Lessi per la prima volta il Catalogo giallo due anni fa circa, dopo che fu Lia Cigarini stessa a consigliarmelo. L’ho letto in un susseguirsi di varie emozioni e mi sono immaginata in mezzo a loro, così arrivata alla fine ho pensato: «Quanto avrei voluto esserci!». Durante la lettura ho sentito una grande felicità, come quella menzionata durante l’incontro del 2 marzo proprio da Rosaria Guacci che invece alla stesura del catalogo ha partecipato.

Per la prima volta, dopo anni passati tra i banchi di Lettere all’Università di Bologna a studiare teoria della letteratura, finalmente ho scoperto che esisteva altro: la pratica della letteratura. Quasi il polo opposto dello spettro, se vogliamo. Perché se studiare la teoria mi ha dato degli strumenti in più per leggere, la pratica della letteratura – che è, a dirla meglio, pratica della lettura, come già avanzato anche da Laura Colombo in questo numero1 – mi ha ridato il desiderio del leggere e soprattutto gli strumenti per leggermi.

Io sono sempre stata una lettrice solitaria, ma questa pratica non è solitaria, non può esserlo per sua stessa essenza: la pratica della lettura è anche il desiderio di condivisione e scambio, per creare qualcosa di fecondo a partire dalla letteratura stessa. Come lo è stato il Catalogo. Dove il riconoscimento nella lettura – o anche il disconoscimento stesso – è propulsore e di conseguenza produttore di pensiero.

Ma questo processo non può avvenire nella solitudine del proprio spazio reale o virtuale che sia, non sarebbe fecondo, non sarebbe pratica ma mero esercizio di filosofia. E forse di questo avremmo bisogno quando si parla di “attualizzare le pratiche”: del metterle in pratica davvero, poiché le pratiche per loro stessa natura sono già attuali. Per “attualizzare il catalogo” basterebbe rileggerlo e lasciarsi trasportare dalla sua forza e dalla sua felicità trasformativa. Ciò che serve è trovare il tempo, lo spazio, l’energia e il desiderio per rimettere in piedi un progetto simile, rispondendo a quel bisogno che sento in me e in tante altre donne di ritrovarsi in una genealogia di scrittrici e pensatrici femministe. Questo potrebbe colmare quel vuoto profondo che caratterizza gli slogan del femminismo virtuale – spesso primo approccio al femminismo per le giovanissime – un mondo senza storia fatto di frasi accattivanti ma prive di radici nella pratica concreta.

In questo modo, potremmo navigare meglio tra i vari femminismi contemporanei, troppo spesso ridotti a ripetizioni meccaniche di pensieri preconfezionati, portati avanti come mere bandiere identitarie senza connessione con il passato o visione del futuro. Potremmo così rispondere alla cultura effimera delle stories di ventiquattro ore riscoprendo lo slancio vitale (e felice) del femminismo della differenza e la politica su cui si basa, fatta di relazioni intrecciate nella pratica dello scambio tra donne come fonte viva di pensiero e trasformazione.

  1. https://puntodivista.libreriadelledonne.it/la-lettura-come-pratica-politica/ ↩︎

Poco prima dell’incontro su Le madri di tutte noi (2 marzo 2025), in Libreria delle donne mi ha colpito una battuta: «…come eravamo intelligenti…». Con questa “allerta” ho seguito gli interventi introduttivi e la dicussione della redazione aperta di Via Dogana 3 e in particolare nell’incontro ho percepito la forza trasformativa messa in moto da una pratica politica che ha prodotto questo «modo di leggere che confonde vita e letteratura», ho visto il guadagno e la felicità provata da chi c’era.

Con il pensiero della differenza io ho guadagnato mediazioni e parole per il “qui e ora” con le quali ho abitato e mi sono radicata nel mondo, ricavando misura e forza dalle relazioni tra donne; sono riuscita a stare al mondo con un po’ di agio e il rapporto con la parola delle donne, con il femminismo della differenza, mi ha sostenuto nella mia impresa, il sindacato, e vedo la stessa pratica tra altre donne attorno a me, anche quando è inconsapevole, non nominata né riconosciuta. 

Le donne che hanno scritto il Catalogo giallo sentivano che cambiando se stesse il mondo cambiava e noi abbiamo ricevuto e siamo cresciute con questo loro guadagno, tutta la mia esperienza sindacale e politica ne è stata alimentata. 

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Dall’incontro con Lia Cigarini e Luisa Muraro, nel lavoro con il gruppo del Martedi della Camera del Lavoro di Brescia è nata la pratica politica della relazione tra donne senza la quale non sarebbe stato possibile il “lavoro di fabbrica e lavoro del pensiero” e il nostro (mio e di altre) “essere sindacato”.

La pratica politica e le esperienze raccolte nelle interviste realizzate (grazie a Loriana Lucciarini) a lavoratrici, delegate, funzionarie metalmeccaniche su “il lavoro, il lavoro sindacale, la contrattazione” nel dicembre 2018 sono diventate i “materiali” per il 27° congresso nazionale della Fiom Cgil.

Il confronto con il pensiero politico della Libreria, la relazione con Giordana Masotto e Luisa Pogliana, ha alimentato il “Tavolo permanente”1 per ripensare lavoro e azienda, una pratica politica che, in un luogo come la Libreria delle donne e in una forma inedita, ha messo insieme la forza e il sapere di sindacaliste e manager.

La relazione tra le donne impegnate al tavolo negoziale nei rinnovi del Contratto nazionale dei metalmeccanici ha individuato e costruito soluzioni contrattuali innovative per donne e uomini e introdotto misure “concrete” per contrastare la violenza maschile contro le donne. 

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Nella redazione allargata di Via Dogana 3 sul valore politico del Catalogo giallo e sui testi nati dal pensiero della differenza è diventato evidente quanto “l’intelligenza” collettiva di quel lavoro abbia permesso a noi di trovare parole fedeli al sentire. Oggi, grazie a queste mediazioni, possiamo parlare in prima persona di noi stesse e di come siamo, nel presente.

Chiara Zamboni, nel suo bellissimo articolo Sul pensiero della differenza sessuale ha messo a fuoco una contraddizione che vivo e che non riesco a risolvere: per una parte della mia esperienza riesco a trovare solo parole che si avvicinano a quello che sento, senza mai dirlo davvero.

La parte di me che desidera esprimere pienamente ciò che sente di fronte ai fatti del mondo – quei fatti sui quali voglio «esistere, per esserci in rapporto agli altri e a noi stesse»2 non l’ho scoperta oggi: la conosco da tempo. 

L’incontro di Via Dogana 3 ha (ri)messo al centro la questione dell’esperienza femminile che non ha o non trova parole per esprimersi; se non riconosco questa contraddizione, quel «vuoto simbolico pieno di esistenza» – per riprendere le parole delle lettrici di Gertrude Stein nel Catalogo giallo – rischia di essere occupato da descrizioni del reale che parlano anche di me, senza che io ci sia pienamente. E sento concretamente il pericolo che lo spazio delle relazioni si trasformi in un campo di battaglia, dove si muovono appartenenze e ideologie travestite da buoni sentimenti (i cosidetti valori) o da puro pragmatismo. 

Silvia Niccolai, nella sua relazione3, segnala «il peso e il pericolo» e indica una traccia: «stare nel vuoto senza cadere nel nulla», senza «cedere al troppo pieno, l’identità troppo intensamente ricercata, il dispendio emotivo per l’una o l’altra buona causa…» perché oggi, dice, siamo di nuovo chiamate a schierarci e teme che il dover dimostrare che siamo dalla parte giusta «ci tolga la parola per dire il modo in cui fa davvero problema la realtà difficile dell’oggi, per ciascuna di noi nel suo concreto»

Chiara Zamboni offre una ulteriore traccia per affrontare il presente con intelligenza; chiarisce che questa ricerca di parole sensate richiede un «…lavoro di parole creativo. Un percorso che non può concludersi, perché un’espressione che sentiamo fedele, è semplicemente un punto di avvistamento da rimettere ogni volta in gioco dato che il nostro divenire si dipana lungo tutta la vita».

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Interrogando la mia esperienza e la mia pratica sindacale trovo un punto di avvistamento in grado di aiutarmi ad affrontare i fatti del mondo, la contraddizione in cui mi trovo: è il concetto di autonomia cioè la capacità, la facoltà, la libertà di esprimere il mio sentire senza subordinarlo ad appartenenze, pratiche identitarie, ideologie e regolandomi su quello che “è giusto” secondo il mio sentire; una pratica politica che mi permette di esprimermi politicamente senza ricadere nella ricerca o nell’affermazione di una identità, che sostiene la mia ricerca di libertà. 

Con questa pratica politica possiamo occuparci di quello che succede – anche della guerra e della violenza – al riparo da ogni tentazione identitaria o di estraneità, facendoci guidare dalle lettrici della Stein: «la sua indifferenza politica è estraneità ad ogni ideologia», non estraneità al mondo e a quello che succede. 

È un desiderio che mi sembra di riconoscere in altre donne, è stato un desiderio per tante donne prima di noi; l’ho trovato in Virginia Woolf, Edith Warthon, Rosa Luxemburg, così diverse tra loro, eppure quante altre donne (non lo so, lo sappiamo?) hanno trovato parole per significare la loro esperienza di estraneità ad ogni ideologia che sostiene la guerra.

Oggi il mondo è attraversato ed è minacciato da queste pulsioni ed è in questo mondo che «la differenza è in movimento»4.

  1. “Tavolo permanente” è un lavoro nato dalla relazione tra Giordana Masotto (co-fondatrice della Libreria), Luisa Pogliana (Ass. Donnesenzaguscio – Percorsi femminili in azienda) e me, un incontro che si propone di ripensare lavoro e azienda a partire dall’esperienza di sindacaliste e manager. ↩︎
  2. Chiara Zamboni, Sul pensiero della differenza sessuale, www.libreriadelledonne.it, sezione Contributi, 16 marzo 2025. ↩︎
  3. Silvia Niccolai, Vuoto simbolico pieno di esistenza, Via Dogana 3, 2 marzo 2025. ↩︎
  4. Chiara Zamboni, Sul pensiero della differenza sessuale, cit. ↩︎

Appena ho messo piede in Libreria delle donne nei primi anni ’80 sono stata attratta dall’intensità delle relazioni che lì si vivevano. Ho subito deciso di unirmi a questa comunità di donne che generavano parole che per me erano una vera rivelazione, tant’è vero che presto sentii il desiderio di tradurre in tedesco quelle idee che nella mia lingua madre non erano mai state formulate politicamente. Anche nella mia pratica femminista precedente, quella della sorellanza, avevamo letto le scrittrici e cercato le parole per dirci a partire dall’esperienza, ma mai scavando così in profondità, con il senso del simbolico, del lavoro sul linguaggio. 

Oggi il Catalogo giallo ci ricorda e ci fa rivivere quel lavoro con tutta la fatica e tutta la felicità che comportava. Rileggendolo mi ha colpito come il desiderio della singola si potenziasse nello scambio con le altre, e come la perseveranza delle autrici che ci avevano lavorato per due anni abbia prodotto parole per nominare ciò che non aveva nome. Passione politica, sperimentalismo totale che, in assenza di un linguaggio, tentava ogni combinazione tra letteratura ed esperienza propria.

Silvia Niccolai nella sua introduzione dice di aver trovato l’assunto più potente della politica del simbolico nelle parole conclusive su Gertrude Stein: «Vuoto simbolico, pieno di esistenza» che lei ha riformulato per sé: «stare nel vuoto senza cadere nel nulla». Facendo vuoto della legge del padre, del simbolico maschile, non si cadeva nel nulla perché attraverso la relazione con l’altra si ritrovava ciò che mancava, la relazione con la madre e con sé stessa, liberandosi dalla violenta intromissione del maschile nella vita di ciascuna.
Oggi la situazione è molto diversa, più difficilmente decifrabile, ma per certi versi richiede lo stesso lavoro. L’ho capito tempo fa quando tre giovani donne del gruppo Le Compromesse sono entrate nella redazione di Via Dogana 3: erano esposte già da giovanissime a un neoliberismo che cerca di fagocitare il femminismo, e a un’intromissione insidiosa di influencer che nel nome del femminismo non fanno altro che imporre lo sguardo maschile. E anche loro hanno reagito in modo spontaneo con la sottrazione. Si sono messe insieme prima in rete e poi fisicamente per trovare le parole e dire la propria esperienza. Forse inconsapevolmente si sono inserite in quella genealogia che viene esplicitata nel Catalogo giallo. 

Con la ristampa di questo fascicolo rilanciamo l’idea del filo che ci lega a quelle che sono venute prima di noi e a quelle che sono arrivate dopo. Non si tratta di trasmettere parole o concetti, che sono sempre legati alla contingenza, ma si possono mostrare pratiche efficaci. Un aspetto della pratica politica che vediamo nel Catalogo giallo e che sicuramente aiuta a intensificare le relazioni e lo scambio è il fattore del tempo, il prendersi il tempo necessario: incontri che duravano anche alcuni giorni, con piccoli gruppi di lavoro che si riunivano in giornata per ritrovarsi con le altre la sera, e discussioni fino a tarda notte. Io stessa ho potuto fare questa esperienza felice quando è stato elaborato il Sottosopra rosso sulla fine del patriarcato: mi è piaciuto moltissimo! Cinque giorni a Pasqua alle Cinqueterre tra riunioni, confronti a due, cene, passeggiate. E alla fine il lavoro insostituibile di sintesi di chi sa scrivere… Con il Catalogo giallo mi viene voglia di dire: riprendiamoci più tempo per pensare insieme, in questa epoca che impone ritmi frenetici a cui sembra impossibile sottrarsi.

Il pieno uso delle nostre facoltà produce felicità. La felicità ci fu data ai tempi in cui mettemmo mano alla scrittura del cosiddetto Catalogo giallo Romanzi. Le madri di tutte noi, a cura della Libreria delle donne di Milano e Biblioteca delle donne di Parma.

Erano gli anni ’80 e fra noi amiche più strette vigeva la consuetudine di parlare dei romanzi che ci erano piaciuti, così come oggi ci chiederemmo l’un l’altra quali viaggi ci piacerebbe fare, quali lavori e cose simili.

Storie? Tutte Storie? No, Lia Cigarini aveva sdoganato il romanzo come fonte di libertà per una donna soprattutto durante la sua formazione, sottraendolo alla sensazione di “piacere vergognoso” di cui godere in segreto, non parlandone in pubblico come fino ad allora molte l’avevano inteso. Allora si pensò di dividerci in gruppi di lavoro, ognuno dedicato alle scrittrici che ci erano più piaciute: le madri simboliche per noi essenziali.

Andammo da loro e da loro prendemmo. E restituimmo.

Come al mercato, quel mercato della felicità di cui nel 2016 avrebbe poi scritto Luisa Muraro nel libro omonimo, partendo dall’episodio biblico della messa in vendita di Giuseppe da parte dei fratelli gelosi della sua bellezza e dell’amore per lui del padre Giacobbe. Il figlio aveva tessuto al padre una tunica dalle lunghe maniche e anche noi avremmo intessuto abiti che volevamo perfetti per le scrittrici prescelte. Ci immettemmo dunque al mercato col poco che avevamo per acquistare il meglio, come la vecchietta che, nella narrazione di Luisa, si era messa in fila coi suoi gomitoli di lana per acquistare Giuseppe, il soggetto/oggetto più bello. “L’importante è il desiderio, anche quello di ciò che ci sembra impossibile da ottenere, perché il reale non è indifferente al desiderio e non assiste indifferente alla passione del desiderare. Il mondo è salvo solo al patto che coloro che lo abitano abbiano aspettative incommensurabili ai propri mezzi e non perdano mai la fiducia di essere destinati a qualcosa di grande”.

