e non creare è morire (Corpo celeste, pp.55-60). Mettere a frutto il proprio io creativo è necessario come respirare.
La creatività è prima di tutto in funzione della vita ed è nutrita dalle relazioni.
Il gruppo di autocoscienza, per tante della mia generazione, è stato uno spazio di relazioni creative e un laboratorio di ricerca dove l’espressione di una trovava echi e risonanze nell’espressione dell’altra. Nell’atto creativo dell’ascolto veniva rotta la fissità dei ruoli tra chi si esprimeva e chi ascoltava. Erano posizioni intercambiabili (Zapperi, p. 215). Era una pratica d’ascolto che portava a un nuovo modo di esprimersi capace di dare voce alla propria esperienza, e alla rottura di specialismi e stereotipi culturali.
Ho vissuto il femminismo degli anni ’70, e continuo in parte a viverlo, come una pratica creativa che si manifesta in un fare. «Fare il femminismo» diceva Carla Lonzi e Carla Accardi diceva «fare arte». Si inventavano e si aprivano nuovi spazi e nuovi contesti di relazioni. Si aprivano le proprie case, dove si incontravano i primi gruppi di autocoscienza, e luoghi come le librerie delle donne, laboratori creativi, spazi espositivi curati dalle stesse artiste.
Nel mio gruppo di autocoscienza ero l’unica che aveva la passione per l’arte e per il fare arte, ma tutte sentivamo l’urgenza di metterci in gioco cercando un modo di esprimerci che non avevamo mai sperimentato. Utilizzavamo la fotografia come pratica di autocoscienza. Erano le fotografie degli album della nostra infanzia, spesso scattate dalle nostre madri e più tardi da amiche e conoscenti, fidanzati, e quelle scattate da noi stesse. Il lavoro che ne è risultato, e che abbiamo chiamato Equilibrismi, consisteva in una riflessione di parole e immagini sui ruoli e i travestimenti che assumevamo nelle nostre vite sotto lo sguardo di chi ci fotografava. Il prendere in mano l’obiettivo significava guardare il mondo dal nostro punto di vista, prendersi la responsabilità del proprio sguardo e creare immagini proprie, fuori dall’imitazione.
La fotografia, come i video, sono tra gli strumenti espressivi più amati dalle femministe tra gli anni ’70 e ’80, come mezzi duttili e immediati che non richiedono una lunga preparazione accademica e possono così rispondere all’urgenza di comunicare liberamente.
Carla Lonzi non amava le artiste sue contemporanee, le vedeva ancora nell’imitazione della tradizione maschile. Incontra quello che non trovava in loro nel mondo delle Preziose della prima metà del ’600. In Armande sono io!conversando con Anna Piva, ci dice chiaramente quello che lei intendeva per arte, proiettandolo nello spazio relazionale delle preziose: La Carte du Pays de Tendre. La carta di Tendre è una mappa dove i paesi e le città portano i nomi di relazioni e sentimenti, sia positivi sia negativi; la città più grande è quella di Nuova Amicizia, e c’è quella della Stima e della Riconoscenza, il fiume che solca il territorio è il Fiume dell’Inclinazione, cioè del desiderio, ma c’è anche il grande Lago dell’Indifferenza. Il territorio è misurato in leghe d’amicizia. Man mano che ci si allontana dal Fiume dell’Inclinazione, si trovano i sentimenti negativi, l’Indifferenza, la Trascuratezza.
Per Carla Lonzi creare un contesto di relazioni è un vero atto creativo, per questo considera delle vere maestre le Preziose, che praticando l’arte della conversazione «portavano sempre più la letteratura (ma si può dire la stessa cosa per l’arte visiva) ad essere in funzione della vita» […] «loro volevano spostare a che il momento più importante fosse questo dell’arricchire il vivere insieme. Arricchirlo, per cui una parola detta, una frase trovata, una serata riuscita era veramente un capolavoro» (Armande sono io! pp. 54-55). Allora, a questo punto, Giorgia, vorrei che tu ci dicessi la tua.
Giorgia: Mi vorrei ricollegare alle Preziose, che tu hai citato, ma con una premessa: ci tenevo a far emergere la pratica relazionale che abbiamo messo in atto io e Donatella per preparare questo incontro. È per me espressione di quella genealogia femminile di cui qui parliamo molto spesso e che credo sia molto importante, soprattutto all’interno delle pratiche creative. Nella mia tesi Conversazione come pratica. Dialoghi tra arte e curatela dagli anni Settanta a oggi ho scritto del rapporto – a volte anche difficile ma spesso fruttuoso – che c’è oggi tra artiste e curatrici, critiche d’arte e pubblico. Se non fosse stato però per quello che voi femministe siete riuscite a creare negli anni ’70, inclusi gli spazi come questo che ancora sono qui fortunatamente, non sarebbe stato possibile per la mia generazione leggere la pratica artistica nel modo in cui sono in grado di leggerla oggi, io come molte altre. Io non sono un’artista, però ci sono molte artiste, e anche curatrici, critiche, editrici contemporanee che ne hanno fatto un uso proprio e ve ne farò vedere degli esempi. Quindi credo che sia assolutamente fondamentale ricordarci della storia che ci ha condotte fino a qui e di come queste pratiche continuino a rivivere e a rinnovarsi anche sulla base di una serie di problematiche sociali, economiche e politiche che ci troviamo ad affrontare nella quotidianità.
Tornando alle Preziose, anch’io sono stata curiosa di capire che cosa le Preziose rappresentassero per Carla Lonzi, ma anche per altre donne che hanno lavorato sulla pratica di relazione. Una di loro è qui presente, è Lia Cigarini – qualche mese fa abbiamo avuto una conversazione sul suo interesse per le Preziose, di cui ha anche scritto, e questo testimonia l’importanza di un movimento apparentemente molto lontano da noi (siamo nel ’600). Le Preziose hanno fatto un lavoro straordinario, assolutamente rivoluzionario rispetto al contesto in cui erano calate, ovvero tra le altre cose creare questi salotti in cui si discuteva di un vero e proprio programma culturale, tra donne ma anche tra donne e uomini. Credo che questo modello in qualche misura ce lo portiamo ancora dietro – c’è ad esempio una teorica viennese con cui ho avuto modo di confrontarmi lo scorso inverno, Elke Krasny, che ha scritto un saggio molto interessante al riguardo, The Salon Model: The Conversational Complex (purtroppo ad oggi solo in inglese) che parla proprio di come la pratica relazionale, il dialogo, la conversazione si possano riportare al centro di una pratica curatoriale, a partire dai salotti delle Preziose. Questo fa proprio parte della creazione e del nutrimento di una genealogia femminile. Non è un caso: credo che anche Lonzi sia ripartita da lì, ne parla molto in Armande sono io, un libro molto interessante anche per com’è costruito, in forma di conversazione. E parlando di conversazione, è un tema che anch’io ho avuto modo di affrontare e mi interessa anche perché molto spesso la conversazione viene vista solo sotto l’aspetto della parola – come dicevi anche tu, Donatella. Tuttavia a volte anche attraverso il linguaggio visivo è possibile creare delle forme di conversazione. Questo mi interessa moltissimo, e ne ho scritto di recente non solo per il mio legame con la fotografia, il video e tutti i mezzi legati alla creazione dell’immagine (lens-based si direbbe in lingua inglese), ma anche perché noi viviamo in una società che è completamente assorbita dal flusso delle immagini – lo scrivevano Guy Debord e Susan Sontag a dieci anni di distanza (rispettivamente nel ’67 e ’77) già mezzo secolo fa, e la loro intuizione si è rivelata essere uno studio importantissimo sul passaggio alla società dell’immagine. Per questo motivo mi interessa come possiamo ripensare quello che è stato scritto e studiato fino ad ora rispetto alla produzione dell’immagine, da un punto di vista di donne e anche di femministe. Il motivo per cui abbiamo scelto di far vedere anche noi delle immagini oggi testimonia di alcuni casi di fotografe che sono riuscite a creare un dialogo attraverso l’utilizzo della fotografia non solo con il pubblico, ma anche all’interno dell’opera stessa. Un esempio che a me piace molto è un lavoro dell’artista britannica Gillian Wearing degli anni ’90, Signs that Say What You Want Them To Say and Not Signs that Say What Someone Else Wants You To Say. Sostanzialmente Wearing andava in giro per Londra, per strada, e chiedeva alle passanti e ai passanti di scrivere su un cartello un loro messaggio, uno stato d’animo; quindi un lavoro fatto nella contingenza. I messaggi erano tra i più disparati, molto spesso anche abbastanza disperati devo dire, e questo le permetteva di entrare in conversazione con i soggetti attraverso l’immagine e il processo fotografico. Quando ho cominciato a ragionare su cosa rappresentasse per lei entrare in relazione con queste persone nel giro di pochissimi minuti, l’ho trovato straordinario. Ed è straordinario anche che ci arrivi un riflesso di quello che lei ha prodotto lì, oggi, con le sue opere. Noi che siamo all’esterno, molti anni dopo, possiamo ancora relazionarci con queste persone leggendo i loro messaggi, però attraverso una fotografia. Tanto per dire che si sono molti modi possibili per entrare in conversazione e che questo potrebbe essere uno.
Un’altra tematica è quella della rigenerazione delle pratiche, della riattivazione di alcune delle pratiche femministe che sono nate negli anni ’70, come quella dell’autocoscienza, oppure la pratica dell’inconscio che è una pratica femminista prettamente italiana, milanese. Ci sono diverse artiste che hanno deciso di riattivare delle pratiche già esistenti. Una di queste è un’artista americana, Carmen Winant, che ha pubblicato nel 2019 con Printed Matter Notes on Fundamental Joy: ha deciso di riattivare un archivio fotografico prodotto in Ohio negli anni ’80 facendone un libro, ora già introvabile, in cui troviamo una serie di immagini che non ha scattato lei benché sia anche fotografa, ma che sono state prodotte durante una serie di workshop chiamati Ovulars e che raccontano l’esperienza di una comune femminista di donne lesbiche separatiste, che hanno vissuto tra donne per molto tempo – avevano rapporti di amicizia, relazioni e si scattavano foto. È un libro molto denso che racconta le loro storie con un testo che scorre lungo tutto il libro, una sorta di testo-poesia, il pensiero dell’autrice sul lavorare a questo archivio da vicino.
Un’altra artista che vorrei citare e che è stata qui in Libreria per sviluppare un suo lavoro video è Alex Martinis Roe, con cui alcune di noi hanno collaborato a stretto contatto, per esempio Laura Minguzzi qui presente1. Alex Martinis Roe lavora con il video, l’audio e la performance, e qui come potete vedere abbiamo una foto di lei mentre sviluppa una sua performance a Berlino, Encounters: Conversation in Practice, del 2010. Martinis Roe ha fatto un lungo lavoro sulle pratiche del femminismo e sulle genealogie femminili, tra cui quelle della Libreria delle donne, e ha voluto ridare nuova vita, in un certo senso, al lavoro di pratica politica e relazionale che era stato fatto qui, a partire dall’opera A Story of Circolo della rosa del 2014. Quello che lei fa il più delle volte nelle sue performance è far sedere qualcuno con lei, trascorrerci del tempo e registrare queste conversazioni o prendere nota di quello che succede – e quello è l’atto creativo, quella è l’opera. Questo pone un’altra questione, di cui discussi con lei, quella dell’opera dematerializzata e quindi difficilmente vendibile. Si crea un mercato dell’arte delle donne in alcuni casi, o se vogliamo dell’arte femminista, che è molto, molto lontano dalle logiche di mercato tradizionali, e questo ovviamente pone la sfida dell’essere artista nel neoliberismo, nel mondo contemporaneo.
Passo la parola a Donatella per parlare di alcune scelte radicali rispetto allo stare nell’arte.
Donatella: C’è un andirivieni tra la creatività che è indispensabile per vivere ogni giorno e quella che diventa pratica artistica, la soglia è molto labile. Ho sperimentato questo nella mia vita e nella mia pratica artistica. Preferisco parlare di pratiche artistiche più che di arte.
Nelle pratiche artistiche che trovo più significative, in gioco non c’è l’identificazione in un prodotto ma il processo del ricercare, il lavoro artistico come un divenire che sostituisce l’opera chiusa e definita, dove lo scopo è creare degli spostamenti, anche piccoli che aiutano a mettere in circolo energie e pensiero aprendo vie di trasformazione. Le opere esistono in quanto relazioni, nel loro farsi e divenire più che come oggetti. «Il mio lavoro è una sorta di esca, di richiamo per interrogarsi sulla realtà», dice l’artista americana Martha Rosler.
Oggi si riconosce che il femminismo è il movimento del Novecento che ha più influenzato l’arte visiva. Molte artiste hanno reso l’arte uno strumento di azione nelle loro vite, e oggi assistiamo al fiorire di pratiche artistiche come pratiche sociali e relazionali, e pratiche di resistenza.
Ad esempio, sabato 21 settembre a Bologna c’è stata la “Festa delle strade strette”. Un’iniziativa organizzata da un gruppo di giovani di un laboratorio di serigrafia nella zona universitaria, dove abito. Le strade secondarie della zona, “le strade strette”, sono degradate, soprattutto a causa dello spaccio di droga, che le rende insicure. Il progetto partito dal laboratorio, che ha coinvolto anche una legatoria di tesi di laurea e una piccola galleria d’arte, ha fatto leva sul desiderio di relazioni gioiose e di scambio degli abitanti, di tutte le generazioni. In una delle strade è stata allestita una tavolata lunga molti metri, per un pranzo collettivo con il contributo delle e degli abitanti. Sono stati preparati dei laboratori, frequentatissimi, di stampa, di collage, di rilegatura, colori e carte a disposizione dei bambini/e, musica dal vivo. Il desiderio di convivialità, di mettersi in relazione e la vitalità gioiosa che questa festa mi ha comunicato mi ha fatto pensare che i giovani e le giovani che l’avevano preparata avevano creato un vero capolavoro. Dei giovani e delle giovani che lavorano con l’arte avevano trasformato le pratiche relazionali in pratiche artistiche, in azioni creative di politiche di resistenza. Invece di fermarsi alla protesta per la scarsa presenza delle istituzioni in quella zona degradata hanno creato un esempio di convivenza dove far convergere le energie creative e il desiderio di tutti/e. Una vera azione politica dal basso.
Fare arte è mettere a fuoco il tessuto di relazioni che sorreggono la vita e le permettono di continuare. Questo è il tema centrale del lavoro di molte artiste.
Un’artista che ha creato una vera rivoluzione nel modo di vivere la pratica artistica è la statunitense Mierle Laderman Ukeles. Dopo aver avuto un figlio si sente divisa in due, non riesce a conciliare la cura per il figlio e la sua attività artistica finché, per poter sopravvivere a questa angoscia, prende una decisione: se lei è l’artista sarà lei a decidere che cosa è arte. Qui sento risuonare l’«io dico io» del secondo manifesto di Rivolta Femminile. E infatti nel 1969 Ukeles scrive proprio un manifesto, il suo progetto artistico e politico, il Manifesto dell’Arte della Manutenzione, Maintenance Art, in cui dichiara che è arte prendersi cura della vita e delle relazioni, e l’atto concreto di mantenere curato un luogo. Nel manifesto contrappone l’istinto di morte delle avanguardie artistiche all’istinto di vita che si radica nella quotidianità.
Nelle sue performance vuole mettere a fuoco tutto il lavoro quotidiano che sta alle spalle delle opere d’arte (back half of life) e che permette loro di esistere, rovescia il privato nella dimensione pubblica, intreccia arte e vita in un modo del tutto imprevisto. Nel 1974 in un importante museo statunitense (Wadsworth Atheneum di Hartford) crea una performance dove spolvera gli ambienti, pulisce il pavimento e le scale. Lavorerà poi nella sede degli operatori ecologici di New York ideando una serie di performance dove nell’arco di undici mesi stringe la mano a 8500 spazzini dicendo loro «Grazie di mantenere viva New York».
Giorgia: Questo è un esempio assolutamente geniale, anche se la sua opera purtroppo non è molto conosciuta. Vorrei sottolineare la sua scelta di fotografarsi – è interessante che sia attraverso la fotografia che ci arriva oggi questa performance. Anche questo fa parte di un vero e proprio processo in cui la documentazione ha giocato e gioca un ruolo molto importante per le artiste. Ci sarebbe ancora molto da dire, ad ogni modo spero che nel tempo a disposizione siamo riuscite a dare un’idea di cosa il femminismo ha rappresentato e continua a rappresentare per le pratiche artistiche, e di come poi queste possano diventare anche altro, anche pratiche legate al tessuto sociale e politico. E di come il dialogo, manifesto o meno, sia imprescindibile.
- Alex Martinis Roe, Marirì Martinengo, Laura Minguzzi. Una storia dal Circolo della rosa. Libreria delle donne, 2015. ↩︎
Da sempre la guerra mi suscita repulsione e paura. La radice di tale avversione si trova nella mia storia familiare. Da ragazzina ascoltavo i racconti di mio nonno paterno che aveva vissuto la seconda guerra mondiale: osservavo le conseguenze che quell’esperienza aveva avuto nella sua e altrui esistenza; mi pareva che gli effetti “bellici” continuassero a vivere nella genealogia familiare sotto altre forme, imponendo vincoli e generando scelte.
Nonno Biase, padre di mio padre, aveva partecipato alle guerre coloniali di Etiopia ed Eritrea, obbligato dal regime fascista e probabilmente incoraggiato da suo padre, un contadino molto povero con undici figli a carico; fu catturato dalle truppe inglesi e dopo nove anni di prigionia e lavori forzati nelle ferrovie tra Londra e Birmingham, rientrò come reduce nelle campagne del tavoliere delle Puglie, deturpato nel corpo e nell’anima. Sposò mia nonna, giovane vedova, e dalla loro unione nacque mio padre. Lui ricorda che nonno Biase era facile alle sbronze e alla violenza soprattutto nei suoi confronti, un bambino che aveva l’ardire di rinfacciargli, suo malgrado e ingenuamente, la gioia come possibilità di esistenza, e di non obbedirgli quando aveva voglia di giocare a calcio con gli amici invece che andare a pascolare i maiali nell’aia. Alla fine degli anni sessanta, mio padre fece di tutto per evitare la leva obbligatoria: coltivò la sua passione per l’ingegneria meccanica iscrivendosi all’università e quando rimase indietro con gli esami approdò a un impiego pubblico e al matrimonio; dopo che neanche tale sforzo fu sufficiente, decise con mia madre di concepire una creatura: finalmente come padre di famiglia ebbe l’esonero definitivo dal servizio militare. In famiglia, sono ritenuta la figlia del “non servizio militare”, una conseguenza desiderata o un nobile pretesto per ripudiare le armi e le loro dolorose conseguenze. Da adolescente ebbi l’impressione che i racconti di guerra dei nonni e l’analisi storico-politica della Seconda guerra mondiale seguissero due percorsi paralleli nella mia mente generando livelli di conoscenza che faticavano a incontrarsi: spesso era impossibile conciliare in una visione coerente vicende familiari e avvenimenti storici.
Ho un vissuto simile rispetto ai conflitti recenti, nello specifico la guerra tra Russia e Ucraina e l’aggressione israeliana della striscia di Gaza. Ai fatti riportati dall’informazione cosiddetta mainstream, si contrappone la dolorosa verità dei profughi di guerra, che giunti fino a noi, raccontano di perdite umane e case distrutte. L’esperienza della guerra entra nelle strutture di accoglienza dell’associazione per cui lavoro, con il suo carico di angoscia e spaesamento: assume il volto disperato e smarrito di chi è fuggito dalla propria terra con un bagaglio di fortuna o più spesso senza alcun bene necessario. Nelle case di accoglienza abbiamo accolto dapprima due giovani donne fuggite da Nikolaev che parlavano e comprendevano il russo più che l’ucraino e non potevano capacitarsi dell’invasione dei fratelli russi. T. è arrivata a Parma, senza bagaglio, raccolta in strada da una sua connazionale che faceva la spola tra Reggio Emilia e le zone occupate. Si era ritrovata in strada dopo un boato che aveva distrutto la casa vicina. Spesso va in Ucraina perché le sue figlie vivono ancora a Kiev ma della guerra non riesce a parlare, ne piange e basta. Qualche mese fa ci ha detto che suo genero è rimasto gravemente ferito. E poi sono arrivate V. e N., figlia e madre, fuggite da Shevchenkove, un villaggio situato a trenta km dal confine con la Crimea, che come racconta N. è stato conquistato in due giorni. Dopo il 24 febbraio 2022 hanno vissuto in un garage per circa 40 giorni, insieme ad altre persone: V. non riusciva a lasciare la mano di sua madre e non dormiva: è lei che l’ha convinta a fuggire verso la Polonia e poi la Germania, sfidando prima un posto di blocco vicino Odessa, poi un tank russo senza munizioni e infine i missili ucraini “amici” lanciati contro l’offensiva russa. Dopo 10 giorni in una palestra di una città tedesca a loro sconosciuta, V. ha inviato la posizione tramite Google Maps a un amico italiano che ha convinto suo padre ad andare a prenderle per portarle in Italia. Dei profughi palestinesi ho poche notizie da colleghi e colleghe: dove vivo non ce ne sono molti e la loro assenza è la misura di una tragedia umana da cui è quasi impossibile fuggire.
La condivisione dei vissuti delle donne profughe con cui lavoro e sono in relazione, mi rimanda a un prezioso testo di Luisa Muraro. In Maglia o uncinetto, infatti, si dice che parlare è come fare a maglia e che la trama del linguaggio si articola su due direttrici: quella metaforica e quella metonimica. La direttrice metaforica è la sfera dei rapporti in assenza, che seppure necessaria nella produzione del linguaggio, rischia, se usata in eccesso di astrarre troppo e di allontanare le parole dall’esperienza di chi parla. La metonimia è, invece, la figura retorica del linguaggio che consente la combinazione dei segni in presenza, tramite i quali il vissuto può essere messo in parola e dunque a disposizione delle altre e degli altri, del mondo. Arricchisce il sistema simbolico, vi aggiunge significati e amplia l’ordine di realtà. Essa svolge un lavoro che non è indolore e senza conflitto poiché si contrappone alla direttrice metaforica tagliando la sua pretesa di universalità.
Leggendo con questa lente la contraddizione e la distanza tra i racconti delle donne ucraine incontrate e i resoconti della stampa mainstream sul conflitto russo/ucraino, ho realizzato ancor di più, che i vissuti di coloro che soccombono alla guerra non entrano nella narrazione della realtà di ciò che accade: essa è spesso occultante ed è anzi costruita volutamente sulla loro negazione e sulle implicazioni che tale omissione produce nell’opinione pubblica (sui temi connessi a questo punto rimando alle relazioni tenute da Ida Dominijanni e Giulia Siviero nel maggio 2024 al circolo della Rosa di Verona). Dunque creare spazi e luoghi in cui l’esperienza soggettiva dei profughi viene condivisa, può mettere in circolo una ricchezza simbolica di matrice metonimica capace di contrapporsi ad un regime discorsivo violento e pervasivo imposto dai poteri forti per creare consenso verso la guerra e le sue ragioni.
La metonimia che consente di nominare quelle esperienze ha, a mio parere, ulteriori effetti e benefici: un primo effetto è quello di connettere il racconto delle altre all’esperienza soggettiva di ciascuna/o risvegliando la forza simbolica iscritta nelle nostre genealogie e mettendola a disposizione del presente e della sua lettura. Un secondo beneficio è quello di produrre un guadagno di realtà attingibile da tutti e tutte, un di più di esistenza, capace di neutralizzare gli effetti distorsivi e anestetizzanti di una narrazione iper-metaforica del reale in cui si perde l’esperienza singolare e quotidiana del dolore e della perdita. Una risorsa che diviene un antidoto contro l’assuefazione alla guerra e alla normalizzazione della violenza in tutte le sue forme.
I racconti delle profughe accolte nelle case di accoglienza in cui lavoro, hanno risvegliato la memoria storica iscritta nella mia genealogia, l’hanno resa attuale e simbolicamente attiva: non si tratta di confondere le esperienze che hanno riguardato persone e generazioni diverse, ma di estrarne una similitudine, un comune denominatore capace di rafforzare la relazione, la vicinanza, l’empatia nella differenza. Una condivisione di linguaggio e di spazi emotivi/simbolici che tracciano una terra comune e indicano una direzione. Non ho vissuto quello che i miei nonni e le mie amiche ucraine hanno vissuto, ma il loro racconto mi fornisce un orientamento chiaro nella realtà e mi permette di assumere il rifiuto della guerra come postura radicata in una genealogia e un ordine simbolico che riconosco nella storia che incarno, nel pezzetto di umanità che mi porto dentro e che non riguarda solo me. Spesso accade che la condivisione dell’esperienza generi uno spazio prezioso in cui il vissuto e la verità soggettiva che ad esso si accompagna, diviene dono comune, un luogo di autenticità da cui si possono attingere conoscenze e competenze utili a orientarci nel reale. Pertanto creare contesti di condivisione e racconto diviene una strategia politica che mette in circolo risorse simboliche preziose che concorrono a radicarci nella non violenza, non come mera scelta ideologica, ma come postura generata dal riconoscimento reale di una violenza che ci tocca nelle sue variegate forme, e arriva a interpellare la nostra esistenza e il suo significato. È in questo processo di produzione simbolica collettivo di matrice metonimica che si radica, allora, un dissenso che può smembrare i discorsi iper-metaforici, e dare legittimità alla differenza delle esperienze soggettive. È un processo che non solo consente di riconoscere e decostruire i “frame” della guerra impliciti nei discorsi pubblici sulla guerra (Ida Dominijanni citava a riguardo il testo di Judith Butler Frame of war), ma di mettere in campo un guadagno di conoscenze e realtà. Un terreno da cui si può attingere la forza di interrompere il circuito della violenza (il gesto pacifico di cui anche Ida D. parlava nella relazione prima citata) e il coraggio di opporvisi non mediante un atto personale eroico e isolato, ma attraverso un lavoro simbolico comune che restituisce dignità e centralità all’esperienza soggettiva del lutto, della fragilità e della violenza subita aprendo speranze e nuove prospettive di libertà.