Ecco, noi volevamo la madre scrittrice che nel suo splendore non avevamo mai avuto o che avevamo piuttosto perduto, con la speranza di ricostruire quell’oggetto simbolico, fors’anche fino ad allora trovato mancante, impreziosendolo con un filo d’oro (il nostro desiderio, la nostra passione) come si vede in certi vasi kintsugi della tecnica giapponese.

I gruppi di lavoro si erano quindi scelti. Il metodo di lavoro era formidabile: il lavoro collettivo delle molte, orizzontale, reciproco, dove ognuna pensava, scriveva, aggiungeva, cancellava e il risultato parziale veniva di volta in volta sottoposto all’assemblea delle tutte.

Ci eravamo divise, forse un po’ ingenuamente, in seguaci delle scrittrici “vincenti” o “perdenti”. (Era nell’aria la “voglia di vincere” partendo dallo “scacco”, che Lia aveva messo a tema nel cosiddetto Gruppo n. 4. Nel 1983, due anni dopo la stampa del Catalogo giallo, il lavoro di quel gruppo sarebbe esitato nel “Sottosopra verde” Più donne che uomini chiamato anche “Voglia di vincere”.)

Noi intendevamo come perdenti le scrittrici che si erano mantenute in un’apparente indifferenziazione (le sorelle Brontë) o in quello che a noi sembrava vuoto, riempito di troppe parole, e avevano terminato le loro vite col suicidio (Sylvia Plath, Virginia Woolf). Era ancora lontano il tempo in cui una critica come Liliana Rampello avrebbe riscattato nel suo Canto del mondo reale la leggerezza, la perfezione, la lietezza della vita di Virginia laddove la morte rappresentava uno degli episodi e non il più significativo.

Tornando a noi, il risultato finale del Catalogo fu che le pagine scritte sulle “perdenti” mi sembrarono le più soddisfacenti e compiute dell’intero testo.

Fatto quindi salvo il metodo di lavoro, cosa cercavamo? Testi/pretesti da cui partire per prendere ma anche dare. Nulla sarebbe accaduto se non ci fossimo innamorate di parole o frasi che possedevano, per noi, luce. Pagine di scrittura risolta stando all’interno del nostro genere e nell’esperienza del nostro genere che trovava le parole recettive nell’esperienza.

Il viaggio era dall’approssimazione all’esattezza massima a noi possibile. Volevamo penetrare il “luogo nascosto della materia prima” (Lispector), l’accumulo di vita prima non registrata restando protette dalla figura materna. Che “era lì. Era lì fin dall’inizio” (Woolf). Alle sue spalle c’era un’assenza.

La prima lotta fu quella contro il linguaggio appreso, non materno, quello che invece ci avrebbe permesso di rivedere la realtà con quel segno che prima avevamo perduto: ora ci serviva riguadagnare di nuovo quello che era già in noi, “vecchie cose diffuse senza nome” (Adrienne Rich), che premevano forte per uscire.

Provammo “vivide sensazioni di apertura”. Come se fossero a portata di mano “cose straordinarie invece della frustrazione di situazioni che prima ci toglievano ogni piacere” (Carla Lonzi, Autoritratto). E nel contempo continuavamo la ricerca al fondo di noi stesse di “una parola migliore e ancora migliore di quella migliore” (Colette).

Come già detto, il metodo di lavoro fu squisitamente collettivo; fu messa in essere la ricerca, credo compiuta, di una genealogia femminile grazie anche alla parzialità riconosciuta delle attribuzioni. Furono due anni di pura felicità. Il catalogo “Le madri di tutte noi, ristampato tre volte, è sotto gli occhi del mondo.

Per sentirti parte di una genealogia femminile che produca in te una trasformazione liberante occorre rendere dicibile innanzi tutto a te stessa il tuo amore fin da bambina per tua madre e il suo amore per te perché questa è l’esperienza fondante la felicità di una donna di stare al mondo. Per far questo sono importanti ma non sufficienti gli scritti di altre, che sempre ti parlano nel presente pure se elaborati da donne del passato, scritti che ti sono venuti incontro perché ne avevi bisogno anche quando te li hanno consigliati. E neppure le parole di altre che hai ascoltato in incontri pubblici, addirittura quando le loro parole e azioni illuminano aspetti della tua esperienza. 

Infatti ultimamente come Comunità di storia vivente1, una ventina di donne da varie parti d’Italia e una dalla Spagna, abbiamo messo in atto una pratica di incontri mensili, necessariamente on line, in cui riflettiamo sul racconto di ciascuna, uno alla volta, elaborato in anni di confronto in presenza nella propria Comunità, e qui ho visto delinearsi la redenzione della genealogia carnale di ognuna attraverso la liberazione dell’amore per la propria madre. 

Un amore che rifulge liberato dalle recriminazioni, dalla sofferenza, dal dubbio che non sia stato o non sia corrisposto, perché ciascuna per sé insieme alle altre individua i delitti contro il piacere femminile2, piacere di cui l’amore tra figlia e madre è la matrice. Delitti come le forme della sessualità maschile con le conseguenti, a volte numerose, gravidanze indesiderate; la sessualità oggettivante l’altra, anche da parte di donne; le modalità della cultura ecclesiastica di reprimere la spiritualità femminile e colpevolizzarne la libertà; la deportazione femminile dalla casa materna a quella del marito; la svalorizzazione del lavoro femminile, sia quello non retribuito in ambito familiare sia quello retribuito in altri ambiti; la molteplice chiusura di una donna in ruoli non definiti da lei; la ricerca dell’uguaglianza con gli uomini sia attraverso l’accecamento di fronte alla violenza ermeneutica della scuola e del sapere accademico sia attraverso l’inserimento femminile in lavori usuranti e violenti e/o in strutture maschili di potere come partiti e sindacati. Delitti la cui colpa smettiamo di far ricadere su nostra madre o su noi stesse.

Che cosa ha permesso la redenzione liberante del proprio amore per la madre e, a partire da lei, la redenzione della propria genealogia carnale femminile? Che cosa ha permesso di non fermarsi a riscattarne solo le vite attraverso la loro narrazione secondo le modalità della storia sociale?

L’incontro col femminismo che ha valorizzato l’essere quella singolare donna come portatrice di significati ancora da scoprire insieme ad altre vicine a te come animecorporee, usando la felice espressione di Antonietta Potente, altre che ti hanno dato e danno fiducia nella ricerca di parole per significare la tua esperienza, e così anche la loro, e l’invenzione di pratiche che ti permettano di continuare a tentare di dirla. 

Se il tuo amore per tua madre e il suo per te resta indicibile questa cancellazione o snaturamento pesa sulla tua vita e ti blocca in un presente asfittico. Portare alla luce questo amore ti ricollega col tuo sentire originario e ti colloca in una genealogia infinita, il continuum materno. Una genealogia che ti aiuta ora ad aprirti all’amore per le figlie reali e per le donne più giovani, e di farlo trovando forme non sacrificali, né per te né per loro, in cui di volta in volta creare insieme il piacere della relazione.

  1. Per conoscere di più sulla storia vivente e la sua pratica: Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti, ECIG, Genova 2005; La pratica della storia vivente, “DWF” n. 3/2012; María-Milagros Rivera Garretas, Riscattare e redimere il presente in Annarosa Buttarelli e Federica Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2008, pp. 343-371; Comunità di storia vivente di Milano (a cura di), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti&Vitali, Bergamo 2018. ↩︎
  2. Rispetto al piacere femminile faccio riferimento alla rivelatrice e rivoluzionaria riflessione di María-Milagros Rivera Garretas nel suo libro Il piacere femminile è clitorideo, edizione indipendente, Madrid e Verona 2021. ↩︎

Sarò brevissima. Vi dirò solo che ho letto questo catalogo come se fosse nuovo, completamente nuovo per me, perché me l’ero dimenticato. Rileggendolo, mi sono ricordata del lavoro intenso che abbiamo fatto tra noi, tanto che a un certo punto una di noi ha esclamato: “Kavan c’est moi”, perché si sentiva totalmente identificata con questa scrittrice, che molte di noi non conoscevano nemmeno. Abbiamo lavorato con profondità per due anni, e sono stati due anni di pura felicità. Abbiamo anche vissuto assieme con un’intensità straordinaria, per esempio i quattro giorni passati nella casa dell’UDI a Caspoggio, dove ciascuna aveva la libertà di portare la propria scrittrice, parlarne, proporla, difenderla. 

Per esempio, posso citare Jane Austen: in quegli anni era considerata una scrittrice leggera e divertente, adatta alle ragazze, non una grande autrice. Era interpretata in modo sbagliato, almeno qui in Italia. Solo dopo abbiamo scoperto che in Inghilterra era considerata tra i grandi della letteratura, una delle inventrici del romanzo moderno. Insomma, col nostro lavoro abbiamo contribuito a modificare la percezione di questa scrittrice. Ora, però, vedo che le più giovani non la conoscono, i suoi libri restano invenduti negli scaffali della Libreria delle donne, e anche questo va considerato. C’è l’occasione della ristampa del Catalogo, le più giovani potrebbero riscoprirla attraverso il Catalogo giallo

Lo stesso vale per Ivy Compton Burnett, che tra le nuove generazioni non passa. In Inghilterra è stata nominata Dame Commander of the Order of the British Empire dalla Regina Elisabetta II, nel 1967, ma qui in Italia, anche oggi, la Compton Burnett resta poco apprezzata. Anche in questo caso forse perché viene vista come una scrittrice divertente, e probabilmente qui non si apprezza lo humor inglese. 

A mio parere oggi entrambe le scrittrici sono ancora importanti, innanzitutto perché sono delle grandissime scrittrici e poi perché veicolano il simbolico femminile. Per esempio, Ivy Compton Burnett scrive il romanzo Madre e figlio, e nel suo svolgersi lei descrive due signorine, due ragazze in rapporto tra loro; lei legittima la relazione tra donne, anche il rapporto amoroso tra donne, del resto Ivy Compton Burnett amava le donne, aveva un rapporto amoroso con una donna. Insomma, lo descrive nel libro e quindi lo mette al mondo simbolicamente. 

Il nostro lavoro è stato così intenso che è diventato un libro, il Catalogo giallo, che oggi è stato ristampato. E l’abbiamo fatto con molto divertimento e con la consapevolezza che fosse un modo per darci dei principi, come dire, dei fondamenti, e poi poter andare avanti su quelli. 

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Le madri di tutte noi, 2 marzo 2025

Preparandomi a questo incontro – Le madri di tutte noi – ho pensato che per riuscire a parlare in un tempo ragionevole del Catalogo, che è così ricco di parole ed espressioni, l’unico modo era stare a quello che mi veniva in mente, anche se taglia via tanto altro.

Intanto, come è andato il mio incontro col Catalogo? Una volta Angela mi interpellò su come rispondere alla proposta di una rivista americana di tradurre e commentare testi femministi che parlassero del rapporto tra politica e letteratura e allora mi venne in mente il Catalogo giallo. Non lo avevo mai letto e per la verità non lo avevo nemmeno mai visto, ma lo conoscevo da Non credere di avere dei diritti, dove lo si ricorda, tra altre cose, come il momento della scoperta che le donne tra loro sono diverse. 

L’impasto di letteratura e politica fa parte anche della mia esperienza diretta: una gran parte del mio apprendistato femminista l’ho fatto coi romanzi. Leggere e condividere letture, spesso sul suggerimento di un’altra, mi ha dato un orientamento, un piacere, che potrei chiamare di visione, di un vedere, grazie a lei che ti dice qualcosa, qualcosa che già sai, in qualche modo, ma finora era solo dentro di te, e anche un piacere di rider sopra ciò che si vede, un piacere che ogni volta mi ha fatto sentire più ricca. È quello che ritrovo detto nelle parole che presentano la rubrica Libri preziosi,sul sito della Libreria: «Questo è un elenco tendenzioso e parziale di libri che ci hanno parlato. La scelta è dettata unicamente dalle nostre preferenze, e dal fatto che dopo ogni lettura ci siamo trovate a guardare la realtà con altri occhi». 

Quando ho letto il Catalogo vi ho trovato tutto quello che ho imparato a chiamare pensiero femminista del simbolico, nel suo farsi. Non credere enuncia i suoi punti molto chiaramente, sin da quando nel sottotitolo si definisce come il racconto della generazione della libertà femminile nelle vicende di un gruppo di donne… e ti dice subito, così, che la libertà femminile non è una cosa astratta, che «bisogna esserci per viverla» (come oggi la Libreria descrive la sua politica), va insieme alle donne che la fanno mentre la cercano, «preferendo altre donne»… 

Nel Catalogo è questo che circola, avviene, si addensa e trova dei momenti di espressione di particolare intensità. 

Per me il passaggio più importante, quello che mi ha toccata più profondamente, è quello con cui inizia la parte su Gertrude Stein, e che ora vi leggo; per me qui c’è l’assunto (se posso chiamarlo così) più potente della politica del simbolico, in tutto il brano e specie nelle parole conclusive, «Vuoto simbolico, pieno di esistenza».

Abbiamo letto i libri della Stein in ordine cronologico.

Più cresceva la complessità (o la semplicità) della scrittura, più cresceva anche il nostro coinvolgimento, più cresceva il suo distacco dalle ideologie più cresceva il nostro piacere, più la sua scrittura dava conto dell’esistente, più ci siamo sentite libere.

Una cosa è una cosa è una cosa e non più soltanto una rosa è una rosa è una rosa.

Una scrittura che dà conto della superficie, che dice quello che tutti vedono se guardano.

Una scrittura senza sforzo ed esatta, che accosta e non subordina eppure è precisa, che non ha centro, che non ha una direzione privilegiata e scardina ogni possibilità di gerarchia. Una scrittura senza soggetto, senza il soggetto del libro e senza il soggetto che scrive il libro, perché il genio – cioè lei – è solo chi dice quello che si vede, cioè quello che esiste.

Così l’autobiografia è di tutti, Ida è solo un nome più i fatti che la riguardano, ad avere un’identità la Stein rinuncia con tranquilla pacificazione.

Non a caso – lei dice – è stata una donna che ha saputo guardare, senza schemi di collegamento prefigurati nella mente o nell’occhio. Una donna perché le è più facile essere fuori dagli schemi conoscitivi, dalle ideologie.

Poiché non ha nessun interesse particolare da sostenere: la società, la memoria, la cultura, sono dei padri. 

Vuoto simbolico, pieno di esistenza. (p. 32)

“Vuoto simbolico, pieno di esistenza”, io me lo sono ridetto così: stare nel vuoto senza cadere nel nulla

Il “vuoto” è la consapevolezza che l’esperienza, l’esistenza femminile non è, se la cerchi nel simbolico “dominante”, ma quando raggiungi questo vuoto non cadi nel nulla, perché il vuoto è anche un silenzio, il finalmente tacere delle definizioni, dei costrutti, delle missioni o dei valori affidati alle donne e in questo vuoto-silenzio finalmente puoi sentire qualcosa. 

Nel Catalogo il passo che precede immediatamente quello su Stein dice: 

«Non temere più» «e anche io mi sono detta per giorni “non temere più”, ritornello che nel libro suggerisce che ciò che è stato perduto o di cui si è mancanti può essere ancora ritrovato o ricostruito» (p. 30. La Signora Dalloway).