Mi interessa riprendere una riflessione di Elisabetta Cibelli sul valore politico della mediazione e sulle conseguenze nefaste della sua mancanza. Vorrei evidenziare le differenze fra le pratiche in atto nel presente. Per quanto mi riguarda la mia preferenza va alla creazione di contesti. Lo scambio in presenza permette di alimentare la fiducia, l’ascolto, mentre viceversa sui social network si incrementano le polarizzazioni, la diffidenza, la rigidità schierata. In questo mondo di identità fittizie e di luoghi fittizi, il mondo reale disturba, è perturbante. Si riproducono fantasmi che si potenziano con grande sfoggio di pubblicità mediatica, come è accaduto nel recente G7 a guida italiana che si è svolto nel nuovo villaggio finto-antico di Borgo Egnazia, non a caso uno scenario artificiale che ben si accorda agli attuali tempi mediatici.
La mediazione è un fine lavoro, una messa al mondo di una parola incarnata e sessuata, un processo generativo. Partecipare alla pubblicazione del libricino Vietato a sinistra su temi controversi nel dibattito femminista, mi ha permesso di riflettere sugli effetti positivi di una pratica in contesto. Il fatto che si sia giocata la fiducia, l’affidarsi a un’altra, il credere possibile, ecco, tale postura ha dato luogo a un circolo virtuoso, alla generazione di altri contesti, di un movimento di scambio fra differenti posizioni su alcuni nodi che scottano, quelli affrontati nel libricino. In presenza di mediazioni e di riconoscimento di autorità, in alcuni incontri abbiamo finito per dialogare a volte anche con quelle o quelli che avevano tentato di far annullare le presentazioni del libro.
Il femminismo è sempre stato un campo di battaglia di idee e pratiche. In questo momento è particolarmente impegnativo esporsi in luoghi pubblici o tessere mediazioni con chi ricorre a strumenti virtualmente offensivi per manifestare il disaccordo. Lo sfondo che può giustificare queste modalità è che tutto ciò accade in un teatro di guerra e di azzeramento quasi totale della parola in favore delle armi. Si scambiano missili invece che parole! Ma le donne hanno sempre parlato. La guerra non è mai riuscita a farci tacere. Più che mai oggi possiamo dire che la libertà femminile è la novità storica, non la guerra. Le guerre ci sono sempre state.
Alla mia nascita, nel dopoguerra, mia madre Eva esclamò: «Una femmina, quanto dovrà soffrire!», mi ha raccontato Drusilla, la levatrice. Invece è stata una «indicibile fortuna», «non è da tutti», ha scritto Luisa Muraro1. Dopo un po’ di anni di femminismo, guidata dalla mia passione per la lingua e la storia, nel corso delle mie ricerche ho trovato in una vecchia busta una cartolina postale di mia madre sedicenne. Il destinatario era un corteggiatore (mio padre) cui lei comunicava che non se la sentiva di accettare le sue proposte di fidanzamento perché troppo giovane e poi soprattutto amava la sua libertà. Mi sono commossa e ho provato un moto di orgoglio. Erano gli anni trenta del secolo scorso. Un germoglio di fierezza e di indipendenza che lei mi ha trasmesso nonostante l’asprezza della sua condizione e del momento storico.
Negli ultimi anni ho provato un sentimento di gioia in nome della libertà femminile quando sembrava avviato con successo un percorso europeo di buone relazioni con l’Ucraina. Marina Santini nella sua introduzione ne parla. Mi sembrava un effetto positivo della contaminazione fra le donne italiane e le migranti ucraine che venivano in Italia per lavorare. Ricordo che all’inizio del terzo millennio si dibatteva pubblicamente, anche con grandi manifestazioni di piazza a Kiev, di un possibile ingresso in Europa del paese, diventato indipendente nel 1991. La famosa rivoluzione arancione, che ho seguito con le amiche femministe di Karkhov e di Kiev, e che in Italia riscosse tanta visibilità e suscitò tante aspettative. Un movimento promettente fino all’insorgenza di una crisi identitaria. Finì quando il governo dell’epoca pose la questione della lingua e approvò una legge che proibiva l’uso della lingua madre nei territori orientali del paese. Una politica linguistica territoriale di dominio come barriera difensiva/aggressiva, simile a un muro simbolico. Un’espropriazione del linguaggio, che imponeva con la forza la funzione istituzionale della lingua a scapito della funzione comunicativa. Uno snaturamento della creatività della lingua materna, che ha accompagnato l’avviarsi alla guerra in corso. Un processo di identificazione della lingua con un territorio. Un uso strumentale che la sostituisce a un territorio o viceversa un territorio che sostituisce una lingua cancellandone la natura simbolica, che è aperta, non selettiva, che non conosce confini territoriali. È a questo punto che la mediazione diventa performance, linguaggio performante, parola truccata che alimenta l’astrazione dai corpi, i fantasmi e i conflitti armati.
Ho trovato molto vicina alla mia esperienza la testimonianza di una giornalista del Guardian, Viv Groskop, che trent’anni fa ha trascorso un anno nell’ex-Unione Sovietica e in Ucraina. In un articolo del 16 giugno scorso2 racconta che, sebbene l’Ucraina fosse indipendente da tre anni, le affermazioni di identità nazionale restavano perlopiù sottotraccia, tranne che per il cibo e le bevande, diventate dopo il 1989 una questione di identità.
«[…] A quel tempo qualsiasi animosità fra i due popoli sembrava essere oscurata e i disaccordi minimizzati. […] C’era un senso di ottimismo, nonostante la “terapia d’urto” per l’economia.
[…] Ero in tournée con la band punk-rock del mio ragazzo, nell’estate del ’94. […] Quell’anno ho imparato a cucinare piatti russi e ucraini, un miscuglio delle ricette preferite dalle cuoche casalinghe di molte ex-repubbliche sovietiche. […] Alcune erano elaborate ricette tramandate in famiglia. […] Insegnavo inglese a studenti adulte e molte delle mie insegnanti ufficiose di cucina furono loro. […] La prima a invitarmi nella sua cucina è stata Oksana, una donna uzbeka [che] voleva mostrarmi la ricetta dei mànty, ravioli, di sua madre. […] Conoscere i mànty e come mangiarli (si morde la parte superiore e si succhia il sugo) mi è stato molto utile a Odessa. […] Tutto questo, ovviamente, prima che il cibo diventasse politico come tutto il resto. In Ucraina la madre del mio ragazzo mi ha insegnato a cucinare i syrniki(pancake) con tvoròg (formaggio fresco) parlandomi in un mix di russo e ucraino, una lingua chiamata sùrzhyk, il nome del pane misto segale. Non ho mai incontrato nessuno che facesse una grande differenza fra il parlare russo o ucraino, a quei tempi: si parlava semplicemente come si parlava. […]».
Per me la caduta del muro di Berlino rappresentò la fine del patriarcato, l’avvento della libertà femminile (e non solo), e così fu anche per le donne oltre la cortina di ferro: il regime per loro aveva perso credito. Furono dieci anni quelli della perestrojka, dal 1991 fino al 2001 con l’elezione di Putin, di fioritura e di sperimentazioni in tutti i campi, nuove riviste nascevano, nuovi giornali indipendenti, nuove TV, traduzioni in russo di tanta letteratura femminile e femminista con pubblicazione di tante scrittrici e scrittori russi prima censurati, mostre d’arte contemporanea di artiste non più ispirate al realismo socialista. Ricordo una raccolta di racconti russi dal titolo Cosa vuole una donna, che io comprai per tradurla in classe con le mie allieve e allievi. Un’esplosione di apertura e di rivisitazione della memoria grazie all’apertura degli archivi. Grandi dibattiti pubblici e sui giornali. Un’abbuffata di “democrazia”, di libertà con le donne protagoniste. Sempre nel 1993 contattai una Biblioteca delle donne, a Mosca, e conobbi due insegnanti che avevano aperto una libreria e una casa editrice, La nuova scuola, per scrivere e diffondere nuovi manuali, ispirati a una pedagogia non monolitica. Furono messe in scena le ragioni di tutti. In quel periodo così fertile io potei finalmente realizzare scambi residenziali con le mie classi dei licei di Milano e le classi di due licei di Pietroburgo. Le amicizie nate fra le scuole milanesi e russe sono state appassionanti, ispirate dal senso di libertà che le motivava oltre che dal desiderio di capire e dal piacere di conoscere una realtà e una storia differente dalla mia, dalla nostra, tutto grazie all’amore per la lingua.
- Luisa Muraro, Non è da tutti. L’indicibile fortuna di nascere donna, Carocci, 2011 ↩︎
- Viv Groskop, Caviale di melanzane, chioski di kebab post-sovietici: cosa mi ha insegnato la cultura gastronomica ucraina trent’anni fa, The Guardian, 16/06/24 ↩︎
Sono diventata una donna che ha un’idea fissa. È una cosa insolita per me personalmente; ho sempre avuto più di un’idea in testa, e nessuna che rifiutasse a priori di esserne sloggiata per far posto ad una migliore. Ed è una cosa penosa, ho scoperto, come trovarsi in prigione. L’idea fissa non solo tende a legare a sé tutte le altre, ma tende essa stessa a concentrarsi in un punto, diventando così di un’intensità che prelude, temo, al mutismo. È come un chiodo che sta inchiodando il cervello ed è anche il martello che picchia sul chiodo: tum tum tum.
Le ho dato un nome, si chiama “Lo splendore di avere un linguaggio”. L’ho trovato in Clarice Lispector, La passione secondo G.H. (si dovrebbe scrivere GH, ma non importa). Nella sua lingua originale il nome è: O esplendor de se ter um linguagem. Il nome è bello; fa pensare all’alba delle persone insonni o malate, alle icone nel buio delle chiese orientali, alle stelle dei viaggiatori di una volta, perduti nel deserto o, peggio, nel mare aperto. In certi momenti della storia, o della vita personale, un linguaggio può fare una luce grande e piena, tolte, pur sempre, le ombre prescritte dall’ottica (la scienza è scienza). Ma la mia presente povertà me lo mostra come una luce non forte e lontana; non per questo meno cara, anzi.
Ho scoperto infatti che il linguaggio può mancare: non relativamente a uno più potente (Lettera a una professoressa del Sessantotto) o più autentico (Le parole per dirlo del femminismo), ma in assoluto. Ho scoperto che ci si può trovare al di qua del linguaggio necessario, e sono arrivata a pensare che oggi ci troviamo, come prova storica, al di qua o al di sotto del linguaggio necessario.
Come mi sia venuta una simile idea, non so, ma ricordo le volte in cui essa mi torna in mente. Una volta fu in seguito ai primi arresti di Tangentopoli. C’era, nella città di Milano, una tristezza delle cose mute che “parlava” al posto nostro, che non sapevamo parlare il linguaggio necessario. I linguaggi che poi si sono imposti, della legge, della televisione, della vendetta, della riorganizzazione politica, hanno significato qualcosa ma non rendono il patimento collettivo causato dalla scoperta di tanto scandalo.
Altro esempio, dopo le bombe del 27 luglio 1993, scoppiate a Roma, nei pressi di due edifici cattolici, e a Milano nei pressi del Padiglione di Arte contemporanea, causando distruzioni e morte. I giorni successivi la stampa riportò i commenti della Lega Nord («è contro di noi»), degli ex-referendari («si vuole fermare il nuovo»), del ministro dei Beni Culturali («è un attentato alla cultura»), del capo del governo («nel mirino, il governo»), di opinionisti cattolici («contro la Chiesa e il suo capo»), e cosi via, tutti aggrappati al protagonismo delle bombe per rincalzare il proprio senza lontanamente riuscirci, troppo scarsa essendo la sorpresa innocente e dolorosa, ma anche il gusto detective, l’ironia, la mobilitazione interiore. Non si erano nemmeno sforzati, era evidente, come scolari che svolgono il tema assegnato sapendo in partenza che risulterà insufficiente. Commentare bombe e morti diventa noioso per chi ha perduto la fiducia nel linguaggio.