Ciò che si è perduto e di cui si è mancanti è la relazione con la madre, l’altra, se stesse (e questo punto è il punto di tutto il Catalogo, di tutta la nostra politica); il dominio maschile si è espresso nella violenta intromissione nei rapporti tra donne e pertanto nel rapporto di una con se stessa (il tema delle prime pagine di Non credere, dicevo, e nel Catalogova quasi da sé che in Tre esistenze di Stein la storia del rapporto tra Melanchta e Rose è la storia di una «relazione femminile turbata dal rapporto con l’uomo»).

La posta in gioco, ciò di cui vi è mancanza, non è il riconoscimento, i diritti, o il potere (che altri detengono, che ti rinviano sempre a quel simbolico dove non sei) ma la capacità di stare in rapporto con la fonte della vigoria di ogni donna, e cioè con la propria simile (e questa mancanza può essere colmata da noi stesse, e solo da noi stesse, tra noi): «Ciò che ho visto nelle varie scritture per il tramite delle immagini partecipava sia della natura delle cose reali che delle cose immaginate, ma in entrambi i casi il linguaggio era legato a una pratica reale e all’ingiunzione di essere lì dove doveva essere, un luogo di donne» (p. 30).

Oppure: 

«Non ci troviamo più rinserrate tra mimetismo e silenzio: come Elsa Morante con le sue invenzioni, anche noi ne siamo fuori per qualcosa, la pratica dei rapporti tra donne e la riflessione su di essi» (p. 28).

Ecco che quando fai vuoto non cadi nel nulla. 

Come in altri innumerevoli aspetti del Catalogo, nel passaggio su Stein, da cui sono partita, è presente un tema che sarà svolto molte altre volte, per esempio tutte le volte in cui Luisa Muraro, come fa nell’Ordine simbolico della madre, ti dice “a un certo punto bisogna arrestarsi nell’ordine delle negazioni”, altrimenti finisci nel nulla davvero. Una complessa presa di posizione filosofica (la critica all’eccesso di costruttivismo) è una reale questione di vita. 

Il Catalogo ti invita a sostare nel vuoto, a non affrettarti a riempirlo. 

Il Catalogo dice chiaramente che un modo per non sostare nel vuoto, per non approfittarne, e allora per cadere davvero nel nulla, è anche cedere al troppo pieno, l’identità troppo intensamente ricercata, il dispendio emotivo per l’una o l’altra buona causa… 

Ci sono molti passaggi dedicati all’identità (Stein fa «una lotta contro l’identità» (p. 33) e le lettrici lo legano al suo modo di scrivere, aderente alla realtà, «che accosta e non subordina» (p. 32) col suo presentarsi slegata, frammentata: «L’adesione all’esistente riduce il problema di avere un’identità» (p. 38).

«In Ida si avverte la massima distanza dall’identità. Sappiamo che lei [Stein] non crede possibile né utile affaccendarsi per raggiungere un’identità, il problema – ripete lei – è essere, anche se ricercare un’identità è una piacevole debolezza della natura umana» (p. 43).

Quel quel che ne ho capito io, è che l’identità è anche uno schierarsi su fronti ideologici (Stein non prende posizione sul fascismo e la guerra, e alcune lettrici glielo rimproverano). Per esempio: Ivy Compton-Burnett, dice «“io sono un neutro”» e le lettrici scrivono «l’identità non le interessa» (p. 63). Proprio per questo può condurre la sua ironica, destabilizzante lettura del reale, che apre i buchi.

Luisa Muraro parla dei “buchi” (lo fa per esempio ne Le amiche di Dio), i buchi di un reale troppo compatto, necessari alla trascendenza femminile; il troppo pieno “tappa tutti i buchi” tutti gli strappi, gli scarti, le contraddizioni che vivi nell’apparente compattezza di un ruolo o, appunto, di una identità, e che invece servono perché passi la parola, l’esperienza, l’esempio, che ti dice che non sei affatto tutta lì, che nulla è tutto lì… i buchi servono perché da una trama fitta di “dover essere” che ti allontana dalla sua simile passi la tua simile, la preferenza per lei e quello che questo orientamento ti dà in più. Il Catalogo parla di “frammenti”, li preferisce, ma sono “i buchi”. Cose più preziose di una identità.

A me è questo che oggi risuona in modo forte del Catalogo, perché sento che siamo di nuovo chiamate a schierarci, a dare un’identità come si danno i documenti, e cioè a dichiarare da che parte stiamo… Spesso confrontate con una realtà che è realissima (la guerra) ma anche fantasmatica (Trump, Musk, le destre e le sinistre woke che “ci attaccano”…, tutte cose che si toccano e ci toccano, ma lo fanno in un modo strano, perché in realtà sono lontane, diverse, mentre risultano vicine, assimilate,  e questo mi ricorda quello che Stein non fa … con la sua lingua «che non è tirata a esprimere sintesi grandiose», lei evita di «collegare distanze di spazio e di tempo che non si potrebbero mai toccare nell’esperienza» (p. 37). 

Oggi, sento il peso e il pericolo di interpretare la mia posizione di donna come piegata a dover rispondere all’imperativo di offrire una sintesi grandiosa che metta a tacere tutti i conflitti, si dimostri al riparo da ogni contraddizione, sia inattaccabilmente nel giusto, mentre è diventata così insicura… Se io sono sicura che un mondo in cui il legame materno sia sostituito da una tecnica impersonale non è buono per nessuno, perché mi faccio incrinare dal dubbio di chi mi dice che difendere il legame materno li danneggia? Mi viene a mente una frase di Lia Cigarini, quando diceva, nella Politica del desiderio, che un diritto femminile sarà ben capace di occuparsi anche degli uomini, non lo abbiamo sempre fatto? Certo non lo faremo stilando un Programma di Gotha, però, non siamo venute al mondo per ripetere

Voglio dire, che qualche volta in questo oggi guerresco, militarizzato, fatto di amici e nemici, io oggi vivo la sensazione che il dover dimostrare che siamo dalla parte giusta ci tolga la parola, la parola per dire il modo in cui fa davveroproblema la realtà difficile dell’oggi, per ciascuna di noi nel suo concreto. 

Allora io sento il bisogno di pregare con Bachmann, e con Pia: «Parola, stai al nostro fianco» (p. 53). 

Questa espressione richiama la parola metonimica, che ti sta accanto, che non sostituisce ciò che senti e che sei, non annulla con un registro metaforizzante la realtà che viviamo, i disagi, le paure, le ambizioni, le delusioni e le mancanze. Con questo faccio mia una famosa (per me) frase del Catalogo: «difendendo la Stein difendo me stessa», «così anch’io autorizzo la mia anomalia a vivere» (p. 57). La politica delle donne come versione perfezionata, e cioè l’imitazione perfetta, il portare a perfezione la politica maschile? Io credo che qui ci sia un ricatto e un pericolo, che sono noti. Mi vengono a mente le frasi con cui il Catalogo va verso la sua conclusione, e che parlano secondo me dell’autorità femminile e della politica femminile, fatta di trama complicata e indefinibile, perché non imita e non ripete le relazioni e le gerarchie note, le loro identità, i loro schieramenti, ma molto concreta, perché fatta del riferirsi in concreto ad altre, e allora anche se ti senti persa non sei persa.

Perché «c’è un corpo nell’armadio, non ancora cadavere».

Ancor prima di un desiderio tra noi, abbiamo condiviso il piacere di un sospetto riguardo alla naturalità della nostra condizione nel mondo, e al pieno del simbolico maschile. Abbiamo sospetti particolari sul mondo e anche su di noi, da sostenere non in vista di una redenzione universale, ma nella particolarità di un’ironica esperienza femminile. Quando abbiamo cominciato a dire del vuoto (e ancor prima, già nello stare tra noi), abbiamo accettato un non senso. Da qui, Compton-Burnett insegna, si può trarre un piacere raffinato, quello che riesce a comunicarci con la sua scrittura. Che non si deve temere il non senso. Fra le streghe medievali e gli automi settecenteschi, c’è lo spazio delle ambigue libertà che stiamo abitando; a volte riusciamo a fissare qualcosa (un arco, un angolo, una stella, un segmento…) ma per lo più siamo allusive, rispolverando spesso una vecchia forma di comunicazione femminile mai lasciata impolverare: il pettegolezzo, il cui gusto non sta tanto nel giudicare, quanto nel renderci complici tessitrici di sospetti. Fuori dai momenti ufficiali delle riunioni, si crea tra noi una fitta rete di pettegolezzi, che alimentano i fantasmi, creano alleanze ansiose e precarie, ma anche alludono a un qualcosa che non ha altro modo di esistere. È un modo provvisorio di condurre i nostri giochi e indica che la soluzione non sta nella prepotenza di un giudizio o di un azzittimento, ma di una forza particolare che tenga conto anche di questa rete sospesa. (p. 67)

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Le madri di tutte noi, 2 marzo 2025

Le madri di tutte noi è il titolo del secondo dei fascicoli editi dalla Libreria delle donne di Milano dedicati alla discussione sui libri. Il primo, del 1978, Catalogo di testi di teoria e pratica politica – Sulla servitù della scrittura. E sulle sue grandi possibilità, detto Catalogo verde, riflette su libri e documenti legati alla nascita e alla crescita del movimento delle donne. Il Catalogo n. 2 – Romanzi. Le madri di tutte noi, detto Catalogo giallo, privilegia la scrittura letteraria, a partire da quella delle scrittrici preferite, Jane Austen, Elsa Morante, Gertrude Stein, Virginia Woolf, Ivy Compton-Burnett, Sylvia Plath, le sorelle Brontë… Pubblicato nel 1982 in collaborazione con la Biblioteca delle donne di Parma, da cui provenivano alcune del gruppo che l’ha elaborato, è frutto di due anni di incontri, raccontati in varie forme. In occasione dei 50 anni della Libreria delle donne di Milano lo abbiamo ristampato e lo riproponiamo, sempre alla ricerca di «una parola che stia al nostro fianco», come scrive una delle sue autrici citando un verso di Ingeborg Bachman. 

La prima cosa che mi ha colpito rileggendolo oggi, è che lì si manifesta in tutta evidenza il senso dell’aver scelto una libreria delle donne da parte delle femministe che l’hanno realizzata nel 1975. In quegli anni cominciava a diffondersi “la pratica del fare” insieme al parlare: alcune hanno aperto un consultorio, altre un bar… Queste donne hanno scelto di fare una libreria. Una scelta felice e fortunata. Penso di poter dire che il lavoro del Catalogo giallo incarni la necessità storica della Libreria delle donne di Milano, per le scoperte cruciali a cui l’esistenza di questa libreria ha portato: la genealogia femminile, la disparità, l’autorità… Il passaggio storico è avvenuto mettendosi in rapporto insieme tra lettrici con le scrittrici e le loro opere, i loro linguaggi, dove si è potuta cogliere quella differenza femminile che scompariva nel linguaggio di molti testi teorici femministi dell’epoca, che dovevano ancora usare le parole acquisite negli studi. Come dicono le autrici del Catalogo alla fine del loro lavoro, «alcune [di queste scrittrici] sono state delle inventrici di linguaggio, del nostro linguaggio» (p. 58).

E il titolo (titolo preso da un romanzo di Gertrude Stein) non poteva essere più giusto. Le madri di tutte noi sono le scrittrici e le madri di ciascuna donna, e la relazione con la madre che è dentro di noi e agisce nelle relazioni tra donne e con il mondo. Nei lavori sul Catalogo la consapevolezza della presenza in ciascuna donna della relazione con la madre emerge fin dall’inizio, come si vede nel racconto-riflessione sull’incontro residenziale di Caspoggio dell’ottobre 1980 (pag. 10 e seguenti). Lo sottolineo perché per me che non ero tra le donne che hanno fatto la Libreria e il Catalogo – io ci sono arrivata dopo, con la lettura del libro Non credere di avere dei diritti (1987) – questa scoperta della relazione con la madre è stata fondamentale, una delle cose della Libreria di cui sono profondamente grata, che mi hanno cambiato la vita, alla radice, cioè dalla relazione con mia madre. Prima ero concentrata a sottrarmi alla relazione con mio padre, e verso mia madre sentivo indifferenza, come se non contasse niente… Poi mi si sono aperti gli occhi e il cuore.

Le autrici non vengono indicate nella pubblicazione (come in altri testi femministi collettivi dell’epoca), tranne l’autrice delle vignette, Patrizia Carra, Pat. E ci sono alcuni testi firmati col nome. La parte sugli scambi a Caspoggio è scritta in prima persona e non è firmata. Ma qui vengono nominate (per nome senza cognome, tranne una per cognome senza nome) le partecipanti, e alcuni dei nomi citati sono ben riconoscibili, perché di donne che hanno continuato l’impegno in Libreria negli anni successivi, alcune fino a oggi, qualcuna anche qui in presenza o in zoom.

Una delle autrici è Lia Cigarini, che aprirà il nostro scambio insieme a due lettrici, Silvia Niccolai e Angela Condello, entrambe giuriste (come Lia). Angela Condello insegna Filosofia del diritto a Messina; ha scritto con Ilaria Boiano Lia Cigarini e il “vuoto legislativo” come libertà nel libro Femminismo giuridico (2019) di cui è anche una delle curatrici. Silvia Niccolai insegna Diritto costituzionale a Cagliari. Collabora con Via Dogana fin dagli inizi, discutendo negli anni ’90 le proposte di legge contro la violenza sessuale. Le abbiamo invitate oggi per il lavoro che hanno fatto sul Catalogo quando una rivista americana che si chiama Law&Literature ha chiesto a Angela Condello di scrivere sul rapporto tra “politica e letteratura nel femminismo italiano”; Angela ha proposto a Silvia di farlo insieme e hanno deciso di lavorare sul Catalogo giallo.

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Le madri di tutte noi, 2 marzo 2025

«Scartata la critica letteraria», scrivono le autrici alla prima riga del Catalogo giallo (1982, oggi ristampato), «diversi approcci erano possibili» (p. 1). Siamo appena all’inizio e ci troviamo immediatamente coinvolte in una ricerca, accanto alle donne della Libreria. Tuttavia, lo scopo di questo percorso non è ancora chiaro e verrà precisato nei testi del Catalogo (che hanno stili e temi vari): che cosa cercano, nella letteratura femminile (romanzi e poesie), queste donne di generazioni diverse? Delle madri che alimentino un simbolico femminile? Scrivono: «la trama del romanzo era seguita fino a che qualcuna non diceva: abbiamo inventato un altro romanzo… Fermiamoci ad analizzare questo nostro modo di leggere che confonde vita e letteratura» (p. 1). Come in un lavoro analitico, la letteratura è una sorgente di figure e codici che generano riflessioni e permettono di evocare episodi in cui identificarsi o da cui distanziarsi. A partire dai testi si riflette sulle proprie vite, e a partire dalle proprie vite viene risignificata la letteratura: le loro autrici sono Jane Austen, Emily Brontë, Charlotte Brontë, Elsa Morante, Gertrude Stein, Sylvia Plath, Ingeborg Bachmann, Anna Kavan, Virginia Woolf, Ivy Compton-Burnett.