È a causa dell’abuso che l’abbiamo perduta, io dico. Le bombe sono venute dopo, quasi di conseguenza. Ed è, perciò, la storia dell’abuso linguistico che occorre ricostruire. Quand’è cominciata? Se risalgo i cinque decenni della mia vita non infante, fra i ricordi più antichi c’è una crociata via radio contro il pericolo comunista. Eravamo da poco usciti dalle sofferenze di una guerra e di un’occupazione militare, una più maledetta dell’altra, eppure quel programma radiofonico ci fece (parlo di me, dei miei genitori e degli altri familiari) un male più grave. La fiducia nel proprio giudizio umano e politico, che l’esito della guerra sembrava poter rinsaldare, andò perduta per la paura di un avversario nuovo e strapotente, non individuato in tempo utile; alla soddisfazione per la liberazione e la pace cui tutti avevamo contribuito, anche i più piccoli, subentrò il fantasma di un futuro ben più gravemente minacciato. E tutto questo arrivava non dall’esterno, con bombe e carri armati, ma attraverso la voce della radio che prima ci aveva aiutato a sperare e a resistere.
Cominciò così ad offuscarsi per me lo splendore del linguaggio, la luce sacra e aurorale delle parole che, insieme alla forza di mia madre e quasi identificata con essa, mi aveva assistito sul bordo delle fosse anticarro, nella fame e nel freddo, nella contemplazione delle macerie, nell’ascolto di fatti inauditi e tragici, i più tragici di tutta la storia umana conosciuta.
Sto cercando di discolparmi? O attribuisco ad un avvenimento qualsiasi qualcosa che doveva comunque succedere? La colpa sarebbe che poi io stessa cominciai a usare il linguaggio e, soprattutto, a pensare che così si debba fare con le parole e a giustificare che altri lo facessero. Non penso a falsificazioni ottenute con trucchi retorici né a menzogne propagandistiche. Penso agli usi normali, quelli giudicati corretti: c’è infatti una misura che il linguaggio dà a noi e non noi al linguaggio – misura materna la chiamo – ed essa è già perduta quando diciamo “usare” il linguaggio. Uso e abuso in questo senso sono collegati fra loro; non c’è, fra l’uno e l’altro, un salto che ci avverta del passaggio. Denunciamo gli abusi senza notare che discendono dagli usi che noi stessi facciamo del linguaggio. Per marcare il passaggio, dove risulta troppo facile e ha conseguenze troppo gravi, oggi si ricorre a codici deontologici di autoregolamentazione. È un espediente importato dai Paesi riformati, che fa leva sulla capacità umana, forse più sviluppata da loro che da noi, di interiorizzare norme. Ma, anche se ben formulato e rispettato, un codice non può prevenire un abuso micidiale per la vita della lingua, che è l’uso stereotipato. Anzi, i codici lo favoriscono.
Non sono la sola, per fortuna, a criticare la funzione oggi attribuita all’etica nei rapporti umani. L’etica aveva già un suo posto nella civiltà occidentale moderna, e piuttosto grande; ora si vuole dilatarlo, secondo me oltre misura, per farle prendere il posto di un ordine simbolico perduto. Infatti, se passiamo dall’uso all’abuso quasi a nostra insaputa, vuol dire che, nel rapporto con la lingua e gli altri linguaggi, la misura era perduta già da prima. “Prima”, quando?
Ritornando alla mia storia personale, ma comune, una grande perdita di competenza simbolica l’ho patita con l’entrata nella scuola dell’obbligo, a causa del disprezzo scolastico del dialetto, che era la mia lingua materna in senso stretto. L’italiano non mi fu insegnato come una lingua strettamente imparentata con quella che già sapevo, ma come fosse una lingua superiore che doveva prenderne il posto. Da due secoli in Italia, e altrove, si discute dei dialetti e delle minoranze linguistiche, senza arrivare a capo di niente. E questo perché, secondo me, la questione non viene messa sulle sue gambe, intendo il primato della lingua materna letteralmente intesa, lingua che la creatura impara venendo al mondo, quasi sempre dalla madre. Non mi riferisco, sia chiaro, al dialetto veneto o lombardo o alla lingua tedesca nel Sudtirolo: anche questi sono nomi convenzionali, sovrapposti alla lingua materna, la cui finezza è tale da registrare differenze fra un paesino e l’altro (fra un quartiere e l’altro di Palermo, mi informa Maria Schiavo) e oltre, radicandoci in definitiva nel luogo unico della relazione materna.
Ma sono passaggi, non barriere. La lingua, di suo, non conosce frontiere, ma solo passaggi, traduzioni. Tra una lingua e l’altra, non ci sono guardie, ma traduttrici e mediatori. Purtroppo le mie maestre di scuola erano preparate a fare le guardie più che le mediatrici fra cultura infantile e cultura scolastica. Non erano preparate alla traduzione di quello che María Zambrano chiama il sentire originario, farlo cioè passare dal luogo della relazione materna ai diversi luoghi di questo mondo. Uso l’imperfetto perché al presente devo mettere il danno di una deportazione culturale attraverso troppe frontiere. Ho letto sullo “Herald Tribune” di un programma formativo rivolto a giovani madri immigrate per convincerle a parlare alle loro creature neonate: non vogliono, perché la loro lingua non è l’inglese, quella utile per il futuro dei figli. Similmente, noi non possiamo ereditare né far ereditare la ricchezza che si trasmette con le parole e gli altri linguaggi. Dal patrimonio ci separa non la geografia né un’invasione di barbari, ma la mancanza del linguaggio necessario. Chi insegna storia conosce la fatica spesso inutile di far imparare la storia: le persone giovani sembrano capaci di assimilare unicamente le conoscenze che si producono nel loro presente. Vi sono musei che, per non restare deserti, si sono organizzati come saloni di video-games. A questo imprigionamento nel presente (o nel futuro?), risponde la comparsa, fra le persone più giovani, di forti vocazioni storiografiche: oggi si parte per il passato come in altri tempi si andava in Africa o in Cina.
Un viaggio di altro tipo, verso le risorse della lingua materna, suggerisce Giovanni Ferrari in un libriccino sorridente e geniale, Homo scientus (Muzzio, Padova 1993). L’autore, uomo di scienza, si interroga, preoccupato, su ciò che avviene nel suo mondo. C’è un morbo pestifero, egli dice, che ha colpito la ricerca scientifica, la “peste del linguaggio”. In che cosa consiste? «La semiotica della peste del linguaggio è riferibile principalmente alla perdita di potere della parola», perdita che riguarda la parola «come elemento strutturale delle costruzioni linguistiche, capaci di realizzare non solo la collezione di informazioni, ma anche una rete di fatti e concetti connessi mediante implicazioni teoriche, confronti dialettici e riferimenti incrociati, le cui interpretazioni possono essere espresse correttamente solo con parole appropriate, capaci di costruire un linguaggio non approssimativo». La perdita in questione si manifesta specialmente nell’assenza di emozioni dalla comunicazione scientifica, con il risultato che questa non è più capace di comunicare: «Due sono gli elementi emotivi che non possono mancare nel discorso scientifico: curiosità e meraviglia», e risultano invece tristemente mancanti. Alla patologia del linguaggio contribuisce il passaggio obbligato attraverso l’inglese: «Espressioni generiche e stereotipate imperversano nei lavori pubblicati in lingua inglese, ma hanno ormai preso possesso dei testi italiani mediante traduzioni che soffocano qualsiasi conato di originalità». L’inglese, naturalmente, non è una causa del male, e in generale l’autore ci invita a non cercare cause, quanto a riconoscere la malattia. E poi, che fare? Seguiamo l’esempio del Decamerone, è la sua risposta, e facciamo il Decamerone della scienza, ossia un ideale congresso scientifico cui partecipano donne e uomini capaci di raccontare la scienza. Dovrebbe essere organizzato in tre livelli, spiega Ferrari. E nella sequenza dei tre livelli che io vedo abbozzato il viaggio di ritorno verso le risorse della lingua materna. Il primo, fatto di comunicazione elettronica in linguaggio specialistico e in lingua inglese, senza uso di carta stampata, è la comunicazione di ricerche e risultati tra specialisti. Il secondo riunisce fisicamente e liberamente, fuori da calcoli di potere, un pubblico di studiosi, non solo specialisti, che ascolta racconti di ricerche, fatti in lingua nazionale, ravvivati da letture, senza escludere «il contributo dell’inconscio». Il terzo livello coinvolge il grande pubblico, con la divulgazione delle nuove conoscenze.
Al terzo livello, prima della divulgazione, io metterei l’insegnamento, sia scolastico sia universitario, scritto e orale.
Mi ha colpito la parola d’ordine che gli/le studenti si sono dati l’autunno scorso, “Jurassic School”; mi pare il sintomo di un’afasia tecnologica, non smentita dai servizi giornalistici né dalle testimonianze di insegnanti di scuola: «non dicono perché occupano, non hanno niente contro la scuola, dicono solo che vogliono ritrovarsi fra loro». Testimonianze a loro volta afasiche; esattamente come i paper scientifici, anche i rapporti degli adulti con le persone giovani sono o sembrano privi di emozioni. Le emozioni ci sono, ma non arrivano alla comunicazione. Sto pensando al volto di una studentessa che, dal primo giorno di lezione, mi guardava con una concentrazione sempre uguale, senza rapporto apparente con le mie prestazioni, finché, durante un ripasso notturno della giornata, ho capito che quello era lo sguardo delle creaturine davanti al televisore acceso. Nello specchio muto e immobile di quello sguardo, ho potuto misurare la mia perdita. Mia, nostra. In filosofia, da un secolo, non facciamo che ragionare del linguaggio; nello sguardo della studentessa io, come una balena arenata, ho trovato la terra ferma di un sicuro fallimento. Quando qualcuno mi dice: ma hai provato a leggere l’ultimo Habermas, per dirne uno, rispondo come negli slogan: no, grazie. Credo nel lavoro intellettuale, è la mia professione, e apprezzo la tenacia di quel vecchio pensatore, ma ci sono scacchi che domandano di essere registrati.
Un giorno ho trovato le studenti del mio corso fuori dall’aula: c’è dentro una lezione, mi dicono. Non era esattamente così; c’era dentro un personaggio di cui non ho potuto stabilire l’identità, che parlava con cinque o sei studenti, ma sarebbe più esatto dire che li faceva parlare. Un venditore di computer? un assicuratore? un rappresentante di Dio?
La questione è che, rovesciando il punto di vista, non avrei saputo stabilire, sebbene portasse il mio nome e fossi proprio io, chi era e che cosa faceva lì la donna che si affacciò alla porta per invitare il personaggio ad uscire con la sua piccola corte, dicendogli che a quell’ora in quell’aula “c’era lezione”. In effetti, mi muovo nell’università da anni senza essere arrivata a costituirmi, non dico un’identità, ma un’immagine di me per me, dotata di coerenza, e senza riuscire ad orientarmi, se non mi tenessi attaccata a un’aula e a un orario; non bastano infatti i rapporti buoni e la passione di cercare e insegnare, che pure è grande. Faccio spesso un sogno: sono in viaggio, distante, e improvvisamente, con angoscia, mi rendo conto che dovrei andare a scuola, a insegnare, ma ho dimenticato le date, i luoghi, gli orari. In passato mi sono sforzata di pensare che doveva trattarsi di un mio male, come una forma di disadattamento accademico. Dopo di che ho dovuto capire che non c’è un mondo al quale io non saprei adattarmi, perché senza linguaggio non c’è mondo. E ho capito che il male di cui soffro è comune; tutti lo mascheriamo in qualche modo, come una famiglia dove tutti soffrono dello stesso disturbo ma si finge, tacitamente, di essere normali.
C’è nella vita dell’università, e altrove, forse ovunque, una frammentazione e una casualità di accostamenti così estese che le persone, le cose, i nomi, i discorsi non arrivano mai a formare un contesto sensato e duraturo. Come descrivere la natura di questa perdizione? Essa si manifesta nel disordine notorio dell’istituzione accademica: c’è incoerenza e casualità nei soldi, nelle gerarchie, nelle carriere, nella divisione del lavoro, nelle discipline, negli ordinamenti, e via, via. Ma la cosa di cui parla, il morbo di cui soffriamo, non si identifica con i problemi della giustizia, della buona amministrazione o dell’efficienza. È un disordine più elementare, ed è sbagliato, secondo me, ritenerlo esclusivo dell’università. Ascoltando le operaie di un’azienda grande e moderna, ho riconosciuto la stessa cosa insensata che sta avanzando anche in quella diversa realtà. Dicevano: non si capisce più niente, a furia di voler organizzare tutto, è tutto disorganizzato, c’è uno spreco che non riusciamo a impedire, non riusciamo a lavorare bene, ma nessuno ci ascolta. La perdita dell’ascolto, ecco il sintomo, perché infatti, nel linguaggio, prima della parola viene l’ascolto. Pare che cominciamo ad ascoltare ancor prima di venire al mondo; certo, l’ascolto è la pratica simbolica di chi ha il senso dell’autorità della parola. Anche questo è un punto di rispondenza con l’autore di Homo scientus che segnala la sordità che domina nella società scientifica: per il troppo peso che si dà ai rapporti di potere, io suggerisco. Ho notato infatti che chi si concentra sulla questione del potere, si regola benissimo in base a certi segnali e diventa sordo al significato delle parole. Ma la sordità sembra estendersi, sta diventando sordità reciproca fra persone di poco o nessun potere, sui tram, in mensa, fra vicini, fra studenti, fra colleghi.
Un impiegato della mia università, coraggiosamente, ha fatto girare una lettera documento intitolata Contro l’ingiustizia un atto di giustizia. Comincia denunciando che «alcuni alti dirigenti dell’Università usufruiranno di benefici economici arretrati di un centinaio di milioni, in quanto è stato loro riconosciuto il ruolo di dirigenti ab ovo». Questo fatto, dice la lettera, «ha suscitato tra il personale sentimenti che vanno dal disgusto alla rabbia, soprattutto in considerazione delle disuguaglianze economiche esistenti e dei sacrifici che lo Stato ci obbliga a sostenere in nome dell’emergenza economica». Finisce invitando a firmare il documento e a «devolvere l’equivalente di un’ora del proprio stipendio a favore dei disoccupati o per qualche analoga iniziativa di solidarietà». L’autore non intende denunciare illegalità; al contrario, egli sottolinea che le cose da lui denunciate sono legali, ma proprio questo è «l’aspetto più sconvolgente». Come dargli torto? Segue tutto un elenco di sconvolgimenti della giustizia ad opera della legge, un paio dei quali, suppongo, riguarda anche me: «ci sono leggi che consentono ai docenti universitari di avere un orario ridicolo e senza controlli, di insegnare in una sede pur vivendo a centinaia di chilometri di distanza». Dico “suppongo”, perché, a parte i non so quanti chilometri che separano Milano da Verona senza separare il mio vivere dal mio lavorare, c’è la questione di quell’“orario ridicolo”, forse inteso come orario d’insegnamento, e non di lavoro. Ma il “senza controlli” non mi lascia scampo. È dalla prima, elementare che gioco d’astuzia per riuscire a lavorare senza controlli: l’amante del lavoro, esattamente come l’amante-amante, odia i controlli.
Chi ha risposto alla lettera documento di quell’uomo?, mi sono chiesta. Forse nessuno, io gli rispondo qui e mi tengo la sua lettera come documento del vicolo cieco in cui è finita la ricerca di giustizia. Forse la sua sorte sarà di approdare, per una sera, in uno di quei programmi televisivi che confezionano e servono al pubblico la sua voce inascoltata.
La televisione, di nuovo. Come la lingua inglese, neanche la televisione è una causa. Ma in essa, più che in altre situazioni, risalta la mancanza del linguaggio necessario. A differenza di altre situazioni, infatti, la televisione appare schiacciata fra la potenza del mezzo tecnologico e la pochezza della parola che esprime. In realtà, è capitato che una straordinaria esplosione di potenza tecnica nelle comunicazioni umane, sia caduta in un’epoca di mancanza di parola. Quando guardo Mike Buongiorno nella Ruota della fortuna o Donatella Raffai in Chi l’ha visto?, non posso non ammirare la continuità delle loro prestazioni, segno di, come chiamarlo? rigore professionale? docilità? con cui fanno la loro parte, non una parte, ma la Parte umana di un mezzo strapotente. Al paragone, di Buongiorno e della Raffai, io credo che noi, nella situazione che si chiama insegnamento e ricerca, stiamo facendo piuttosto male la nostra parte. Abbiamo privilegi che non ci è difficile difendere grazie ad altri privilegi, ma, alla lunga, niente ci difenderà dalla pochezza della nostra comunicazione. Di che cosa parlano i professori universitari quando si parlano? Non di studenti né di studi né di ricerca, non di amori, progetti o sogni, non di lotte, non di passioni, non di piaceri. Ma di concorsi, quasi unicamente. La conversazione fra accademici è noiosissima; al confronto, i minatori sardi sembrano il nipote di Rameau. Sappiamo parlare come chi non è misurato dalle necessità del vivere né dall’urgenza delle altrui aspettative. Cioè meno bene di un venditore di computer o di un rappresentante di Dio, per non fare paragoni sleali con chi offre droga e conduce programmi televisivi.
Sono così tornata sulla porta dell’aula alla quale un certo giorno mi affacciai per dire ad uno sconosciuto intrattenitore di studenti che doveva uscire perché, a quell’ora in quell’aula, c’era “lezione”. Ma non è di un copione migliore che siamo alla ricerca. Serve una cosa ben più semplice e difficile, addirittura un linguaggio, cosa che nessuno può darsi da sé né imporre ad altri, ma solo trovare e praticare. Perciò non possiamo che partire da quello che c’è e dal suo nome, se per avventura lo ha. E infatti un nome, per nostra fortuna, c’è. Sulla porta dell’aula c’è una donna: non una vergine, non una sposa, non una madre, ma semplicemente una donna. Ricalco, come qualcuno avrà riconosciuto, Maestro Eckhart, Sermo 2, cioè un testo allegorico esposto ad essere malinteso per più versi, fra cui quello della sua significanza storica. Un testo allegorico, voglio dire, non è mai solo allegorico; l’allegorismo ruota sempre intorno al perno di una letteralità. Che va scoperta, di volta in volta, poiché la letteralità è una faccenda di contesto. Una donna, non un professore, una disciplina, un esame, una scuola. Io, personalmente, potrei provare a identificarmi con queste categorie, ma di me resterebbe senza nome quello che esse lasciano fuori come un loro di meno e un loro di più, il genere femminile, significante di una dignità umana in forse e di una libertà minacciata, da cui la Costituzione dice che si deve prescindere: “senza distinzione dl sesso”.
Solo diventando donna l’essere umano esce dalla sua sterile verginità, disse il Maestro citato sopra. Invece, il mio caro maestro Bontadini mi diceva ogni tanto: «Luisa, perché vai con le femministe? che problemi ci sono? Ricordati che tu sei homo», finché un giorno gli diedi questa risposta «Prof, dalla filosofia di questo secolo abbiamo imparato che l’essere parla la lingua di un essere situato nello spaziotempo; io sto imparando e ti insegno che parla la lingua di un essere corpo vivente sessuato: donna, uomo». La risposta fu giudicata soddisfacente.
Ma che cosa dice? Che cosa vuol dire, per esempio, che io sono una donna? Niente di niente, se non che prendo su di me la mediazione di tutto quello che è a cominciare dal mio essere corpo. Differenza sessuale: significanza dell’essere a cominciare dall’essere corpo. Avere un nome per questo niente di niente, vuoi dire mettersi nella condizione d’imparare a fare in prima persona il lavoro del linguaggio senza il quale il senso delle cose è perduto. Mediazione vivente io chiamo questo lavoro di mettersi in carne ed ossa sul filo dei linguaggi e imparare a tenerci in equilibrio il mondo. Una volta l’esempio lo davano i poeti e le poete: Emily Dickinson è la mia preferita, ma anche Ezra Pound e Leopardi. Adesso, l’esempio lo danno le sportive e gli sportivi, giovanissimi, che gareggiano in corse mortali per farci gustare le condizioni di un vivere significativo. Non sono in gara fra loro, ma con la nostra crescente povertà simbolica. Dopo la morte sulla neve di Ulrike Maier, «troppo rischio, troppa velocità» ha commentato il padre di un ragazzo morto in circostanze simili. Che cos’è lo sport? «Un male necessario» ha risposto lo stesso; dunque, quelli che si usa chiamare incidenti, sono sacrifici umani di un tipo nuovo?
Ho contribuito a far bocciare una proposta di “Women’s Studies” nell’università in cui lavoro. Non vorrei che il mio passato fosse servito a impacchettare il senso della differenza femminile dando vita a un altro copione di vita accademica. Ma, ancor più, non voglio essere defraudata del mio compito umano. Ho bisogno di un nome, come un funambulo del suo bilanciere, e ho bisogno proprio di quel nome. Essere donna è per l’essere umano il problema di una dualità che non gli dà pace, ed è la risposta a questo problema. Essere donna è la necessità esistenziale della mediazione. All’altezza del linguaggio necessario – questo chiamo il compito umano, in generale – io so che arriverò, senza escludere per altri altre strade, con la pratica della mediazione vivente, impegnandomi cioè nel lavoro del linguaggio come una sua parte. Non sono sciatrice, non sono poeta ma sono donna, e la differenza sessuale è una forma di vita fra le più drammaticamente presenti nella storia umana, la cui significanza forse è troppo materiale per essere contenuta nei libri di storia e nei libri in genere. Certo, dai libri non l’ho imparata e non credo che si possa imparare, ma dal vivo. Infatti, nonostante i libri che avevo letto e perfino scritto in proposito, io non la conoscevo prima di arrivare sulla soglia che doveva farmi passare (o, meglio, ripassare, nel viaggio di ritorno verso lo splendore aurorale della lingua materna) dalle mediazioni codificate all’inermia della discesa libera.
Il senso delle cose, quali che siano, le più grandi e le più piccole, si trova e si perde storicamente. Che non vuol dire convenzionalmente. Ne cerchiamo le tracce, di preferenza, dove le parole ci mancano e le spiegazioni non arrivano. Su quel bordo io vedo che la differenza sessuale fa luce: è come uno sguardo voltato verso le tenebre culturali di un essere corpo opaco a se stesso, corpo pesante nella storia umana con l’animalità della vita collettiva e con la bestialità del potere.
«Non c’è speranza» ha detto un giornalista di ritorno dal teatro della guerra in corso vicino a noi. È così? e allora lasciamoci cadere; facciamo di queste parole la nostra linea di condotta. Non scelta da noi, naturalmente, come potremmo?, ma impostaci dalle cose. Si può vivere senza speranza una vita non disperata: nata con la guerra, io sopportavo le sue sofferenze e contemplavo i suoi teatri tranquillamente persuasa che facessero parte della vita. (Non mi sbagliavo di molto, ora mi rendo conto.) Non c’è speranza nei sempre più numerosi teatri dell’impotenza della ragione e della buona volontà, fra i quali io metto anche l’università, per quello di cui ho potuto rendermi conto di anno in anno, di tentativo in tentativo. Me ne sono convinta dopo aver visto buone leggi non usate da chi avrebbe avuto interesse personale ad usarle, in obbedienza a un “ordine” simbolico svantaggioso e illegale. In ciò mi trovo d’accordo con l’autore dell’Università dei tre tradimenti, Raffaele Simone, purché andiamo fino in fondo, dove c’è, ho scoperto, un punto di partenza. Avere speranza è volere qualcosa di meglio di quello che c’è; il desiderio di chi spera ha bisogno di pensare che non vi sia limite al meglio. Chi dispera, ne dubita; chi ha lasciato ogni speranza, pensa, più radicalmente, che non vi sia limite al peggio. Smessa così ogni speranza, egli (o ella) si accorge che c’è qualcosa e che questo qualcosa è enormemente più di quello che aveva diritto di attendersi: su questo sorprendente di più il suo desiderio prende lo slancio. Dovremmo trovare una parola per questo rimbalzo del desiderio sulla perdita definitiva della speranza. A pensarci bene, la disperazione appartiene a quelli che continuano a sperare e pretendono, per agire, condizioni che non ci sono.