Dove conduce la ricerca? Vogliono «vedere se i loro scritti, magari in misura ridotta, a sprazzi, momenti, facessero apparire un simbolico delle donne» (p. 1), e la rilettura delle scrittrici offre l’occasione per ripensare sé stesse e per far emergere «quello che andiamo cercando» per loro (p. 2). Come lavorano? Spesso scrivono: «alla rinfusa», «confondendo» i piani, prendendo tutte le direzioni possibili. Si tratta dunque di un lavoro genealogico portato avanti senza conoscere a priori l’origine verso cui le condurrà: le possibilità sono aperte e la genealogia serve a trovare quel che le donne sanno e quel che le donne sono.

Le scrittrici e le storie vengono deformate, ridotte a una frase o a una immagine, a una figura retorica: la madre al singolare (“The mother”, nel titolo di Gertrude Stein, The mother of us all) diviene «le madri», al plurale, a indicare proprio la possibilità di una moltiplicazione genealogica delle direzioni che il simbolico femminile può intraprendere e cioè qualcosa che è aperto in senso plurale, che non è detto una volta per tutte, che non cerca un «pieno» in cui stabilizzarsi ma cresce in uno spazio vuoto – che è quello in cui ciascuna può agire la propria libertà secondo forme anche impreviste. Si tratta di un lavoro genealogico che fuoriesce dalla condizione della necessità di trovare una e una sola origine o una e una sola identità: contro il «pieno» e «determinato» tipico dell’autorità maschile, le scrittrici sono il terreno dell’autorità femminile in cui pensare, dubitare e immaginare quello che le donne desiderano essere. 

La madre, le madri e l’autorità femminile in genere sono temi volutamente confusi nel Catalogo: scrivono (ripensando al seminario di Caspoggio del 1980) che non capiscono «perché i discorsi sulla madre arrivano sempre allo stesso punto» (p. 13) e cioè al punto in cui si dice che la madre è un limite a quel che una donna avrebbe potuto essere, godere o volere. D’altra parte, spesso questi sono fantasmi: dalla madre si è nate e il seno materno non può che avere una connotazione ambigua e ambivalente, come un farmaco platonico è infatti ragione e soluzione di problemi. In questo senso però la lettura delle scrittrici aiuta a non distorcere il proprio pensiero rispetto all’essere donne: rispetto alle scrittrici esiste sia una distanza sia una relazione, sono «altre» eppure sono anche loro stesse, sono figure femminili grazie a cui ogni donna può chiamare in causa tutto quello che non è e che vorrebbe, invece, essere o diventare (ecco ancora la possibilità genealogica). Meglio che nel lavoro individuale su sé stesse o sull’astratto materno, spesso troppo concettuale e metaforico (qui il pensiero va a Maglia e uncinetto di Luisa Muraro, naturalmente), le pagine dei romanzi o i versi delle poesie ci mettono davanti alla possibilità di poter essere – ora e subito – diverse «da come la società, madre compresa, immagina e vuole che una donna sia» (p. 13).

Nel movimento genealogico, com’è ovvio e naturale, accade anche che alcune scrittrici siano citate più spesso di altre e che i loro testi finiscano per essere più generativi di altri. Le ragioni per questa differenza sono molte. Scrivono (p. 49): «avete dimenticato le sofferenti e vi siete lasciate trasportare dall’interesse per le vostre preferite, come la Stein, Ivy Compton-Burnett e Austen. […] Si è creata, come per convenzione del gruppo, questa dimenticanza delle scrittrici infelici perdenti sofferenti suicide vittime». Tuttavia, non è stata negligenza né rimozione: semplicemente, alcuni codici e alcune trame le hanno condotte prima o meglio nella direzione in cui stavano andando, e questo è accaduto durante le letture, durate anni (come ci ha confermato Rosaria Guacci durante la redazione aperta del 2 marzo scorso): la distinzione se la sono inventata, è vero, ma è anche emersa indipendentemente dalla loro intenzione, in un processo molto più ampio di questa dicotomia fra vincenti e perdenti che è diventata possibilità per generare uno spazio che si espande ancora oggi, come la lunga conversazione in Libreria ha confermato.

Di nuovo, come allora, il Catalogo è una chiave che mette in comunicazione letteratura, esistenze femminili e lotta politica: le vite di Emma di Jane Austen o Ida di Gertrude Stein, delle lettrici dei primi anni Ottanta, e di noi lettrici di oggi sono intrecciate, si incontrano e poi si allontanano; tuttavia, luci e colori, così come modi e tempi della scrittura, si confondono. Chi sono loro, chi siamo noi, chi sono loro? Dietro questa domanda c’è un chiaro intento confusivo e produttivo insieme in cui i testi, «scartata» appunto la «critica letteraria» (p. 1) in senso tecnico, funzionano come spazi dell’immaginazione in cui le categorie e i determinismi sono abbattuti in favore della generazione di nuove possibilità (semantiche, esperienziali, esistenziali).

Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Le madri di tutte noi, 2 marzo 2025

L’invito alla redazione allargata di VD3 Sono soldi i soldi? ha suscitato in me un piacere particolare poiché fa riferimento a una conferenza di Luce Irigaray del 1984, Les femmes, le sacré, l’argent (Le donne, il sacro e il denaro), pubblicata poi nel volume Sessi e genealogie (Sexes et parentés) nel 1989, tradotto da Luisa Muraro. La storia di questo testo è parte integrante della mia vita personale e politica, avendo contribuito a segnare una svolta irreversibile. Incontrai Irigaray a Parigi, dove mi trovavo per una gita scolastica con le mie classi del liceo sperimentale a indirizzo linguistico di Fornovo Taro, con un preciso mandato della Biblioteca delle donne di Parma e dell’Istituto Gramsci1.

Irigaray era stata invitata come relatrice a una manifestazione pubblica. Avevamo deciso, con alcune della Biblioteca e del Gramsci, di proporre alla famosa filosofa femminista un tema che ci stava particolarmente a cuore e al centro del dibattito in quel momento storico: il rapporto delle donne con il denaro e con il lavoro, che tradotto in lingua materna voleva dire sciogliere il nodo fra emancipazione e libertà femminile. La posta in gioco teorica e pratica era per noi all’epoca la differenza sessuale. 

Alla Biblioteca delle donne2 avevamo costituito nel 1985 un gruppo di lettura mettendo a confronto testi di Simone de Beauvoir e di Luce Irigaray e proponemmo con Teresa Serra la lettura dell’Etica della differenza sessuale3. Noi lo leggemmo in francese perché non era stato ancora tradotto. Quel pensiero mi catturò. Un innamoramento repentino ma duraturo. 

Dare senso a questo assunto comportava un radicale spostamento di sguardo e di scelte di vita: stavamo di fronte a un bivio. Porre al centro delle nostre vite quel tema significava far perdere di senso tutto il resto. Con la baldanza della giovane età, in accordo con le colleghe, lasciai le mie classi in visita a Versailles e andai timorosa all’appuntamento con Irigaray. Ci incontrammo al Bois de Boulogne a casa sua, le spiegai cosa desideravo e lei mi propose appunto per la conferenza di Parma Le donne, il sacro e il denaro. Ripensando oggi a quella situazione e alla mia disposizione d’animo mi sono ricordata dell’allegoria di cui scrive Luisa Muraro in Al mercato della felicità, citando un antico testo mistico persiano. Racconta dell’anziana donna con gomitoli di lana come merce di scambio, che va al mercato degli schiavi e si mette in fila, pur avendo pochissime speranze di partecipare a quel tipo di transazione economica. «Ci sono tanti modi di andare al mercato. Cosa sarebbe infatti la vita senza grandi desideri?»4.

In quel periodo stavo preparandomi al concorso abilitante per il passaggio dalla cattedra di lingua russa, la cui opzione di scelta era stata eliminata dal piano di studi, all’insegnamento della lingua francese. Per me una sfida difficile. Le vicende storiche erano stringenti e io ero a rischio poiché vivevo sola in affitto in una mansarda, avendo lasciato la mia città e la famiglia. Senza le relazioni con le donne cui mi affidavo non so se sarei riuscita ad affrontare, senza perdermi, questo complicato crocevia di strade e a trovare la via giusta, cioè a orientarmi per mantenere l’indipendenza economica e la mia libertà. Mi dibattevo dentro di me mentre mi si presentavano alternative varie come la possibilità di lavorare all’estero, in Unione Sovietica, alla fabbrica di auto di Togliattigrad con buone prospettive di guadagno, ma io intuii, più che sapere con certezza, che mi si stava aprendo una vita migliore, intravidi un orizzonte di libertà, situazioni nuove, forse già viste in sogno, più attraenti del denaro e più promettenti di felicità e di piacere. E così fu che abbandonai la strada dell’emancipazione senza libertà. Un distacco totale dalla mentalità corrente. Un periodo molto fertile che durò dieci anni di intense letture, di passioni, di esperienze, di scambi, di relazioni, di turni alla Biblioteca e andirivieni con la Libreria nel sottoscala di via Dogana, 2.  Superai brillantemente il concorso nazionale a cattedre con approfondimenti alla prova orale su Simone Weil, Marguerite Duras, Colette ecc. Imboccai un nuovo corso, mettendo in atto in pratica il taglio della differenza nel mio lavoro e nella vita. Come scrive Laura Colombo, in questo modo, per quanto mi riguarda, abbiamo dato vita a «un mondo comune delle donne».

E come scrive Irigaray: 

«Un pensiero che misconosce le sue fonti [intende il lavoro non pagato delle donne e il lavoro del pensiero sottopagato, Ndr] e le risorse naturali non è realmente un pensiero o è un pensiero pericoloso per la vita. Parlare o tentare di pensare il sublime vale se il sublime rispetta ciò che ha permesso di pensarlo: la natura, micro e macrocosmo. Tutto il resto è tecnocrazia che separa la testa dal corpo, dai corpi, facendo di noi dei fantasmi da una parte, delle macchine serve dall’altra […]. Il denaro non dato al posto giusto, in una società come la nostra, ne squilibra l’organismo»5.La mia scommessa non è stata una mera utopia. Ho sentito negli interventi dal pubblico così come nei racconti delle proprie esperienze e scelte di vita e di lavoro delle relatrici un continuum del ragionare e dell’interrogarsi sulla realtà, che si nutre del pensiero di una genealogia che affonda le sue radici nel passato e crea futuro.

  1. Vedi più in dettaglio Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, a cura di Marina Santini e Luciana Tavernini, pp. 62/63, Il Poligrafo, 2015. ↩︎
  2. Il ricco fondo della Biblioteca intitolata a una delle fondatrici, Mauretta Pelagatti, è diventato nel 1997 patrimonio consultabile della Biblioteca pubblica comunale U. Balestrazzi della città di Parma.  ↩︎
  3. Luce Irigaray, Etica della differenza sessuale, Feltrinelli, 1985. ↩︎
  4. Luisa Muraro, Al mercato della felicità. La forza irrinunciabile del desiderio, prima edizione Mondadori 2009, pag. 5.  ↩︎
  5. Luce Irigaray, Sessi e genealogie, la Tartaruga edizioni, 1989, pp.101-102. Prima edizione. ↩︎

Trascrizione dell’intervento durante il dibattito del Seminario La vita alla radice dell’economia tenutosi a Verona (11-12 maggio 2007), pubblicata in Vita Cosentino e Giannina Longobardi (a cura di), La vita alla radice dell’economia, Mag, Verona 2008, pp. 52-53.

Il senso del denaro così come lo conosciamo noi varia molto da persona a persona. Mio nipotino di dieci anni non ha ancora il senso del denaro: quando esce con me sua madre gli dà dei soldi che mette in tasca e poi lui si ferma davanti un’edicola e vuole che io gli compri qualche cosa. Vuole che io gli compri qualcosa. Avrebbe tutti i soldi necessari per comprare ciò che vuole, sono soldi suoi, glieli ha dati sua mamma per lui e non ha posto condizioni, ma lui vuole che la cosa gliela compri io e fa delle scene terribili per avere comprato qualcosa che potrebbe comprarsi da solo. Una volta però siamo andati in centro e si è ricordato che aveva i soldi e ha detto: nonna ti offro un gelato; siamo andati in una gelateria del centro di Milano e tutti i soldi che aveva se ne sono andati. Non ha pensato che questi soldi sarebbero tot figurine, tot bustine. Allora ho pensato: il denaro si presenta come un sacramento della felicità, perché avendo i soldi si può. A me è capitato che quando ho una somma imprevista penso: posso comprarmi questo o quello. La somma, anche piccola, mi dispiega davanti una straordinaria ricchezza di possibilità. Finché il denaro resta sacramento di felicità può essere, come nel caso di mio nipote, la possibilità di fare festa insieme ad altri. Se posso portare mia nonna a mangiare il gelato che le offro io, divento più grande, più importante. Finché i soldi contengono questa possibilità la cosa è in bilico: e esplicano la loro natura di medium che si avvicina alla cosa spirituale. Non è che sono un mezzo come può essere una scala per salire, hanno un potere parlante straordinario. Ma cosa capita quando quella cosa lì si impadronisce totalmente di noi? Secondo Max Weber il denaro sarebbe il segno della predilezione divina: cioè chi ha più soldi sarebbe prediletto da Dio. Finché conservano questo valore di segno, i soldi non possono fuorviarci. Ma c’è un momento in questo equilibrio precario, instabile, ambiguo in cui il denaro non resta segno e diventa come si dice una “cosa potente” che comanda e diventa profitto. E sappiamo che anche il profitto è una cosa straordinaria. Io cito sempre questi piccoli industriali del Veneto che su aerei assolutamente inaffidabili, appena è caduta la cortina di ferro si sono fiondati nell’Europa dell’Est, qualche volta cascando. Per loro il denaro è un segno. Non erano degli avari, bramosi di denaro, il denaro voleva dire imprese, ingrandimento, profitto. E ciò ha trascinato in imprese che sono il grande potere del capitalismo che ha ripreso alla grande con la globalizzazione, coinvolgendo l’umanità intera dentro questa dimensione. La mia indicazione è che non si può demonizzare il denaro e neppure il demonio, perché restano ugualmente affascinanti. Non c’è niente da fare, sono le energie passionali che bisogna ricondurre alla fonte, restituire al denaro questo suo valore di segno, di sacramento. Come fare? Allora mi pare che sia quello che ha detto Vita Cosentino, citando Ina Praetorius: bisogna costantemente richiamarci alla cosa che più ci interessa, che più ci piace, che più conta. Per una minoranza potrebbero essere veramente i soldi, il profitto, il successo, ma per la stragrande maggioranza, se si risale fino all’amore alla gioia dei propri figli, dei propri bambini, se si prova a risalire agli elementi moventi e a ritornare con altri al cuore della faccenda, non i soldi ma le potenze passionali sono moventi ovvero la felicità e l’amore come ci ha detto Babacar. Non si può farlo in chiave strettamente morale, anche se è moralità questa, ma bisogna che sia un processo di una moralità vissuta in una sorta di libertà. Leggere il senso dei nostri comportamenti senza moralizzare, ammirare capitalismo, fino a un certo punto, per questa energia mobilitante e vedere che al fondo di questa energia ci sono cose che possono diventare centrali come l’amore, la felicità rendendo realistico il desiderio di felicità, non in alternativa ai soldi, ma a monte del profitto. Questo mi viene in mente di dire a Giannina Longobardi che si interrogava su quale rapporto ci sia tra soldi e spiritualità, perché negli studi che ho fatto io sugli inizi della mistica moderna – quella alla fine del Medioevo, dove entrano in gioco le donne – nascono insieme. Perfino nel linguaggio delle mistiche del Due-Trecento come Margherita Porete, che scrivono in lingua materna ritroviamo parole come impresa, approfitto, mercato. Tutto un linguaggio che poi diventerà quello del capitalismo si trova all’inizio come un linguaggio spirituale. Il capitalismo ha origini nella spiritualità ed è possibile risalire la corrente, anche se è un processo complesso, e ritrovare quella cosa là.