A questo punto, si pone la questione della politica. Che cosa significa o aggiunge l’impegno politico rispetto a un desiderio che non ha bisogno di speranze per alimentarsi, a un agire in rispondenza con la mediazione primaria, quella della lingua viva? Credo che la risposta sia: niente. All’efficacia di un desiderio senza illusioni e alla potenza mediatrice della lingua materna, la politica non aggiunge niente, non serve. Ma un altro legame si è annodato perché, a questo punto, siamo noi che serviamo alla politica, se abbiamo quel desiderio e quella potenza. Per spiegare come, racconterò la storia, ascoltata a Lugano (Svizzera), di una maestra di lì che amava molto la lingua italiana e perciò anche l’Italia, per cui quando da noi trionfò il nazionalismo fascista, lei si sentì in certo modo fascista e lo proclamò ai quattro venti e a causa di ciò fu processata e passò in prigione parecchi anni. Nelle democrazie moderne, normalmente, non si va in prigione per le proprie idee; siamo però d’accordo che il fascismo avanzante non si poteva considerare un “normalmente”. Ma come non rimarcare la sproporzione fra la severità verso la maestra di Lugano e i mille cedimenti dei potenti che aprirono la strada al Duce e a Hitler? La saggezza popolare risponderebbe: “volano gli stracci”; io penso invece che qui si tratta della sistematica strumentalità di una comunicazione basata sui contenuti dichiarati. La comunicazione fine, di chi ha il senso della mediazione vivente, non stenterebbe a riconoscere il loro nome: i contenuti dichiarati sono etichette e fantasmi. Il nome vero delle cose è tutt’altra cosa. Ma come impararlo? come acquistare il senso della necessaria mediazione e la capacità della comunicazione fine? Come diventare intelligenti?
Io rispondo: con l’inermia della discesa libera, con la mediazione immediata, praticata in prima persona, anzi dal prima della prima persona, che non ha bisogno di rappresentazioni ma di mediazione attiva per sapere il suo desiderio, e commisurare quello che c’è con quello che manca al suo realizzarsi. Utopia? ma no: l’agire politico creativo, così ha origine; il resto, è l’operare meccanico di potenze impersonali, i cui effetti ad alcuni piace rivestire di nomi propri, come si faceva negli atlanti del Seicento: lago Alberto, isola San Salvador, etichette e fantasmi di una geografia non meno stupida dell’Europa antifascista.
Per i nomi, forse, vale lo stesso che per le speranze: se ci rinunci fino in fondo, c’è un rilancio di sapere e di desiderio. Ma per arrivare a questa mutezza, che grande sforzo di voce, come dice Clarice Lispector: «Ah, mas para se chegar àmudez, que grande esforço da voz». Infatti, è un avanzare sempre più contrastato, fra la dolcezza crescente di un sapere non fissato a contenuti e libero da fantasmi, e la precisione estrema dei suoi comandi. Se non si trova la misura esatta, è il mutismo o il bla-bla, sintomi entrambi di ciò che abbiamo mancato. Che è il perfetto silenzio su cui s’impernia l’operare simbolico. Che grande sforzo di voce per arrivare al linguaggio che significa quello che è, dal suo interno. La mediazione attiva (la Marta di Maestro Eckhart, per intenderci con sufficiente precisione) non produce rappresentazioni di ciò che è: non ne ha tempo né modo né bisogno.
Rinunciare alla esteriorità delle rappresentazioni, è condizione della mediazione vivente; da questa, a sua volta, dipende, secondo me, un uso misurato delle mediazioni codificate. Ma possiamo rinunciarvi? Possiamo rinunciare alle speranze, ai nomi propri, alle etichette e ai fantasmi? Non so. Mi viene in mente che era la scommessa dei primi pensatori della rivoluzione copernicana: disancorarsi dalla fissità della rappresentazione per lasciarsi precipitare nell’infinità celeste. Forse, a ciò allude la sindrome storica delle persone giovani: non abbiamo perduto qualcosa di troppo importante perché valga la pena di mantenere una memoria storica?
Luisa Muraro, Lo splendore di avere un linguaggio, in “aut aut”, 260-261, 1994, pp. 27-37.
Esiste un legame molto stretto fra le parole e la politica, nessuno lo ignora. Per cominciare, «politica» è una parola. In politica, inoltre, si fa grande uso di parole. Pensiamo al parlamento. C’è di più, pensiamo a una frase come «prendere la parola». Mi soffermo su questa. Tra le figure che sì possono usare per far intendere il significato della politica, presa di parola è sicuramente una delle più precise. Le è rispondente, infatti, in senso sia metaforico sia metonimico. Per quest’ultimo aspetto, basta dire che non c’è politica, praticamente, senza un uso determinato della parola, che viene presa, data, tolta, negata ecc. Quanto alla metafora, essa nasce dall’interazione semantica del prendere e del parlare, la cui ricchezza sarebbe troppo lungo illustrare. Pensiamo soltanto al contrasto tra il verbo, materiale e possessivo, e il suo oggetto, fluido, mutevole, inafferrabile. Dalla considerazione congiunta delle combinazioni metonimiche e del significato metaforico, prende luce quello che avviene nel passaggio alla politica, quando cioè si passa da una convivenza regolata da altri, non si sa bene con quali criteri e spesso neanche esattamente da chi o da cosa, a un’esistenza consapevole e libera, che si cerca di rendere praticabile parlando e decidendo insieme alle persone interessate.
Mi viene in mente una lontana lettura, le bellissime lettere del conte (all’epoca si chiamava ancora così) Giacomo Leopardi all’amico Pietro Giordani, lettere con le quali il giovane poeta, costretto in tempi e luoghi senza luce, si apre alla possibilità di un’esistenza libera e grande. Penso, più vicino a noi, a quello che è capitato nel novembre del 1967, quando gli studenti della facoltà serale di Economia e commercio dell’Università Cattolica di Milano si ribellarono a un aumento di tasse e provocarono una rivolta che ci portò, noi dei corsi normali e loro, a occupare la sede principale dell’Università. Ricordo il gran parlare che si fece, prima davanti ai portoni di Largo Gemelli e poi, agli inizi dell’occupazione, nell’assemblea in aula magna (si potrebbe obiettare che un’occupazione non è una nuova forma di convivenza, bensì un atto aggressivo, quasi un inizio di guerra. Per finire, sì, è stato questo, essendo mancata una risposta interlocutoria dell’altra parte, che poteva giungere e, posso assicurarlo, avrebbe corrisposto felicemente alle nostre intenzioni, almeno agli inizi; fu soprattutto per mancanza di quell’interlocuzione che il nostro prendere la parola diventò un prendere la cosa).
Pochi anni dopo, l’esperienza della presa di parola come esperienza politica sorgiva tornerà nella mia storia e in quella di tante altre con la pratica dei gruppi di autocoscienza che ha segnato la nascita del movimento femminista. I tre esempi sono molti diversi fra loro e fanno così risaltare il proprio del passaggio alla politica, che è operare (o progettare di operare, come nel caso del Leopardi, che insiste con Giordani sulla progettata fuga da Recanati) una rottura nell’ordine simbolico, che modifica il rapporto fra le parole e le cose. Senza parole non c’è politica. I gesti estremi di chi fugge – nei molti sensi che questa parola può prendere – senza dire niente, non è ancora politica, e non lo è neanche l’esercizio di un potere che non ha bisogno di parole.
La figura del prendere la parola si riferisce specialmente all’atto inaugurale della politica e non abbraccia il possibile risultato, ossia una modificazione significativa nelle forme della convivenza. Sappiamo, d’altronde, che questo risultato non sempre si dà. E che si può parlare di politica anche in assenza di quest’esito. Il risultato conta, ma di più conta come lo raggiungiamo, tanto che Simone Weil ha potuto scrivere che sono i mezzi a giustificare il fine e non viceversa. Questo un punto importante, non nuovo ma sempre da richiamare, e cioè che la lotta per un’esistenza più consapevole e libera, e per una convivenza che non sia tutta in balia di potenze superiori ed estranee, dal padre padrone alla polizia segreta fino al cosiddetto libero mercato, questa lotta significa, per se stessa, che c’è libertà. C’è come movente della stessa lotta politica, come altri hanno già ricordato. Ma non solo: c’è anche come libertà in atto, per un paradosso il cui significato troppo spesso si misconosce (e perciò si perde) nella tensione verso un obiettivo posto davanti, che ci fa voltare le spalle all’essenziale e ci fa dimenticare che l’essenziale si era presentato qui e ora, sia pure in forme enigmatiche che bisogna saper leggere.
Il problema è che la presa di parola, come tutto ciò che è del rapporto fra la parola e la politica, non fa luce sufficiente sul paradosso e tende, anzi, a ignorarlo. Tant’è che restiamo moralmente disgustati, sì, ma senza argomenti politici, davanti all’uso strumentale della parola nella vita politica – anche questa una presa di parola – e davanti alla degradazione che colpisce l’una e l’altra. La tecnologia della televisione, d’altra parte, ha moltiplicato enormemente il potere di penetrazione della parola servile. Le parole non insorgono perché esse, per loro natura, si prestano a tutto e possono significare il falso o l’ingiusto con la stessa forza del bello e del giusto. Ci si allontana dalla politica per la convinzione che non ci sia nulla da fare, invece di allontanarsi, insieme alla politica, dai comportamenti che la degradano. Si sta diffondendo una sorda disperazione che è più appariscente dove si patiscono gli effetti di una sconfitta sociale, ma che non dipende tanto da quest’ultima quanto dal sentimento che il massimo cui possiamo aspirare è troppo poco – o qualcosa del genere.
Tuttavia, io sostengo che, se si attribuisce a qualcuno o a qualcosa, dittatore o mercato, padre o padrone, o servo di padrone, il potere di fare tutto quello che vuole con le parole si sbaglia. Niente e nessuno ha veramente tanto potere simbolico. Il disgusto per la politica per quanto motivato, non è giustificato se solo ricordiamo la potenza che è e rimane nostra in quanto siamo «animali parlanti» e come tali capaci di politica e di libertà. Ma, per rendercene conto dobbiamo spostare la nostra attenzione e prendere in considerazione non la parola ma la lingua e, precisamente, la politicità della lingua. Chi ha letto Leopardi scrittore conosce la sua insistenza proprio su questo tema, che torna anche nelle lettere a Giordani.
Devo fermarmi sull’opposizione parola/lingua, che riprendo dal Corso di linguistica generale di de Saussure, tenendo conto dei principali commenti che ha ricevuto, dalla Scuola di Ginevra fino a Tullio De Mauro, che ci invitano a leggerla nel senso di una polarità – e non di una dualità – nel campo dei fatti linguistici. Una polarità, aggiungo, che non ha soltanto un valore per la teoria, ma che ci aiuta a capire la nostra stessa esperienza linguistica – si può infatti parlare di una vera e propria esperienza linguistica, secondo me.
La scoperta saussuriana della langue ha fatto risaltare che il significato delle parole dipende né dai parlanti singolarmente presi né dal popolo come entità collettiva, ma dagli innumerevoli scambi di parola fra parlanti: la lingua è il medium e, al tempo stesso il risultato di questi scambi, la lingua, paragonabile a un codice, è necessaria ai parlanti per comunicare fra loro, ma la lingua fa ben di più, perché i loro scambi, che le sono ovviamente necessari per essere una lingua viva, essa li registra e li avvalora, trasgressioni comprese. La lingua è in questo senso un’istituzione (la parola risale a de Saussure), ed è l’istituzione più democratica che ci sia, perché il suo ordine non esclude, non inferiorizza, non discrimina, coinvolge tutti in prima persona, non impone deleghe né rappresentanza, non censura né penalizza. Parlare di «codice» e di «istituzione», per la lingua, è un aiuto mentale per pensare la sua autorità e il suo funzionamento, ma si tratta in fondo di semplici approssimazioni, perché, in realtà, non c’è codice che sia disposto a riordinarsi secondo le esigenze degli utenti, quali che siano, anche quella di trasgredirlo, e non c’è istituzione che rinunci a esistere fuori dal riconoscimento che riceve. La lingua invece lo fa, glielo consente la sua connaturata potenza mediatrice.
La politicità della lingua consiste nel suo essere costantemente fatta e rifatta da ciò che essa stessa rende possibile, che è il vasto, incessante flusso degli scambi fra parlanti, tradizionalmente paragonato alla circolazione sanguigna o a quella del denaro, in una sorta di inesausta, mai definitiva ma non vana, contrattazione perché il nostro essere al mondo abbia un senso comunicabile e condivisibile con altri.
Spostare il punto di vista dalla parola alla lingua equivale a privilegiare la competenza rispetto alla prestazione, la performance. La competenza simbolica appartiene di diritto non ai letterati o agli eruditi, ma ai parlanti nativi. Con ciò, io non sono interamente d’accordo che s’insegni la lingua materna senza insegnare la grammatica e la sintassi, anzi, purché si insegnino riscattate da ogni normatività antipoetica: c’è infatti una «poesia della grammatica» come la chiama Roman Jakobson, e c’è una musica che si scrive con la sintassi. Che cosa significa insegnare italiano a un ragazzo, a una ragazza, se non far loro provare e praticare il passaggio dalla mutezza di un vissuto ancora verde alla costruzione di un mondo intersoggettivo? E poi, mostrare loro come la lingua sia genialmente attrezzata per rispondere ai loro bisogni simbolici, e non solo; come anche sia disposta a tener conto dei loro apporti idiomatici e a valorizzarli. Questa risposta di avvaloramento, agli inizi della vita viene da chi insegna a parlare, che di fatto spesso è la madre. In seguito, può venire direttamente dalla lingua, purché sappiamo sollecitarla. Come? Usandola e imparando a usarla meglio ancora, così come D.W. Winnicott ha parlato di usare lo psicanalista e Clarice Lispector, Dio, in La passione secondo GH – parlo di un saper usare la lingua, e non semplicemente le parole, parlo cioè della scoperta e del godimento del valore d’uso dietro e oltre il valore di scambio.
Ecco che a questo livello, nella prospettiva aperta dall’attenzione per la lingua, la prestazione verbale riprende credito come possibilità di un agire simbolico che è avvalorato dalla lingua, e del quale nessuno può appropriarsi contro o sopra gli altri. E cominciamo a poter pensare a una politica che, pur nella tensione verso il cambiamento, non volta le spalle al nuovo che si è fatto presente qui e ora fra noi che ci parliamo, con la lingua che ci parliamo.
Per uscire dalla vaghezza di questo nuovo che si fa presente con la lingua, devo aggiungere qualcosa. Fin qui si è trattato di scambi fra le/i parlanti e ho detto che la lingua li rende possibili. La lingua rende possibile anche un altro tipo di scambi, scambi o negoziati, quelli che passano tra ciò che siamo-viviamo e ciò che (ne) diciamo. Vorrei essere più precisa. Mi aiuterò con un punto di dottrina della linguistica, punto antico ma sempre un po’ bisognoso di essere ricordato, riguardante la natura peculiare del segno linguistico.
Ci sono segni che agiscono evocando nella nostra mente qualcosa di esterno a essi, così come un cibo mi ricorda l’infanzia o il rosso del semaforo mi comanda di non attraversare. I segni della lingua non agiscono in questa maniera, un segno linguistico non rimanda a qualcosa di esterno, perché a rigore niente gli è esterno, in quanto esso nasce, necessariamente insieme a tutti gli altri segni di quella lingua, nel momento in cui, per così dire, il mondo si consegna tutto alla possibilità di essere significato, che è quello che avviene a mano a mano che impariamo a parlare. Si può dire, in altro modo, che un segno linguistico è tale in quanto parte di una totalità, la lingua, che ha il potere di significare la totalità delle cose, compresa se stessa. Una lingua, fosse pure la più rudimentale, è l’universo-mondo che si rende dicibile. Con la sua natura composita di significante e significato, e con il rimando necessario agli altri segni, ogni segno linguistico non fa che ricordare e rinnovare questo scambio tra l’interezza muta e l’esperienza parlante, scambio che è la fonte del suo valore d’uso. E in quest’orizzonte che il «nuovo» può presentarsi.
Aggiungo che gli scambi o negoziati in cui il mondo esce dalla chiusura ermetica dell’immediatezza per lasciarsi abitare, conoscere, trasformare, non sono separabili dagli scambi linguistici in senso stretto, quelli fra le/i parlanti, come è evidente a chi considera il processo di apprendimento di una lingua e, ancor più, quello dell’imparare a parlare. Probabilmente, è il desiderio o il piacere o il bisogno di comunicare con gli altri, in primis con la madre, che fa di noi, in prima persona, il luogo della resa del mondo alle possibilità espressive di una lingua qualsiasi. Sicuramente, il valore linguistico, ossia il significato dei segni, ha due fonti, una è costituita dal modo in cui il reale si arrende al simbolico, seguendo le caratteristiche di questa o quella lingua; l’altra e la società, ossia l’insieme degli scambi tra i parlanti di una stessa lingua. Da cui risulta quello che è risaputo per altre vie e cioè che lo stato dei rapporti sociali è sempre anche una questione di lingua.
Anche il cambiamento dello stato dei rapporti sociali è sempre pure una questione di lingua. Parlando degli scambi o negoziati che passano fra l’esperienza che viviamo e i discorsi che facciamo, ho lasciato credere che si tratti di un processo senza resti né problemi come se il mondo si consegnasse tutto e docilmente alla possibilità di essere significato. Non è così. Il mondo è uno e le lingue sono molte, e questo è un segnale. Ci sono altri segnali e altre esperienze della difficoltà di passare dalla mutezza alla parola. Una, che riguarda forse più le donne che gli uomini, più gli adolescenti che gli adulti, è l’esperienza di una personale «acosmia», ossia non ritrovarsi in quel mondo (cosmo) che si rende dicibile nella lingua che si parla; come se il negoziato che dicevo fosse in perdita di qualcosa, di un sentire, di un desiderare, di un sapere perfino dei quali la lingua non rende conto, dando così luogo a un difficile rapporto con il mondo delle parole. Alla semplice ignoranza della lingua si rimedia con lo studio. Ma lo studio può solo coprire i resti e i problemi legati alla significazione del mondo, nulla di più. Perché, quando i conti non tornano, resta al fondo un insormontabile, inesprimibile, quasi sempre inconsapevole, eppure continuo, forte e sensibile senso d’inadeguatezza che fa della lingua un’istituzione non accogliente e democratica ma ostica e usuraia. Sto enfatizzando l’aspetto di sofferenza di esperienze che però si conoscono anche e meglio dal loro frutto positivo, che è una decisione (decidere alla radice è un tagliare via) più radicale della semplice presa di parola.
Di quella primaria e mai conclusa contrattazione tra mutezza e parola, in cui consiste il saper parlare noi siamo informati in qualche modo, specialmente quando qualcosa «non va». La perdita di competenza simbolica, infatti, dà al mondo una consistenza estranea, quella di una pietra messa sulla tavola al posto del pane. Allora può succedere che esigiamo la cosa che è fuori dal potere di decisione di chicchessia, che è cambiare la lingua e volere addirittura una lingua mai parlata prima. Diciamo «non voglio più parlare una lingua qualsiasi» ma una lingua che mi risponda, che è il modo più radicale di mettere in questione un certo stato dei rapporti sociali. Naturalmente, ma bisogna dirlo, non ci sono lingue «qualsiasi»; ci sono, bensì, molte lingue, ma neanche questa pluralità è sufficiente. Si vuole una lingua «nuova».
Nel frangente creato dalla domanda di un’impossibile lingua nuova, la politicità della lingua s’incontra con la poesia e la poesia si mette a essere politica, restando fedele a se stessa. La politica, invece, nell’incontro – se ci sta – guadagna la capacità di tenere presente l’essenziale.
La poesia, intesa come arte della parola, lavora per vocazione sul confine convenzionalmente stabile, in realtà mobile e combattuto, dei rapporti che i segni intrattengono fra loro e, ciascuno al proprio interno, fra significante e significato, in un gioco da cui dipende la figura che prende il mondo. L’esperienza poetica, che sia di scrittura o di lettura o di ascolto, fa scoprire questo gioco e che si può giocarlo; in altre parole, fa scoprire che il mondo da fuori, separato e fisso, può passare a essere dentro-fuori di noi, in circolo con la nostra esperienza, modificabile e aperto, com’era quando abbiamo imparato a parlare.
Ricordo, del tempo in cui insegnavo alla scuola dell’obbligo, nella periferia milanese, l’effetto che fece la lettura di Pinocchio su un alunno di cui ho dimenticato il nome, ma non l’aspetto fisico: minuto, scuro, nervoso. Era il classico ultimo della classe, refrattario al lavoro scolastico e, apparentemente, incapace di scrivere e perfino di leggere un testo di una certa complessità. Ma questo risultò non essere vero, perché quando lesse Pinocchio trovò un libro che lo comprendeva e che lui capì ex novo. Ci scrisse sopra un commento che mescolava la sua vita personale, tutt’altro che lieta, con le avventure del burattino nel quale aveva riconosciuto un suo alter ego, facendo un racconto in cui parlava comicamente di suo padre, un operaio invalido del lavoro e costretto in carrozzella, del suo segreto bisogno di amarlo e di rispettarlo, e della disperazione di non riuscirci.
Faccio questo racconto e dico queste cose non per concludere con la celebrazione della letteratura e della poesia, ma, quasi al contrario, per contrastare l’esaltazione dell’arte per l’arte che ha continuato a crescere e a diffondersi, in passato, forse al posto della perduta cultura religiosa e ora anche al posto della partecipazione alla vita politica, come una specie d’incantamento che fa da surrogato ai ripetuti disincanti della modernità. Penso che la grandezza della letteratura sia la grandezza della lingua che parliamo resa manifesta da una pratica di parola che disfa e rifà la maglia dell’ordine simbolico in rispondenza a quello che c’è. Un poeta, Giacomo Trinci, riflettendo sul suo lavoro, ha detto che la poesia è «profetica di ciò che già c’è». Non ci sono valori estetici, ma linguistici. Voglio rendere pensabile quest’idea, che il valore della letteratura si afferma quando l’esperienza della lettura si iscrive nello spazio non letterario della vita di tutti i giorni. E tanto meglio lo fa, tanto più grande è. Vorrei poter pensare che il successo di pubblico sia una misura più esatta di tutte le critiche letterarie, com’è stato per Dante e Shakespeare. E per Jane Austen, con Orgoglio e pregiudizio, e per Collodi, con Pinocchio. Vorrei che il tempo dei musei e delle avanguardie fosse finito.
Forse, parole come «creazione» e «creatività» portano fuori strada? Il poeta appena citato non parla di creazione, dice «quello che c’è». Scomparsa l’estetica della creazione, ritroviamo il paradosso incontrato agli inizi riflettendo sulla presa di parola, e non c’è da meravigliarsi, se è vero che la decisione politica ha un effetto poetico, e la poesia uno politico, ed entrambi attengono alla politicità della lingua. È quest’ultima che ha la capacità di far perdere al mondo la sua consistenza di sasso. Spesso si crede di celebrare la poesia per contrasto con quello che non è poesia – scienza o vita quotidiana. È una implicita rinuncia a qualcosa cui io non posso rinunciare. Che cosa? Difficile rispondere: la possibilità di altro…, ma intendiamoci, altro presente qui e ora, l’impossibile imprigionato nel reale. Crediamo veramente che si possa vivere senza?
Luisa Muraro, Non una lingua qualsiasi, in AA.VV. Lingua bene comune (a cura di Vita Cosentino), Città Aperta Edizioni, Troina (EN) 2006, pp. 79-87.
Tutto è lingua e le parole ti toccano, spesso ti feriscono. È vero, possono far male, ma il più delle volte aprono la via per formulare un pensiero tuo, a patto di non rimanere nelle reazioni automatiche già previste. Oppure capita che le parole mancano e senti la realtà che ti pesa addosso come un macigno. È ciò che vivo in questi giorni, è ciò che ho da dire.
Mi sento come schiacciata da questo presente così gonfio di guerra e di rivalsa maschile e vengono meno le parole. Ai miei stessi occhi rischia l’insignificanza quello che faccio: ha ancora senso farlo quando parole sinistre come “guerra nucleare” e “riarmo dell’Europa” non sono più tabù e rientrano a far parte delle prospettive plausibili? Come uscirne?
Lavorando a questo numero di Via Dogana3 ho capito che nel produrre la sensazione di schiacciamento un ruolo decisivo hanno i mass media per come raccontano la realtà. Al riguardo rimando alle acute analisi di Ida Dominijanni e Giulia Siviero presenti nel video https://www.youtube.com/watch?v=7xHjYM9-Xj0. Senza dimenticare Luisa Muraro che già in Maglia o uncinetto (1981) ha mostrato come siamo dentro un regime ipermetaforico che traduce la materia viva delle esperienze, annullandola e restituendola secondo i suoi codici. E valeva allora, come vale ora, una lingua metonimica, che rimanga vicina a ciò che viviamo e patiamo.
È capitato a me, ma capita comunemente, di cogliere la discrepanza che c’è tra il racconto di chi ha partecipato in prima persona a un evento pubblico e quello che dello stesso evento fanno i mass media. Oggi la torsione comunicativa è tutta volta alla militarizzazione e all’esaltazione dello scontro. Un piccolo esempio. Alcune mie amiche hanno partecipato alla manifestazione dello scorso 25 aprile a Milano. Sono tornate a casa contente, perché secondo loro la manifestazione era riuscita a rimanere pacifica, nonostante qualche piccola tensione. Il giorno dopo erano indignate da come la manifestazione era stata raccontata dai telegiornali e da gran parte della stampa: i brevi scontri occupavano tutta la scena e tutto il resto era sparito.