Parlare di soldi è difficile e inconsueto, ma dice molto delle nostre vite e delle nostre storie. Laura Colombo nella sua bella introduzione a questo numero di Via Dogana 3 ha raccolto le posizioni davvero contrastanti emerse in redazione in due polarità: le utopiste, cioè a dire le femministe degli anni ’70 come me, e le individualiste edoniste a indicare l’esperienza delle femministe di ultima generazione. A suo stesso dire è uno sguardo che può sembrare cinico, di una che per età anagrafica sta nel mezzo.

È interessante notare che è stato proprio l’urto che sentivamo le une nei confronti delle altre a darci parola e intelligenza delle cose. In assenza (e per fortuna!) di quadri generali, di riferimenti ideologici e quant’altro, il partire da sé per confrontarsi con fiducia e apertura si conferma una delle risorse principali per pensare. 

Dirci con franchezza non solo gli elementi di esperienza ma anche le emozioni negative – che spaziavano da “quelle vivono in un mondo di fiaba” a “quelle altre sono schiave del capitalismo” – ha aperto sprazzi di luce per capire cosa c’era in ballo. Ci ha poi spinte a cercare testi del passato e del presente che ci permettessero di articolare più a fondo la questione. Per me rimane imprescindibile il riferimento a un testo di Luce Irigaray del 1984: si intitola Le donne, il sacro e il denaro, ed è contenuto in Sessi e genealogie. Irigaray afferma che viviamo in società segnate da un forte squilibrio in quanto il denaro non va nei posti giusti: i lavori indispensabili, che costituiscono l’infrastruttura al funzionamento della società, sono compiuti dalle donne e dagli/e intellettuali e invece di essere riconosciuti e valorizzati, sono gratuiti o sottopagati. Oggi constatiamo che lo squilibrio e la sregolatezza si sono ulteriormente accentuati, creando concentrazioni di ricchezza e disuguaglianze inaccettabili. Io penso che nel ragionare attorno al denaro non possiamo perdere questo riferimento che ci orienta, che continua a dirci che è necessario un cambiamento alla radice, nella concezione stessa dell’economia. Da anni a questa trasformazione lavorano svariate pensatrici femministe e io mi riferisco a quelle che hanno rovesciato il paradigma, come Ina Praetorius per la quale “se l’economia è l’insieme dei mezzi per soddisfare i bisogni della vita umana, il denaro e il mercato sono risposte secondarie rispetto alla potenza delle relazioni”. 

Per quanto riguarda la mia vita, Laura C. mi vede come un’utopista e devo dire che, se è utopia la mia, è un’utopia molto concreta perché sono arrivata alla vecchiaia mantenendo quella impostazione e non ho rimpianti, anzi sono contenta della vita e delle scelte che ho fatto. 

Ma è davvero utopistica una cosa che riesci a fare pensando di poterla fare? Oppure si tratta di una postura da cui si può guadagnare in libertà e che può riaprire i giochi anche in climi pesanti come l’attuale? Per me, infatti, c’è sempre qualcosa che puoi fare. 

Comunque è vero. Se guardo indietro, nella mia vita il denaro e la carriera hanno avuto un posto secondario, nel senso che non sono stati i fattori che orientavano le mie scelte. Appena laureata mi è stato offerto un posto di assistente all’università, ma io in famiglia mi sentivo soffocare e ho preferito scappare di casa con pochi soldi in tasca: il mio desiderio di libertà era più forte. Ho messo 600 km di distanza tra me, finalmente libera dall’oppressione familiare, e quel posto all’università. È anche vero, però, che allora, nel ’68 e dintorni, c’erano condizioni più favorevoli e in primis metto un aspetto soggettivo: un senso più comunitario del vivere. Fiorivano le “comuni”, in tanti e tante scappavamo di casa e volevamo inventarci una vita. Con lavoretti precari, necessità minime, acquisti solo ai mercati, aiuti che ogni tanto arrivavano, si pensava di potercela fare. Non erano belli quei tempi, ma avevamo dentro una passione bruciante e a tutti gli effetti nel ’68 e poi nel femminismo la politica e il desiderio valevano più del denaro. 

Se guardiamo poi al femminismo della seconda ondata vediamo che ha avuto sì origine da grandi donne intellettuali di ceto elevato, alto borghese e anche aristocratico, ma è stato sostanzialmente un movimento interclassista, all’interno del quale avere molti o pochi soldi non era un elemento particolarmente significativo. Se penso alla Libreria delle donne di Milano c’erano moltissime insegnanti come me e anche operaie e sindacaliste, accanto ad avvocate, professoresse universitarie, giornaliste, artiste e via dicendo. 

Costruire società femminile ha rappresentato un cambiamento significativo nelle nostre vite, perché ha creato un mondo in cui muoversi con agio. In questo contesto tuttavia è importante notare che la società femminile è anche stata un veicolo di redistribuzione della ricchezza, perché le più ricche erano anche generose. I rapporti che si intrecciavano in tutta Italia significavano anche ospitalità, inviti a cena, feste. Ricordo un episodio a Verona alla fine del primo convegno di Pedagogia della differenza: eravamo felici per la riuscita dell’iniziativa e con la voglia di stare ancora insieme abbiamo quasi imposto ad Anna Maria Piussi, docente universitaria fornita di una casa grande e bellissima, di organizzare una festa per tutte noi. 

Laura Colombo mi chiama in causa ancora a proposito della sanità pubblica, per mostrare quanto sia cambiata in peggio rispetto a come io ne ho parlato del 2009, quando sono stata colpita da quell’accidente che mi ha reso invalida. Si riferisce a un mio testo presentato al Grande Seminario di Diotima di quell’anno: Sono una donna ricca. Il senso principale di quella riflessione – e qui mi rivelo ancora come utopista  era proprio quello di far vedere come le relazioni siano un vero e proprio “capitale” e come in quella occasione il “capitale” mi sia tornato indietro, permettendomi di affrontare una situazione a dir poco difficile. C’entra anche il denaro: nel testo portava ad esempio il fatto che mio marito Guido era stato ospite della mia amica Giannina Longobardi da maggio a settembre, per tutto il tempo che ho passato in ospedale a Borgo Trento e nel centro di riabilitazione di Negrar. Se avesse dovuto pagarsi un albergo, non avremmo potuto permettercelo. È vero però che in cambio, durante le vacanze di agosto, Guido curava i loro gatti.

L’altra forma di ricchezza che individuavo in quel testo era vivere in Italia, cioè era una ricchezza sociale data da una sanità pubblica che funzionava bene: infatti io ho ricevuto cure tempestive e prolungate e riabilitazione e controlli sanitari senza mai pagare un soldo. 

Laura ha ragione a dire che oggi non è più così e anche io sono costretta a fare analisi a pagamento, perché i tempi di attesa sono troppo lunghi. Tuttavia il passaggio che manca al suo ragionamento e che mi sembra mancare troppo oggi, è l’idea della lotta per affrontare le situazioni che ci coinvolgono e ci riguardano. Idea che io invece ho avuto presente fin da adolescente, dovendo lottare ogni giorno contro un padre autoritario. La buona sanità di allora non è piovuta dal cielo, è frutto di una stagione di lotte sociali che hanno molto cambiato l’Italia. Si può lottare in tanti modi, anche con le parole, che è la lotta che preferisco, ma il primo passo è averlo in mente. 

Al riguardo la questione si intreccia saldamente con un altro elemento emerso soprattutto dalla introduzione di Daniela Santoro: l’individualismo, che è la cifra dell’oggi. Ritengo sia arrivato il momento di metterlo davvero in questione. 

C’è un individualismo inconsapevole, indotto dai tempi neoliberisti in cui viviamo, che nelle più giovani rischia di diventare una forma mentis. Non ne siamo esenti neppure noi che pratichiamo una politica delle relazioni. Infatti lo riscontriamo perfino nel quotidiano del lavoro della nostra redazione. Emergono forme di iperautonomia, laddove si pensa che fare le cose da sola valga di più di farle con le altre; quasi sfugge che siamo sempre e comunque in una rete di relazioni e quello che facciamo o non facciamo si ripercuote anche sul lavoro delle altre. Soprattutto è inibito il gesto di “chiedere aiuto”. Se stiamo facendo un lavoro comune e una redattrice sente che non ce la fa perché subissata da impegni personali, per prima cosa pensa che deve comunque farcela, invece di pensare di chiedere aiuto. Questo alla fine produce rinvii su rinvii, attese su attese, e genera molte tensioni nelle relazioni. 

Tornando al denaro è inevitabile che assuma molta più importanza se ci si pensa da sola/o ad affrontare la vita. Diventa l’unico mezzo a disposizione per soddisfare i propri bisogni. Nella solitudine delle proprie esistenze poi aumentano i bisogni indotti dal capitalismo legati a oggetti che si sente si debbano assolutamente possedere. 

Uscire dall’individualismo è prima di tutto un atteggiamento interiore e in questo orizzonte “chiedere aiuto” sembra diventare il primo passo di una rivoluzione.

Pubblichiamo questo testo uscito sulla rivista Mediterranean n. 2 del 1996 (ed. Mediterranea Media) perché si riallaccia all’argomento di questo numero di Via Dogana Tre, “Sono soldi i soldi?”, trattandolo dal punto di vista della necessità di un mezzo di scambio materiale e simbolico che dia atto degli scambi tra donne per concretizzare una civiltà femminile e tra la società delle donne e gli uomini. Il denaro storicamente ha sempre avuto anche questa funzione di scambio simbolico e riconoscimento e le riflessioni e l’esperienza qui contenute sono un prezioso contributo alla nostra riflessione attuale. Anche la redazione di Via Dogana una volta ha retribuito con la moneta Gea (riprodotta nell’immagine qui sopra) le autrici degli articoli di un numero e il senso di riconoscimento ricevuto è stato forte. (La redazione di VD3)

Relazioni tra donne, patti tra donne, progetti tra donne: fondamento di civiltà.

Significare questo in maniera tangibile.

Il movimento femminista degli anni settanta e ottanta in America e in Europa, pur nelle sue differenti anime e manifestazioni, era venuto a creare qualcosa sentito da molte che lo abitavano come territorio comune, identità comune; un embrione di quel “mondo comune delle donne” della cui necessità aveva parlato Adrienne Rich, il cui pensiero aveva stimolato riflessioni feconde nel femminismo italiano. 

«Le donne hanno e non hanno avuto un mondo comune. Il semplice fatto di condividere un’oppressione non costituisce un mondo comune… La nostra è la storia del genere umano, ciononostante ogni battaglia intrapresa dalle donne per una condizione più “umana” è stata relegata negli spazi a pié pagina, ai margini. Soprattutto è stata negata la forza storica dei rapporti tra donne. […] Per poter avere un’ininterrotta continuità di valori e di tradizioni, abbiamo bisogno di prodotti concreti, di manufatti, di parole da leggere, di immagini da guardare, un dialogo reale con donne di coraggio e di immaginazione che hanno vissuto prima di noi… Le donne del patriarcato non hanno potuto costruire un mondo comune se non in riserve, attraverso messaggi in codice.»1

Stavamo sperimentando la vita nel movimento delle donne come un embrione di nuova socialità che si nutriva di scambi tra noi, e la ricerca di tante, spesso artiste, era volta a trovare o ritrovare la connessione con una “sacralità” che ci fosse propria.

Emergeva la necessità di un Divino Femminile collettivo e pubblico.

Nei primi anni ’70 la teologa americana Mary Daly, dopo aver invano tentato un dialogo “da donna a uomini” all’interno della Chiesa Cattolica, durante una cerimonia religiosa pubblica solenne in cui era stata, prima donna, autorizzata a parlare dal pulpito, con un gesto clamoroso invita le donne presenti ad «uscire dalla Chiesa patriarcale»; molte accolgono l’invito alla lettera e lasciano l’edificio sotto l’occhio “sbalordito” delle telecamere.

Nel 1985 la filosofa francese Luce Irigaray, molto amata in Italia, scriveva: 

«Per accedere ad una organizzazione sociale occorre alle donne: una religione, un linguaggio, una moneta di scambio o un’economia non mercantile… Voler instaurare una nuova socialità non esclude che noi viviamo in quella che già esiste: una società sacrificale, tecnica, tecnocratica, fatta e governata da soli uomini. È tuttora vero più che mai. Come inaugurare fra noi certi riti per abitarvi e divenire lì donne in tutte le nostre dimensioni? Come creare, fra noi, dei sistemi di scambi? Non conosco società che abbiano vissuto nel e dello scambio fra donne. È forse esistito tanto tempo fa? Esiste forse ancora lontano da qui? Ma dove sono le tracce di una moneta fra donne? E di un Dio fra donne?»2

Su questo sfondo, in questa cornice, nel corso degli anni ottanta si era sviluppato a Bologna, a margine o lontano dai circuiti ufficiali, il lavoro di alcune artiste: “Profete e Sibille”, creatrici di immagini e di parole volte a costruire mondo, lanciate come ponte verso altre donne animate dalla stessa passione.

Nascevano nuove Scritture Sacre: Oltre l’Apo-calisse, profezie-metafora in un ipotetico Libro Sacro femminile, che apre un capitolo di nuova civiltà che chiama al superamento del dominio patriarcale:

«E la MADRE mi disse: “Vai, e che il tuo grido echeggi per ogni dove, e sovrasti la voce delle tempeste e sia maggiore dell’urlo dell’Oceano. Si accordi alla voce delle cascate e al canto dei fiumi. Che i vulcani siano muti, a suo riguardo.

Non verserai lacrime se non di gioia da che hai conosciuto la mia potenza. La mia potenza è la vostra potenza. Tua e delle mie figlie dilette. Quelle che non mi rinnegano. Le vostre voci come rivoli dai monti scenderanno, si uniranno tra loro a formare un grande fiume.

Il popolo di Giuditta ascoltò Giuditta e fu salvo.

il Popolo di Cassandra non ascoltò Cassandra e fu distrutto.

Se il popolo della Terra non ascolterà la vostra voce, tutto sarà distrutto […]”»

Genesi per divina fanciulla, la scrittura di una nuova Genesi:

«In Principio era il caos: ma la Madre

era presso la Figlia e il verbo presso di loro

e neppure una delle cose create senza la loro unione è stata fatta:

in esse era la vita e la fine della vita, il moto

così che nella luce l’ombra e ombra è luce

né delle Tenebre nessuna avrà mai più paura […]»

Avevamo una passione per la trascendenza, ma anche l’immanenza ci segnava con il suo peso. Una moneta a significare il valore di questo fondamento di civiltà. Una moneta: Gea*, a ricordare l’origine di tutte e di tutti noi.

Da tutto questo fermento vitale, che rimaneva invisibile a chi non vi fosse immersa direttamente, derivavano lente trasformazioni, ricchezza per le nuove generazioni, che ne fruivano non consapevoli della sua origine, ricchezza talvolta sottovalutata e dimenticata dalle stesse che l’avevano prodotta.

Capitava infatti alla realtà del movimento femminista lo stesso “oscuramento” che, come per destino ineluttabile, cancella sistematicamente dalla coscienza collettiva di donne e uomini la presenza e il valore delle attività femminili dalle quali ha origine e sulle quali si sostiene ogni società umana, sottraendo così alle donne stesse la consapevolezza delle proprie potenzialità, avvolgendo la percezione che esse hanno di se stesse e del proprio agire, in un limbo senza tempo e senza peso.

Come, allora, rendere visibile e tangibile l’esistenza degli scambi preziosi che avvenivano e avvengono tra noi donne, come mettere in luce il loro valore?

Noi abbiamo scelto la lucentezza del rame, dell’argento e dell’oro modellata dal conio in moneta di segno femminile: nel 1990, a Bologna, viene coniata la Gea. Secondo alcune statistiche dell’Unesco del 1983, «le donne rappresentano il 50% della popolazione mondiale e un terzo della forza lavoro ufficiale, però effettuano quasi i due terzi delle ore totali di lavoro, ricevono solo la decima parte del reddito mondiale e possiedono meno della centesima parte della proprietà immobiliare mondiale». Per la maggior parte di noi donne il rapporto col denaro è difficile; l’esigere di essere pagate, il contrattare denaro per noi stesse è sentito come la rottura di un tabù sociale.

Il danaro infatti è sotterraneamente percepito come “attributo sessuale secondario” del maschio, quasi simbolo del suo atavico diritto a stabilire la gerarchia dei valori sociali.

Mettere in campo una moneta femminile implica il riconoscimento dell’esistenza di un mondo di valori stabiliti e concordati fra donne e dare a questo mondo uno strumento di dialogo e di scambio con il mondo dei valori stabiliti e concordati fra uomini.

Fare che questo significato tangibile circoli ovunque e potenzi l’azione delle donne.

Così la moneta ha incominciato a circolare, segnando simbolicamente scambi avvenuti tra donne o con uomini che riconoscono e rispettano il “nostro territorio”.

Con gee d’oro abbiamo pagato simbolicamente donne che con il loro lavoro teorico e politico hanno contribuito in maniera determinante alla nascita dell’Associazione Gea. Abbiamo pagato simbolicamente con gee d’argento e di rame donne e anche uomini che hanno sostenuto la nostra associazione in vari modi. Abbiamo donato gee ad altri gruppi per sostenere loro iniziative. Donne e anche uomini hanno comprato monete per sé o per pagare simbolicamente altre.

La gea, così, ha incominciato a segnare l’appartenenza a (o il riconoscimento di) un “mondo comune delle donne” ancora frammentario e poco visibile, e gli scambi che avvengono in questo e tra questo e il mondo fatto e governato dagli uomini. Ne viene un senso di identità che rafforza i legami tra donne.

Nate da un piccolo gruppo di “visionarie”, le gee hanno la vocazione di appartenere a tutto il genere femminile.

Nel “villaggio globale” esse aspirano a divenire simbolo e sostegno di quell’economia libera, informale, praticata soprattutto dalle donne che, assieme all’economia di natura, è alla base della qualità della vita e che, come sottolinea l’ecologa femminista Vandana Shiva, è in via di sistematica distruzione per far posto alla crescita dell’economia di mercato mondiale, quella definita da Hikka Pietila «economia incatenata»3 (in contrasto con la definizione di economia libera, aperta, che ne dà la maggior parte degli economisti) distruttrice dell’ambiente, generatrice di fame e malsviluppo, in cui «il dollaro è eletto a misura estrema del valore»4.

Così nell’autunno del ’94 ha incominciato a costituirsi la Rete Gea, della quale possono far parte gruppi, associazioni o donne singole, attive nella creazione di società femminile, che desiderano fare proprio l’uso della moneta.

Ogni appartenente alla rete può incominciare a “sentire” la moneta e ad usarla secondo il proprio sentimento nei limiti del rispetto di alcune regole concordate anno per anno.

Nasceranno proposte per nuovi modi di utilizzo? Si aggiungerà invenzione ad invenzione, tale da aiutarci a costruire un mondo più vivibile per ognuna e per ognuno? 

(*) Dea primigenia della Terra, uscita dal Caos.

(Mediterranean, n. 2/1996) 

  1. Adrienne Rich, Segreti, silenzi, bugie, citato in “Sottosopra”, gennaio 1983. Gruppo n. 4, Libreria delle donne, Milano. ↩︎
  2. Luce Irigaray, Le donne il sacro e la moneta, in “Luce Irigaray a Parma”, supplemento di “Un posto al centro della Biblioteca delle donne”, Parma 1985/86. ↩︎
  3. Hikka Pietila, Tomorrow begins today, ICIDA/ISIS Workshop, Nairobi. 1985. ↩︎
  4. Vandana Shiva, Organizzazione mondiale del commercio. donne e ambiente: un’analisi ecologica e di genere del “liberismo”, Research Foundation for Science, Technology and Natural Resource. Policy, A60, Hauz Khas, New Delhi-110 016, India. Traduzione italiana: Pianeta Donna, campagna Nord/Sud.  ↩︎

Ho partecipato da remoto all’incontro di VD3 Sono soldi i soldi? ma non sono intervenuta, sia perché troppi pensieri e ricordi si affastellavano nella mia mente in modo disordinato, sia perché il confronto, molto ricco, portava in diverse direzioni, non sempre facilmente riconoscibili e conciliabili. O forse avevo semplicemente bisogno di pensarci su.

E ci ho pensato, lasciando affiorare gli interventi che più mi avevano colpito. Molte delle donne intervenute, la maggior parte direi, ha collegato la propria attuale posizione rispetto al denaro all’ethos di famiglia, riconoscendo – direttamente o non – una sorta di genealogia di atteggiamenti e scelte. E più di una ha menzionato le condizioni economiche difficili della propria famiglia, un retroterra di sacrifici, vissuto con un disagio non solo materiale ma anche simbolico, quasi all’insegna della vergogna, che in molti casi peraltro è stato di stimolo all’emancipazione personale.

Io, al contrario, vengo da una famiglia dell’alta borghesia padovana. Ho avuto il classico padre-padrone, dominante su moglie e figli, che ha imposto una morale famigliare e sociale sulla misura dei soldi, fino ai titoli nobiliari. Come è stato detto nell’incontro, il denaro non solo come mezzo materiale di scambio, ma anche come codice simbolico. Fin da piccola ho respirato questa morale di dar valore a persone, amicizie, eventi, scelte di vita, in base alla capacità economica: i soldi come misura di tutto. Ho vissuto anche l’assurdità della dipendenza di mia madre – che pur proveniva da una famiglia facoltosa – da lui e dalla sua scarsa generosità (per non dire avarizia) nel privato del ménage familiare, mentre in tutto ciò che entrava nello scambio sociale visibile si poteva (si doveva?) esibire la nostra posizione economica previlegiata. Classico esempio di scissione tra privato e pubblico. Nella mia famiglia la cultura contava niente, o quel poco che mia madre riusciva a far circolare e trasmettere a noi figli. 

Nell’adolescenza ho cominciato a riconoscere il mio disagio di fronte a questa doppia morale, come di fronte alla dipendenza economica, per nulla giustificata, di mia madre dal volere paterno. E ho maturato un forte desiderio di indipendenza oltre a costruirmi gradualmente una mia visione del mondo. Sono diventata una comunista (più tardi vicepresidente dell’Istituto Gramsci Veneto), ingenua, ma ostinata a tener testa a mio padre nelle pochissime occasioni in cui si parlava di politica in casa. E quando terminato il ciclo liceale con la maturità, mio padre decise che per me la continuazione degli studi era fuori gioco, tanto potevo aspettare il matrimonio, ho combattuto per fare l’università, con il sostegno seppur debole di mia madre. Avevo in mente l’indipendenza economica, il potermi creare una strada tutta mia, ma anche risuonava in me come un’attrazione l’esempio del mio bisnonno materno, uno scienziato – entomologo di fama – alcune scoperte del quale avevo studiato nei manuali del liceo. La cultura per me era un bene necessario, non sostituibile con succedanei quali il benessere economico e la rete delle amicizie che contavano agli occhi di mio padre. E quando ho portato a casa in dono ai miei il mio primo libro, pubblicato all’età di ventisei anni, quasi come ringraziamento per quanto avevo ricevuto da loro, credo avrebbero preferito la presentazione di un fidanzato benestante. 

Ho avuto la fortuna (non senza qualche fatica e sacrificio) di entrare presto, appena laureata, all’università e il lavoro di docente universitaria, svolto fino alla pensione, mi ha dato oltre all’indipendenza economica molte soddisfazioni, la gioia di rapporti significativi con studenti e colleghe/i, molti scambi e viaggi all’estero, lotte e impegni condivisi per trasformare l’università, fino a incontrare le donne con cui sarebbe nata la comunità filosofica Diotima. In Diotima non abbiamo mai parlato di soldi, non perché fosse un tabù, ma perché di soldi non c’era e non c’è tuttora bisogno, essendo una comunità, eterogenea per età e provenienza sociale, che trova ospitalità (finora gratuita) nelle aule universitarie per gli incontri periodici e il grande seminario annuale. È stata una scelta politica fin dall’inizio.

Sono vissuta del mio stipendio fino alla morte dei miei genitori. Allora ho ereditato. Ma ho anche subito ceduto una parte dell’eredità al mio primogenito, sia per alleggerire il mio carico economico che sentivo eccessivo, fuori misura, sia per aiutarlo a costruirsi la sua strada.

Quando nell’incontro ho sentito alcune intervenute (poche per la verità) parlare di un sentimento di vergogna per le proprie umili origini, è affiorato alla mia coscienza un sentimento simile, ma in forma capovolta: ora so di aver sofferto una sorta di disagio, se non di vergogna, per la ricchezza di cui disponevo. Sono sempre stata sensibile alle disparità/disuguaglianze sociali e cercato forme, per lo più ingenue ma poi sempre più politiche nell’ambito della sinistra, per combatterle. Continuo a farlo, non più nell’area della sinistra ma ormai da molto tempo nell’orizzonte politico delle donne e della differenza sessuale. Ma non è facile, come è stato sottolineato più volte.

Alla domanda rilanciata da Laura Colombo, «come guardare al denaro in modo libero e creativo?», risponderei dicendo che conosco il valore del denaro, credo di saperlo amministrare bene, senza (eccessiva) subalternità a istituti finanziari con cui mio malgrado ho rapporti, ma lo ritengo un semplice mezzo per la vita propria e altrui, compresa la vita dell’ambiente e del pianeta, cosa che sempre più mi sta a cuore. Mi sottraggo al consumismo nelle sue varie forme, sono attenta agli sprechi (e sostengo e pratico come posso l’economia circolare) e personalmente non amo fare shopping. Gli unici beni eccedenti i bisogni della vita quotidiana a cui non rinuncio sono i libri, e tutto ciò che mi nutre l’anima e mi fa star bene come spettacoli teatrali, mostre, concerti, cene con le amiche, ecc. E ricorro a cure private a pagamento quando proprio è indispensabile, non smettendo di denunciare il disfacimento del Servizio Sanitario Nazionale e di sostenere in vari modi le giuste richieste delle sue operatrici e dei suoi operatori, il cui lavoro, come ha ricordato Buttarelli, è inestimabile e andrebbe pagato più di quello dei manager.

Da anni ho una pratica, che chiamerei pratica del dono. Non certo in senso filantropico, bensì relazionale e politico. Ho la propensione a soddisfare con i miei soldi desideri di giovani amiche, anche se non sempre li condivido ma so che per loro sono importanti. Forse in qualche modo ammiro il loro stare sopra le righe quando coltivano un desiderio che sanno di non poter esaudire per mancanza di soldi, ma a cui tengono. E per me è una gioia vedere la loro gioia, scambiare con loro tempo, passioni, relazioni. Anche se non sempre accade quella dinamica propria dell’economia del dono, che è il dare, ricevere, ricambiare (v. Giannina Longobardi, Sono soldi i soldi? In Aa.Vv., La Rivoluzione inattesa, 1997), e la relazione con l’altra non prende (o non mantiene) la piega che mi aspettavo e in alcuni (rari) casi si dissolve.

Nell’economia del dono mediato dal denaro stanno anche le mie pratiche di sostegno finanziario ad associazioni, imprese sociali e cooperative, di volontariato, che da anni seguo per il loro impegno politico di cambiamento dell’esistente in vari e diversi ambiti. Le scelgo (e le seguo) accuratamente, escludendo quelle che si ispirano alla filantropia, all’assistenzialismo, all’opportunismo, restando subalterne all’economia neoliberista anzi confermandola. 

Mi sono esposta finanziariamente anche in modo importante per sostenere alcune imprese femminili cultural-politiche di cui ho condiviso finalità e senso, avendo fiducia nelle relazioni con le donne che le promuovevano, perché sentivo che il mio previlegio economico poteva contribuire a mettere in moto cambiamenti significativi, a tagliare l’ordine esistente aprendo altre prospettive di rapporti umani e sociali, di formae mentis, di circolazione non individualistica ma comunitaria di beni. Senza sicurezza del loro esito, dunque una scommessa politica.

Il nostro mondo attuale è dominato sempre più dal denaro come forma diretta e “sublimata” del potere, anche politico, e il denaro detta ormai le regole della convivenza. Penso a Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, che si appresta a governare con – o al posto di – Trump la cosiddetta maggior democrazia del mondo, e condiziona con i suoi innumerevoli satelliti e invenzioni tecnologiche le sorti di interi popoli in guerra. Penso alla mole di denaro investita in armamenti sempre più sofisticati e costosi. E penso alla compravendita di beni essenziali come l’acqua e l’aria pulite, ormai ridotte a merci investite in borsa, o al mercato di corpi umani o di parte di essi, messi sul mercato come prodotti qualsiasi, alle agenzie internazionali che si arricchiscono per esempio con la gestazione per altri, sfruttando a senso unico l’integrità umana, senza la quale alla convivenza non resta che il baratro della disumanità. 

E penso agli enormi interessi economici che muovono multinazionali, banche, assicurazioni alla ricerca/accaparramento di materie prime, depredando soprattutto paesi poveri, e al loro sostegno finanziario dell’agro-business che devasta foreste e aumenta la distruzione della vita sul pianeta: sostegno finanziario a cui non è certo estranea la politica dell’UE. E i soldi per i soldi (l’accumulazione di denaro per sé come imprenditori e per i propri azionisti), con l’impresa che si occupa di comprare e vendere capitale e molto meno di produrre beni, sembrano diventare il criterio primo dell’imprenditoria di un paese, e non solo in Italia, a scapito degli investimenti industriali utili alla crescita economica del paese e al benessere di tutti e nel calcolato disinteresse per la sorte dei lavoratori. Un fenomeno questo ormai riconoscibile, ma il cui carattere sistemico viene ignorato anche da una parte della sinistra, poco efficace nel prendere le distanze dal capitalismo neoliberista e individualista. E uno degli effetti è la povertà dilagante, oltre alla disoccupazione delle giovani generazioni, delle loro vite allo sbaraglio o in fuga verso paesi più promettenti. Come quella del mio secondogenito e della sua compagna, espatriati in Belgio da anni (dove sono riusciti a guadagnarsi da vivere e hanno messo al mondo il loro primo figlio) a scapito delle relazioni amicali e famigliari, di consuetudini e passioni lasciate non senza sofferenza in Italia.

Sono solo gli esempi più vistosi di un capitalismo in veste nuova, a cui forse tendiamo ad assuefarci per un senso di impotenza o rassegnazione. E questo è il pericolo più grande. 