Tuttavia, per uscire dall’effetto schiacciamento, in gioco non c’è solo la consapevolezza di come operano i mass media. Molto dipende anche dalla concezione che abbiamo dell’esistente. Ho capito questa questione rileggendo in Parole non consumate la polemica che Chiara Zamboni apre con lo scritto di Sartre Immagine e coscienza. Zamboni fa vedere come Sartre abbia una concezione soffocante del presente, come un tutto pieno massiccio e incombente, che supera con l’attività immaginativa. Per lui l’immaginazione è un “fare come se” che diventa luogo di libertà, ma al prezzo di annullare la realtà. Per Chiara invece l’essere non è massiccio e immobile, ma in continua metamorfosi per cui aprirsi al gioco del linguaggio permette di trovare potenzialità nell’occasione che si presenta e nel saperla riconoscere. Per lei l’immaginazione è una dimensione dell’essere, non è fuga dalla realtà ma apertura (pp. 93-94). Richiamo queste considerazioni di Chiara Zamboni perché mi fanno pensare che per uscire dalla stretta del presente si possa mettere all’opera un pensiero immaginifico che colga e potenzi quello che c’è già, che nutra quei semi che già fanno intravvedere un possibile cambio di civiltà.
Ragionando attorno a questi problemi, tuttavia, bisognerà pur dirsi che la logica violenta della contrapposizione da un po’ di anni a questa parte è entrata anche nel campo femminista, compreso quello della differenza.
Se vado indietro nel tempo, rivedo gli anni in cui il comune sentire era di far parte di un esteso movimento delle donne, e le polemiche anche aspre tra posizioni e gruppi diversi non intaccavano questo sentimento. Invece oggi, proprio in un tempo in cui il femminismo è davvero in tutto il mondo – e il recente libro di Giulia Siviero, Fare femminismo, ben lo mostra – prevalgono gruppi incomunicanti, spezzettamenti, chiusure identitarie, accompagnate spesso da furia etichettatrice. Troppo spesso la posizione diversa viene rapidamente catalogata come nemica e ci si comporta di conseguenza. Si adottano modalità aggressive, magari inchiodando una giovane che è ancora in ricerca, a cose dette cinque anni prima. Più che conflitti che da posizioni diverse portano avanti la riflessione, si aprono guerre con le parole, tendenti a screditare le presunte “avversarie”. Le guerre verbali, come le guerre sul campo cominciano da una prima aggressione, a cui segue una risposta e così in un crescendo. Quello che so per me è che la mossa giusta è non entrare nella spirale, non rispondere, non giocare a quel gioco, che è il gioco della guerra. Ma, a parte questa pratica, che non è poi così semplice per una come me che ha una natura sanguigna, cosa pensarne?
Ritengo che qui scontiamo il riflesso del narcisismo individualista del nostro tempo. Nei nostri incontri abbiamo sempre detto che le donne sono meno narcisiste degli uomini, e questo è vero, però è ora di constatare che c’è un narcisismo femminile da guardare più da vicino, che porta a posizione egocentrate che facilmente individuano come nemica ogni differenza e entrano nella spirale della contrapposizione violenta. In effetti, come ha ben spiegato Cristina Faccincani ne La carta coperta, il narcisismo presenta un io compatto, in cui «risulta compromessa la relazione con l’alterità, sia interna al soggetto, sia riguardante l’altro da sé» (p. 37). Quindi, a maggior ragione, ritengo che il problema principale sia un difetto di senso della differenza. Ci vuole infatti più senso della differenza all’opera per dare spazio e risalto alla differenza tra donne e farne una fonte di pensiero e di pratiche.
In passato molto si è lavorato sull’asse della verticalità, simbolicamente rappresentato dal rapporto con la madre, producendo elementi di teoria e di pratica politica, quali l’autorità e la disparità, indispensabili per uscire dall’indistinzione di una notte in cui tutte le vacche sono nere. La disparità fa vedere una realtà in movimento perché non si è mai pari. C’è sempre un gioco mobile di più e di meno. Riconoscere un di più a un’altra donna ci rende più intelligenti perché fa comprendere meglio le possibilità che la realtà offre.
Penso però che all’interno di questa pratica sia rimasta troppo in ombra l’idea della differenza tra donne che allarga ancora di più il campo d’azione, soprattutto quando in ballo non ci sono grandi disparità intellettuali e umane facilmente riconoscibili, bensì disparità di minore entità. L’altra differente mi interessa, mi incuriosisce, mi interpella, mi fa arrabbiare e da lì passa conoscenza. Pensare l’altra nella sua insormontabile differenza, mi rimanda a me stessa per quello per cui differisco e rende più comprensibile il contesto che ci accomuna, che è il mondo presente con le contraddizioni che attraversano entrambe. Queste mie osservazioni scaturiscono dal riflettere su alcune mie relazioni nella redazione di Via Dogana3 e da alcune nuove relazioni con donne giovani politicamente distanti. Penso anche al rapporto con le mie sorelle.
In un vecchio numero di Via Dogana (34/35, dicembre ’97) Letizia Tomassone, teologa, apre una polemica con padre Vanzan sul fatto di intendere come paradigma della differenza la differenza uomo/donna, perché così «si cade nella trappola patriarcale della classificazione». Lei invece frequentando il pensiero della differenza intende la sua libertà di movimento non in relazione a «un differente da me» bensì nella consapevolezza della sua parzialità che le «permette di essere in una relazione di differenza e di alterità in primo luogo con le altre donne». Lì si gioca la sua differenza. «Si tratta di un luogo dove non posso mascherarmi, dove non posso abitare spazi già costruiti, ruoli già dati».
In un numero di Via Dogana 3 dal titolo La parola giusta ha in sé il potere della realtà, (dicembre 2018), Luisa Muraro riprende e approfondisce la stessa questione e la considera una buona intuizione su cui riflettere e su cui si aspetta commenti e contributi.
Lei dice: «Primo: sia chiaro che la differenza sessuale non è tra uomini e donne, sarebbe insensato perché, se distinguo i due sessi, maschile e femminile, vuol dire che la differenza ha già operato; diciamo perciò che la differenza sessuale è in. È in me, per cominciare, per cui dico: “io sono una donna”. Secondo: la differenza sessuale che ha già operato, traspare con il mio (tuo… nostro, vostro…) riconoscermi nelle altre donne. Essa consiste dunque nelle differenze tra donne; ma non è una consistenza, è un principio evolutivo della vita che si sviluppa e traduce nella cultura umana».
Per finire penso che c’è tutto da guadagnare a portare avanti questa riflessione.
Di questi tempi mi sento spesso a disagio quando mi confronto anche solo tra me e me, faccio fatica a concentrarmi sulle questioni, mi confonde il frastuono delle voci, delle posizioni, delle interpretazioni che provengono dai media vecchi ma soprattutto da quelli nuovi, se a usarli sono persone distanti da me e con idee diverse dalle mie ma anche se sono persone vicine e con idee simili alle mie. Le parole diventano difficili da tradurre nella mia singolare lingua interiore.
Mi capita di frequente che il tono performativo delle parole e delle argomentazioni, anche di quelle che sono io a dire e a costruire, comprometta il senso di quanto viene detto e ne modifichi il contenuto, la densità delle parole si frantuma in fretta e mi resta la spiacevole impressione di non sapere bene di che si è parlato, che si è detto e chi ha detto cosa a chi. Mi viene in mente una frase di Veronica Giuliani, una mistica marchigiana vissuta nel XVIII secolo: «Dico e ridico e non dico niente». Non credo sia solo un problema di memoria scadente o di un effetto Babele causato dalla molteplicità delle voci e delle fonti a cui ci si trova esposte e con cui si interagisce. È come se le cose che si dicono non riuscissero a farsi strada oltre l’impressione, oltre il momento, è come se le parole avessero vita breve e si nebularizzassero in fretta nel rumore di fondo. Una specie di anestesia, più o meno profonda, anche quando l’argomento mi sta a cuore. Credo sia un problema che riguarda i mezzi e i modi che permettono la comunicazione, cioè il computer, lo smartphone, le reti sociali. Non penso tanto a quelle spiacevoli situazioni in cui capita di imbattersi a volte, quando si incappa nel terribile furore verbale generato dall’autoreferenzialità narcisistica che si euforizza nell’assenza dei corpi ed è impenetrabile all’empatia comunicante, sono frangenti da cui si esce scosse e doloranti, con la sensazione di non avere parole capaci di migliorare lo stato delle cose, davanti al muro del discorso violento. Penso alla normalità della comunicazionesociale tramite smartphone e/o computer, agli scambi consueti, al loro ritmo e alle dinamiche interiori e relazionali che generano, alle ampie porzioni di vita che occupano. Mi sento coinvolta in un mutamento che riguarda me, le cose che sento e penso, le parole che ho per raccontarle e l’attenzione che ho per ascoltare e dare senso alle parole che arrivano da fuori. È una specie di ibridazione che non governo e che non so descrivere perché è sottile e sfuggente, anche se gli effetti sono ben visibili e concreti.
Alla base dello scambio tra i media e i loro utilizzatori c’è stato a lungo il tempo, quello in cui entrambi si rendevano reciprocamente accessibili e disponibili. I giornali, il cinema, la radio, la televisione e anche il telefono avevano porzioni di tempo limitate e ben definite nelle giornate, le vite erano distinte dai media, la comunicazione era mediata soprattutto dai corpi e dalla presenza viva. Con la diffusione delle nuove tecnologie di comunicazione, in particolare quelle che riguardano Internet e gli smartphone, l’equilibrio si è rotto, la misura è saltata. Lo smartphone è una protesi del corpo, è la sua proiezione virtuale nel mondo e produce l’effetto paradossale di isolare il corpo, di eliminare la contemporaneità delle presenze e dei contesti. È esperienza comune nei luoghi di socialità occasionale (mezzi pubblici, sale d’attesa, bar, ecc.), nelle pause tra un’attività e l’altra e in generale in tutti i momenti liberi, vedere l’immersione collettiva nei telefoni cellulari e l’indifferenza alla presenza fisica delle altre persone, una vistosa espressione di isolamento ma anche di solitudine nel contesto. Questo stato delle cose produce trasformazioni nelle posture relazionali e nel modo di comunicare, si cerca il contatto con la o le tribù di riferimento, restando al loro interno e aspettandosi la loro conferma a prescindere dal luogo in cui ci si trova. Le tribù, favorite dai social e sostenute dalle varie declinazioni del marketing liberista, sono suddivisioni umane omogenee, con molte estensioni oppure selettive, si formano intorno a una condizione, a un tema, a una passione, a un’occasione, possono essere trasversali, distribuite su territori ristretti o molto estesi, durare a lungo nel tempo o esaurirsi con l’occasione da cui sono nate. Sono comunque territori (virtuali) di arroccamento che si percepiscono e si comportano come mondo, con canoni, convenzioni e linguaggi propri, di solito poco accoglienti per chi è estraneo o non addentro ai temi coesivi. Si tratta di una coesione tribale, ombrosa, mutevole e animatrice di conflitti, ben diversa dalla luminosa coesione sociale legata all’idea di democrazia avanzata che alimentava le speranze giovanili della mia generazione. Tutte queste tribù-mondo vivono a sé stanti, dominano loro malgrado solo pezzi ristretti del racconto del reale e per di più ibridati dalle procedure discorsive e affabulatorie della pubblicità mercantile, che è l’esperanto dei media: non hanno alcuna possibilità di arrivare a una visione d’insieme e tanto meno oggettiva del mondo. Nonostante il capillare reticolo di strumenti di comunicazione che avvolge il globo intero ed è utilizzabile da larga parte dell’umanità, siamo dentro a una sorta di sistema integrato e amorale della narrazione, governato dagli interessi di pochi potenti, che sceneggia e racconta attraverso i media reticolari la realtà dando forma a una rappresentazione/finzione indiscutibile, ibridata e declinata a seconda delle culture, dei luoghi e delle competenze interpretative, che diventa senso comune e ordine simbolico. Dunque è preoccupante per me accorgermi che percepisco come domestico l’ambiente a cui mi permette di accedere il mio smartphone/protesi, quello in cui incontro le mie tribù e i pochissimi social che mi autorizzo a frequentare. Perché una parte importante della realtà è che la familiarità è esteriore, si entra in un ambiente di natura industriale, molto strutturato, che non ha niente di domestico, che esercita su di me un controllo interessato e in cui la mercificazione di tutto, comprese le mie parole, è esposta, invisibile e naturale.