Guardiamo allora alle innumerevoli iniziative “dal basso” (così si diceva una volta), che volano alto grazie alla energia desiderante delle soggettività in gioco e alla forza delle relazioni. Alcune sono state ricordate nelle parole delle intervenute, altre hanno evocato la pratica del conflitto tra economia del desiderio ed economia del profitto, dalle case, alle città, all’intero mondo. Più donne che uomini ne sono le autrici, sanno far tesoro della propria esperienza e della propria storia, non temono di relazionarsi con persone di altri mondi, amano e proteggono la vita rigenerandola. Penso al moltiplicarsi degli orti urbani e comunitari, dove si generano cibo buono e buone relazioni, penso ai luoghi di incontro, piccoli e grandi, in cui si fa insieme cultura e politica attraverso poesia, musica, arte, teatro. Penso alle battaglie per università e scuole a misura di desideri e bisogni di chi le frequenta, e biblioteche di quartiere che riprendono vita e fanno comunità. E vediamo generazioni diverse che si confrontano e si alleano, corpi e menti: dai ragazzi e ragazze di Ultima generazione, Extinction Rebellion eccetera, alle donne che hanno dato vita a livello globale a gruppi di attiviste per il clima e per arginare le destre dilaganti, fino alle nonne dell’associazione Senior Women for Climate Protection, che senza paura hanno denunciato il governo svizzero alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo per le insufficienti politiche di protezione dell’ambiente e della vita. Sono solo alcuni esempi, ma significativi di quanto la presa di coscienza a partire da sé e in relazione con altre, altri, possa generare trasformazioni passando dall’immaginazione all’azione, da un sé solitario e impotente al muoversi insieme, corpo, mente e desiderio, verso un altro oggi e un domani differente.   

Tra gli importanti contributi che hanno aperto l’incontro della redazione aperta di Via Dogana sul tema del denaro e la discussione che ne è seguita c’è una parola/un concetto lanciato da Daniela Santoro nella sua introduzione che ha trovato, non solo in me, un’eco speciale, una risonanza che connetteva istantaneamente il presente e il passato. È la parola “energia”.

Il presente evocato è l’adesso, raccontato parlando del proprio rapporto con il denaro, complesso in sé, radicato nei vissuti familiari di ognuna e rielaborato individualmente o collettivamente dentro un percorso femminista.

Oggi è quasi più difficile parlarne che in passato – il denaro è ancora molto “tabuizzato” per usare un’espressione di Ida Dominijanni – perché la questione si scontra con una situazione inedita e che molti definiscono “di caos”, cioè dove nulla sembra più funzionare.

Le disuguaglianze sono aumentate in maniera inaudita, il lavoro è cambiato e va in una direzione di impoverimento che non sembra dipendere dai comuni mortali, siamo finiti con sorpresa e sconcerto dentro una situazione di guerra, c’è difficoltà a far avanzare la consapevolezza sui rischi climatici ed ecologici che corriamo.

Chi l’avrebbe mai pensato in questi termini così radicali? Che cosa ne deriva?

Per me direi che ne deriva un umore basso, un pensiero connotato di ansia e pre-occupazione, entrambe alleate nell’immobilizzare e passivizzare. 

D’altra parte pre-occuparsi non vuol dire occuparsi.

Chi ha approfondito cosa avviene all’interno delle persone e nelle relazioni dice che l’Italia e tutto l’occidente è caduto in una tristezza/un umore depresso che si manifesta con disinteresse per la politica, un sentimento di impotenza verso l’enormità della guerra e aspettative di un potere autoritario che faccia ordine. 

È a partire da qui, da questo umore o sentimento, che ha preso il via per me il ricordo del passato e la ricerca di che cosa ci muoveva allora, così decise, così sicure. 

Parlo del periodo che sinteticamente definiamo “il ’68”, ispirato agli ideali di giustizia sociale, che ha visto germogliare e poi prorompere il femminismo. È stato per noi donne un periodo magico dove si è avviato il nostro “riposizionamento” nel mondo.

Riportare ad allora può far pensare a visioni utopistiche, non trasformative. Non è stato per nulla così. Alla rivolta del ’68 e al grande movimento delle donne sono seguite le più importanti conquiste degli ultimi cinquant’anni sul piano dei diritti essenziali: la riforma del diritto di famiglia con l’abolizione del pater familias, le possibilità di scelta nei rapporti donna-uomo (divorzio), la possibilità di una maternità consapevole e voluta (liberalizzazione degli anticoncezionali, aborto). E altre ancora tra le quali, di primaria importanza, la sanità pubblica introdotta da Tina Anselmi.

Ripenso a cosa ci muoveva allora. 

Per quella generazione c’era la giovinezza, certo, ma questa non è di per sé garanzia di un cambiamento positivo e per me auspicabile. C’era invece tanta motivazione, passione e desiderio perché venivamo da un passato buio, sessuofobico, fatto di proibizione e sottomissione. 

Oggi, a condizioni profondamente mutate, quell’energia stenta a riprodursi e mi pare che tutte/tutti soffriamo un po’ di questa assenza. 

Rinalda Carati si chiede: «Come si elabora il lutto di tutto quello che in questo mondo sta finendo perché ne sta cominciando un altro?»

Personalmente ho spesso l’impressione che viaggiamo su un piano inclinato che porta verso il basso, mentre abbiamo bisogno di trovare di nuovo direzione e orizzonte. In questo contesto penso che l’energia vada intenzionalmente alimentata perché non trova condizioni favorevoli e, spontaneamente, si produce a stento. 

C’è bisogno di esempi positivi. 

C’è bisogno di aiutarsi, dice Vita Cosentino, «l’aiuto risolve la questione dell’energia». 

Linda Marana invita a «portare l’etica dentro il lavoro», fa esempi di attività di fundraising e dell’acquisto da parte dei cittadini di un’isola a Venezia per sottrarla all’acquisto privato e alla speculazione.

C’è bisogno di lotta. 

La parola lotta oggi è un po’ desueta. Va risvegliata e rinverdita. Ovviamente intendo lotta non violenta, quella che mette in pista immaginazione e creatività, non armi e violenza. 

È lotta anche, di grande importanza simbolica e comportamentale, produrre un linguaggio del cambiamento, non stereotipato, capace di sfuggire alle semplificazioni banalizzanti e alla neutralizzazione dei due sessi. 

Quello che ci siamo dette nell’incontro e la ricerca collettiva di prospettive e di azioni concrete esemplificate nelle relazioni introduttive e nel dibattito, sono già un esempio positivo di quella che per me è una direzione e un orizzonte auspicabile. 

Sono vissuta a Venezia fino a 19 anni in una famiglia borghese professionale, dove tutti e tutte erano laureate. Nonostante una grande casa, una famiglia osservante non restrittiva, l’incertezza sociale c’era: riguardava i soldi, che erano pochi. Quindi era ovvio lavorare per mantenersi. Mi ero convinta che la mia realizzazione dipendesse dal livello culturale, più che dal patrimonio, o dal destino delle donne e degli uomini.

Ho scelto la facoltà di lettere per mantenermi (allora era facile trovare delle supplenze anche prima di laurearsi).  Stava iniziando il ’68 e la cultura era l’impegno per inventarne un’altra, in grado di contraddire gli ordini, anche affettivi. Poi ho scelto l’ultima occasione per ottenere una baby pensione e garantirmi una sopravvivenza per lavorare nell’arte contemporanea. Avevo assorbito l’dea che era importante un luogo critico, più che uno dove essere pagata per scrivere correttamente. Così mi sarei costruita una credibilità professionale, e non solo uno stipendio. 

Le prime recensioni le ho fatte per il manifesto dove il compenso, non solo per collaboratori, era una questione “politica”: chi poteva vi rinunciava e altri e altre accettavano ritardi. 

Ho privilegiato il desiderio di scrivere per essere letta, a quello di ottenere un reddito.

Ora mi accorgo che era un’adesione indifferenziata a un comportamento culturale tradizionale. Patriarcale? E qui, riconosco una difidenza, o almeno una lentezza, a progettare non tanto i luoghi dove garantire il lavoro delle donne a pieno titolo, ma quelli economici per finanziare e pagare il nostro lavoro culturale, e non solo il nostro gratuito, ineliminabile, confronto critico. 

La Libreria è un luogo di produzione senza “scopi di lucro”: un carattere specifico della ricerca intellettuale, che mi ha molto aiutato a formulare pensieri dissidenti, oggi però penso che, rispetto al perenne squilibrio tra i compensi delle donne e degli uomini, procurarci da noi i soldi per produrre, noi, le nostre iniziative culturali, sia una bella differenza. 

E anche una cosa di buon senso, visto che quando si pubblicano libri con case editrici professionali, si fanno conferenze o mostre in luoghi pubblici, in forme laterali ci viene quasi sempre chiesto di partecipare al budget! 

Forse è arrivato il momento di fare un balzo imprenditoriale, magari si sblocca il binomio oppositivo, soldi-contenuti, visto che la credibilità culturale, prodotta dalle donne è il cambiamento invocato da tutti. 

Quanti soldi sono abbastanza? È una domanda provocatoria che invita a farsi trovare allo scoperto, a rivelare l’intreccio che tiene insieme aspirazioni e condizioni materiali. L’argomento soldi è capace di stanare le contraddizioni dentro e fuori di noi per la peculiarità quasi impudente e sfacciata che lo contraddistingue, al tempo stesso si svela nella sua pretestuosità, nel suo continuo e imprescindibile evocare altro: relazioni, vicende, retaggi, storie.

Quanti soldi sono abbastanza? A questa domanda istintivamente mi viene da replicare in cerca di chiarezza: abbastanza per cosa?

Chiedere di quantificare l’avverbio abbastanza quando si parla di soldi è un po’ come cercare di stabilire quanto olio o latte ci voglia nella preparazione di un piatto quando la ricetta suggerisce “q.b.” (quanto basta); denaro e cibo non di rado occupano gli stessi spazi dell’esistenza: sopravvivenza del corpo, relazioni, affetti, dimensione sociale. L’avverbio “abbastanza” relativizza istantaneamente, mi chiama a incarnare il pensiero, cioè a dire ciò che so e a prendere le distanze dall’astrazione, dalle ipotesi che mi sono convenientemente lontane. Per me parlare di soldi è come camminare su un laghetto ghiacciato, sento gli scricchiolii, incedo con cautela mista a paura; scivolare in modo ridicolo sulla superficie dura e sprofondare nelle acque gelide sono due eventualità ugualmente probabili. All’inizio della mia vita i soldi – quelli pensati, voluti e prodotti dal pensiero maschile – sono stati una variabile dotata di una forza capace di imprimere una deviazione radicale a quello che sarebbe stato il mio futuro, quantomeno nelle sue potenzialità: il potere e la centralità riconosciuta ai soldi mi hanno imposto l’adozione e mi hanno consegnata a una extra-ordinaria vita con due madri. Proprio pochi giorni prima dell’incontro di redazione ho dovuto aprire il fascicolo della mia adozione nel quale sono contenuti documenti di ogni tipo, ricevute, traduzioni di documenti dal brasiliano1 all’italiano e viceversa, biglietti, prenotazioni, lettere; fra i vari fogli uno riesce sempre a trascinarmi a sé, si tratta di una lista di spese vive sostenute dai miei genitori adottivi e antecedenti l’adozione definitiva, cioè l’emissione del dispositivo giuridico; fra queste spese svettano cinquecentomila lire per spese di degenza ospedaliera e duecentocinquantamila lire di farmaci. Nel Brasile del 1985 l’accesso alle cure era un nodo pericolosamente economico e i soldi potevano divenire lo spartiacque fra la vita e la morte. Ero gravemente malata a causa della malnutrizione, in condizioni così precarie da essersi resa necessaria l’ospedalizzazione e la mia giovanissima madre, Angela, che allora aveva diciotto anni, non era in grado di sostenere quelle spese; un’altra donna le avrebbe coperte, una trentaquattrenne messinese di origini borghesi che lavorava, ironia della sorte, per una banca, la mia madre adottiva, Raffaella. Quelle cifre, scritte col solito ordine chiaro che contraddistingueva l’azione di mia madre Raffaella, fanno emergere ancora oggi il campo in cui le mie due madri si sono avvicendate, toccate, legate e i presupposti maschili ai quali entrambe hanno dovuto in parte subordinarsi ma ai quali si sono ribellate in un modo forse imprevisto. Da un lato un Brasile emerso dalla feroce e fallocratica dittatura militare e nel quale la più ineludibile delle fragilità – la salute – era un affare privato, dall’altro l’Italia che aveva beneficiato pochi anni prima della genialità di Tina Anselmi, madre volitiva di quel Servizio Sanitario Nazionale che ha reso quasi cosa viva il concetto di solidarietà; nel mezzo un sistema maschile che stava costringendo due donne a dare misura del valore della maternità adottando esclusivamente il parametro economico: Angela avrebbe perso, solo giuridicamente, la possibilità di dirsi (mia) madre perché priva di sostanze, Raffaella che avrebbe acquisito la possibilità di dirsi (mia) madre perché in una condizione socio-economica solida2. I soldi in questo caso, come in una buona parte delle storie di adozione internazionale, si imposero quale parametro di merito capace di tramutare la maternità in puro dato economico; questa maternità monetizzata non dice nulla di come le mie due madri si sentissero in quelle settimane di scambio e provo sempre una grande tenerezza per entrambe quando mi capita di pensarci. La reductio ad pecuniam non si impose solamente sulla maternità ma anche su di me in qualità di figlia e mi qualificò come una questione economica che andava risolta secondo parametri sui quali nessuna donna aveva potuto (o voluto) avere voce in capitolo; il dominio maschile crea strettoie e poi le chiama “ordine naturale e logico delle cose”. In un certo senso Angela e Raffaella furono protagoniste di una riproposizione ancora più grottesca (rispetto all’originale) del giudizio salomonico: quale delle due è la “vera” madre? Quella con più soldi, rispondono le carte. Eppure nessuna delle due mi stava contendendo, anzi direi che le mie due madri proprio in quei giorni strinsero un patto silenzioso di mutuo riconoscimento: in nessun momento della vita mi è stato chiesto di stabilire quale delle due fosse la mia “vera” madre: Raffaella non ha mai avuto la mira di essere “l’unica”, pur avendo dalla sua la forza della legge; Angela non si è arroccata nel fortino di quella “vera”, “l’originale”, nemmeno quando ci siamo ritrovate dopo 26 anni e pur avendo dalla sua la forza dell’avermi generata e amata ancor prima che io nascessi. 

Le mie due madri mi hanno dunque insegnato cosa significa “amore incondizionato”, che è un amore non tanto senzacondizioni quanto un amore nonostante le condizioni e che non va inteso come amore autodistruttivo e nullificante. Evito come se fosse peste il soffermarmi a pensare a quali squarci interiori entrambe abbiano vissuto nella consapevolezza ineludibile che nessuna delle due avrebbe potuto detenere alcun primato, diritto di prelazione, posizione di vantaggio: erano parte, congiuntamente e disgiuntamente, di ciò che per me è il senso della parola madre; probabilmente hanno passato la vita col vago senso di essere l’una sotto lo scacco dell’altra. La specifica, relativa e situata materialità della mia condizione fa sì che, in qualità di figlia, la frase “di madre ce n’è una sola” sia ciò che Arendt chiamava “affermazione priva di senso”. Per molto tempo ho invidiato chi, per pura casualità e quindi senza colpa, poteva vivere tranquilla riconoscendosi in quella massima senza rendersi conto degli aspetti di comodità legati ad avere una e una sola madre, anche nel peggiore dei rapporti madre-figlia. Tornando all’aspetto economico, quando penso alla condizione adottiva, a ciò che ha costretto mia madre Angela ad accettare il percorso di adottabilità, a ciò che ha consentito a mia madre Raffaella di accedere al percorso adottivo, mi rendo conto che la condizione umana eccede tutti i parametri con cui cerchiamo di gestirla o dirla, e il denaro non fa eccezione. I soldi sono tracce di un vissuto e, come ho cercato di dire all’inizio, fungono da rimando, alludono, evocano ma sono muti davanti al peso specifico dell’umanità. 

Fra le parvenze più insidiose di questo tempo c’è quella secondo cui i soldi abbiano il potere di definire il nostro valore, molto più che in passato, e quell’eccedenza della condizione umana è sotto attacco simbolico: da strumenti – non necessari – che possono facilitare sono stati resi quasi un soggetto capace di tramutare la persona in strumento, convincendola che essere-in-funzione del denaro non solo sia cosa giusta e accettabile ma sia persino fonte di soddisfazione e autorealizzazione.

Provo sincero terrore davanti a un capitalismo feroce che sempre più chiede a ciascuna e ciascuno di noi di pensarci adottando proprio il denaro come parametro e di ridurci sempre di più a qualcosa che può essere venduta e comprata; l’edonismo individualista automercificante che ci vorrebbe ridotte a monodimensionalità diventa però una strategia priva di potere nel momento in cui riconosciamo autenticamente la condizione umana, per farlo però dobbiamo accettare il rischio di ribellarci e dobbiamo trovare il coraggio di stringere patti e alleanze che costeggiano, stanno altrove, rispetto a ciò che ci viene impacchettato e consegnato come l’unica strada percorribile. Il coraggio di Angela e Raffaella che dal 1986 sono le mie due madri. 

  1. Uso questo termine perché il portoghese brasiliano ha una sua autonomia e desidero sottolinearla. ↩︎
  2. Una condizione di vantaggio apparente, un privilegio di superficie che si dissolve quando si pensa al senso di manchevolezza che deve aver provato nella relazione con un corpo che fino a quel momento non aveva potuto generare. Come donna ha preso questo senso indotto di manchevolezza e lo ha messo a frutto accettando quel rischio di farsi madre senza il tramite del corpo e accettando di condividere quella maternità con un’altra donna, senza illusioni e pretese o ricorrendo a escamotage che cancellassero l’esistenza dell’altra madre dalla quale dipendeva la mia esistenza.  ↩︎

Tendo spesso a non parlare di soldi. È una tematica che mi mette a disagio. Infatti è stato molto difficile per me presenziare al dibattito che ha avuto luogo domenica 1° dicembre in vista della redazione aperta di Via Dogana 3. Impensabile è stata l’idea di fare un intervento a voce alta davanti a tutte le persone presenti. Eppure domenica ho avuto un’opportunità, quella di confrontarmi con il mio limite e di indagarlo. Per quale motivo non riesco ad aprirmi e discutere a cuore aperto su questo argomento?

Io mi sento privilegiata. Sono cresciuta a Milano e i miei genitori non mi hanno mai fatto mancare nulla. Da tempo avevo l’idea di fare l’università in una città diversa da quella in cui sono nata. Proprio per questo, intorno ai quindici anni ho iniziato a lavorare e a mettere da parte i soldi che mi venivano dati (quelli delle paghette mensili e dei regali di Natale). 

Vorrei poter dire che, grazie a quei soldi, oggi posso permettermi di pagare l’affitto della casa in cui vivo a Verona, ma non è così. Mia nonna mi ha aiutata, dandomi un gruzzolo del quale tutt’oggi mi servo per poter pagare l’affitto. Mi è sempre pesato chiedere soldi, sia ai miei genitori che alla mia famiglia. Il mio desiderio di studiare lontano da casa non poteva gravare sui miei genitori. Al punto che a giugno 2023 facemmo un accordo: loro avrebbero pagato l’università, io la casa. Ora come ora vivo nel terrore che quei soldi finiscano, come se quelli fossero la misura della mia libertà (non assoluta, ma quella di studiare ciò che più amo nel luogo che sento più affine, dal momento in cui studio filosofia all’Università di Verona). Mi chiedo: cosa sarebbe della mia vita e dei miei desideri se non avessi i soldi come strumento per realizzarli? 

Ricordo che al liceo la professoressa di italiano chiese a noi studenti di scrivere un tema sulla felicità. Molti tra i miei compagni di classe scrissero che la felicità era direttamente proporzionale alla quantità di soldi posseduta. Più denaro si possiede, più è facile vivere delle cose che si amano. Nell’ascoltare la lettura di quei testi ricordo che mi arrabbiai. La stessa cosa accadde in quinta liceo ed in particolare davanti alla scelta dell’università. Quale percorso di studi permette di trovare un lavoro ben retribuito? Anche su Instagram emerge spesso questa questione. A ragazze che divulgano filosofia sui social viene posta di continuo questa domanda: scegliendo una facoltà umanistica non si rischia poi di finire senza lavoro? Come comunicare ai genitori che si desidera intraprendere un corso di laurea in lettere antiche o in beni culturali quando è evidente che un professore di greco non è pagato quanto un avvocato? A causa dei soldi, molti giovani rinunciano all’amore che guida le loro scelte in nome di una stabilità economica. Come biasimarli, dal momento in cui il costo della vita si alza e gli stipendi rimangono gli stessi di anni fa. Il futuro è sempre più precario e di ciò gode il sistema turbocapitalista dentro il quale siamo immersi. La difficoltà di basare la vita sul proprio desiderio porta alla necessità di ottenere godimento nell’hic et nunc. Questo è un problema del nostro tempo.

Io mi sento molto disorientata, l’angoscia mi assale ogni qualvolta io faccia una transazione o un bonifico. Nell’ultimo periodo mi sono persino sentita in colpa per aver speso soldi in visite ed esami medici, pur sapendo razionalmente quanto sia importante curarsi della propria salute. 

Quando si tratta di denaro penso, di tanto in tanto, a una frase che ho sentito pronunciare a mio padre: “spendiamo più di quanto potremmo realmente permetterci”. 

Ma allora è davvero possibile fare in modo che siano l’amore e il desiderio a governare la nostra vita? Come ribellarsi alle logiche del capitalismo? Si può sottrarre ai soldi il potere che esercitano? 

Io credo di sì. Forse quello che afferma mio papà ha in sé il principio della ribellione oppure ciò che avviene alla Libreria delle donne di Milano e a cui io guardo con profonda ammirazione. Ovvero il sapersi aiutare reciprocamente, esserci per le altre e gli altri gratuitamente senza mai allontanarsi dal proprio desiderio che è comune nella misura in cui è politico e individuale perché riguarda ognuna nella sua intimità. 

Carla Lonzi ha definito un capolavoro una serata ben riuscita. In Libreria, al Circolo della Rosa l’invenzione del gruppo di cucina relazionale Estia ha riattivato l’arte della manutenzione tenendo insieme parola e nutrimento senza soluzione di continuità. Animate dalla passione politica, le neopreziose sono state e sono artefici di tessuti relazionali, artiste della relazione. Un lavoro invisibile perché precede l’esposizione pubblica, la messa in tavola dei piatti che velocemente si svuoteranno ma richiedono molto pensiero creativo, ricerca, studio e lavoro manuale. E soprattutto ascolto delle esigenze dell’altra/o che non sono uguali, quindi a ciascuna/o secondo i suoi bisogni. 

Nel tempo ci sono stati spesso momenti di tensione tra il desiderio di alcune di parola come forma di espressività e il desiderio di altre di un fare, che senza contrapporsi hanno poi trovato sbocco in proposte creative come per esempio il ciclo di incontri Cibo dell’anima cibo del corpo, ideato da Luisa Muraro, Ida Farè, Sandra Bonfiglioli, Rossella Bertolazzi, Stefania Giannotti e Clelia Pallotta. In questo gioco di desideri differenti in cui uno nutriva l’altro e viceversa, la gioia del buon cibo generava pensiero di qualità e le relazioni in presenza si arricchivano. L’arte della conversazione ha preso forma e corpo in un continuum tra vita, lavoro e politica come un fiume che scorre: il Fiume dell’Inclinazione della Carte de Tendre.

La Preziosità ha portato la “civiltà della conversazione”1, che fu una rivoluzione linguistica in una Francia afflitta dalle guerre con una divisione rigida fra i sessi. Le Preziose spezzarono la barriera tra i ruoli sessuali trasformando le loro dimore, gli hôtels particuliers, le loro camere da letto, les ruelles, in luoghi di parola che si ampliarono in salotti aperti agli uomini. 

Romanzi come La Princesse de Clèves di Madame de Lafayette o Clélie, histoire romaine di Madeleine de Scudéry rappresentano una raffinata operazione linguistica e letteraria volta non solo a demilitarizzare la lingua attraverso una sapiente analisi dei sentimenti e dell’interiorità conflittuale dei personaggi, ma a orientare e guidare una società verso un cambiamento.

La Carte de Tendre è una mappa che disegna un intreccio fra la lingua materna e un paese immaginario, visione di un abitare nel mondo il cui fondamento sono le relazioni fra i sessi, dove gli uomini sono disponibili all’ascolto di parole preziose e prendono le distanze dalle parole armate e il territorio si fa espressione dei sentimenti, non oggetto di conquista e dominio. Una mappa del cuore di cui l’autrice si serve per mostrare come l’autorità di una preziosa regolava il ritmo della conversazione, dava la misura.

Le preziose di oggi incarnano questa modalità del piacere e della libera espressione di sé dando vita a una politica che non si sostituisce alle forme di vita.

  1. Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, Adelphi 2001  ↩︎

Prof, perché ci parli di artiste che nel libro di storia dell’arte non ci sono?

– Perché il libro è sbagliato.

– Ci sono libri sbagliati?

– No, lo sbaglio l’ho fatto io che ho scelto per voi questo libro.

– Come mai?

– L’ho scelto perché è fatto da due studiose, due donne.

– È questo lo sbaglio?

– No. Ma dovevo controllare che non fossero orbe.

– Orbe?

– Che non avessero la vista difettosa; il problema si pone con chi ha la vista difettosa ma non lo sa.

– Come le autrici del nostro libro di storia dell’arte?

– Sì.

– È per questo che non vedono le opere di Artemisia Gentileschi, di Sofonisba Anguissola, di Rosalba Carriera?

– Sì.

– Qual è la causa di questo difetto?

– È la mancanza di orientamento. Come ti ho insegnato, la comprensione di un’immagine è il risultato di una interazione tra chi guarda e l’immagine stessa, esattamente come capita tra due persone che fanno conoscenza. Si tratta di un processo dinamico che richiede uno spostamento, un andare verso: per questo “andare verso”, è necessario ricercare e definire il luogo da cui muovere, altrimenti è un andare a caso, che è una forma di cecità peggiore della cecità fisica.

– Cercare questo luogo è come cercare il punto di vista?

– Sì. dal punto di vista in cui si sono messe le autrici del nostro libro di storia dell’arte si vedono solo artisti uomini, non si vedono donne.

– È strano, anche loro sono donne.

– Non è tanto strano, perché le donne, più degli uomini, sono messe in difficoltà dalla nostra cultura che nega la madre come primo punto di vista sul mondo.

– La mamma è un punto di vista?

– Rudolf Arnheim nei suoi Pensieri sull’educazione artistica (Aesthetica, Palermo 1992) spiega che la nostra conoscenza si basa molto sul guardare e che procede per gradi, a partire dagli oggetti più familiari, come il cane di casa. Ma l’oggetto primo che ogni bambina e bambino imparano a riconoscere non è il cane di casa, è la madre. La ri-conoscenza della madre permette alla bambina come al bambino di spostare lo sguardo sugli oggetti che la madre le indica e le nomina.

– La mamma, insomma, è una maestra di punto di vista, come te, prof, quando siamo andati al Museo.

– Sì, quello che io ho fatto per farvi conoscere i quadri, ogni madre fa con i suoi figli piccoli per far loro conoscere il mondo in cu li ha messi.

– Come si fa a negare questa cosa?

– In tanti modi. Rudolf Arnheim, per esempio, dice che i neonati si guardano intorno per conoscere l’ambiente ed evitarne i pericoli, e non considera la loro relazione con la madre che li rassicura e li invita a guardare il mondo. Io penso che l’orientamento, cioè la possibilità di vedere, sia il risultato di due sguardi, in successione, un primo sguardo verso la madre e un secondo sguardo verso il mondo. per cui, alla base della conoscenza, non c’è, come dice Arnheim, un’esigenza di difesa dall’ambiente, ma uno schema di amore-relazione, che può diventare, se ne prendiamo coscienza, paradigma di conoscenza, di orientamento personale e di modo di stare al mondo.

– Ma finora come abbiamo fatto per conoscere il mondo?

– Abbiamo fatto con l’insostituibile aiuto del punto di vista materno. Ma senza averne coscienza, per cui la donna, senza rapporto consapevole con il punto di vista materno, ha perso il posto da cui guardare, in maniera sua originale, il mondo. E ha perso, insieme, il senso autonomo di sé, rimanendo esposta allo sguardo altrui. Il nostro libro di storia dell’arte è pieno di donne rappresentate da artisti uomini.

– E l’uomo?

– L’uomo ha sostituito il punto di vista materno con il suo modo scientifico di guardare il mondo. Tu conosci la storia della prospettiva. Nel Rinascimento nasce la prospettiva che rappresenta il mondo visto da un solo occhio. C’è una famosa incisione di Dürer del 1525 (te la farò vedere) che rappresenta un uomo che disegna un vaso in prospettiva, guardandolo attraverso un buco a cui appone il suo occhio e dal quel buco, da quell’occhio fisso, eterno, universale, vede e fa vedere la realtà che diventa essa stessa fissa, eterna, universale. Infatti, nella costruzione prospettica la distanza si annulla perché il punto di vista coincide con il punto di vista più lontano posto sulla linea dell’orizzonte, il punto in cui convergono le linee parallele, cioè l’infinito.

– Io ho capito che gli uomini, al posto del punto di vista materno, hanno messo l’infinito. Hanno sbagliato?

– L’unico sbaglio, da cui siamo partite, l’ho fatto io scegliendo un libro che non corrisponde al mio insegnamento. Io voglio insegnarti a leggere il modo in cui le donne e gli uomini leggono il mondo. L’uomo, con la sua costruzione prospettica, tiene l’occhio fisso sull’infinito, e allontana così, dal suo campo visivo, ogni essere umano in carne e ossa, a cominciare da se stesso, perché ne ha allontanato, per cominciare, la madre, oggetto primario della percezione. Al suo posto ha messo un cane (psicologia) e il buco della serratura (scienza della prospettiva). Si crea così la situazione descritta anche da Arnheim, per cui un essere umano può vedere le cose, “ma non riconoscerle”.

– Allora c’è qualcosa di sbagliato!

– Non so. Certo, adesso sta tornando la guerra e gli uomini si dividono tra quelli che in guerra ci vanno e quelli che della guerra parlano guardandola dal buco della serratura con un occhio solo. ma in realtà abbiamo due occhi, abbiamo un corpo, abbiamo una madre, siamo due sessi. Forse, come dici tu, c’è qualcosa di sbagliato nella prospettiva maschile. 

(Via Dogana n. 12, settembre/ottobre 1993)