La società appare fortemente cambiata rispetto a pochi decenni fa, eppure molte di queste trasformazioni non ne hanno intaccato i meccanismi profondi. Ancora oggi, come è stato fatto notare all’interno della redazione aperta di VD3 – Fare impresa femminista – le donne si affidano agli uomini e ammirano gli uomini, un fatto certamente non vero in senso assoluto ma sicuramente presente nella realtà di tutti i giorni. Credo sia troppo facile, rimanendo nella «bolla femminista», giudicare queste donne. Molte di loro probabilmente non si rendono conto della questione, tanto è radicata la convinzione che siano gli uomini il modello da imitare, mentre altre, che comprendono perfettamente il sistema in cui vivono, scelgono di replicarlo – o di adattarsi ad esso – per quieto vivere, per timore, per conformismo o per trarne vantaggio personale al fine di raggiungere i propri obiettivi. C’è ancora spazio dunque per il femminismo? In redazione il femminismo è stato definito vantaggioso, ma vantaggioso per chi? Certamente per me che grazie al femminismo posso essere coerente con me stessa e quindi libera di essere me quando mi muovo nel mondo. Nella mia vita c’è un prima e un dopo l’incontro con il femminismo, conosco il prezzo di una vita modellata su pensieri e desideri non miei ma offertimi da altri e conosco il prezzo di una vita scelta da me e vissuta secondo il mio desiderio e solo ora so che preferisco la seconda opzione. Ma questa scelta non è a costo zero. Praticare il femminismo ed essere femminista per me significa esporsi, mettersi in contraddizione e talvolta in contrasto con me stessa e con le persone che mi circondano. Significa prendersi il rischio di perdere relazioni sentimentali anche se resta il desiderio d’amore, di perdere opportunità lavorative anche se si desidera un miglioramento della propria situazione economica, di perdere i rapporti con la famiglia e con la propria rete sociale anche se si considerano queste persone importanti e gli si vuole bene, tutto per cercare delle forme relazionali nuove che rispondano al mondo che vorrei e a quello che sento coerente con me stessa. In questa pratica continua ogni incontro con l’altro mi chiede di decidere da che parte stare. In un’epoca in cui siamo libere come mai storicamente prima continuiamo ad esserlo a nostro rischio, questa libertà continua ad avere un costo, ad essere sotto attacco e ad essere relegata all’individualità della singola donna che decide per sé. Ma è anche per questo che il femminismo è vantaggioso, perché parla al plurale e porta in sé la speranza che prima o poi la libertà delle donne avrà come limite solo il proprio desiderio e il rispetto del desiderio altrui. Ma non siamo ancora a questo punto. Spesso ciò che è vantaggioso per sé stesse è controproducente per tutte le altre, camminiamo nella contraddizione. Penso al “sex work”, alle donne che dicono di trarne vantaggio e a tutte quelle come me che ci vedono la violenza. Penso allo strumento della denuncia quando si parla di violenza maschile contro le donne e quanto ancora si attui la scelta del silenzio per paura, per sfiducia nelle forze dell’ordine, per l’illusione che quel comportamento violento non sia davvero pericoloso, ecc. quando invece l’esposizione pubblica sarebbe d’aiuto a tutte nel lungo periodo. Penso alle direzioni delle grandi aziende, con sempre più donne coinvolte ma in un sistema che resta saldo su vecchi schemi già visti. Forse la grande contraddizione che viviamo è che il femminismo ha trasformato le donne che lo hanno incontrato ma non ancora il mondo intorno a loro e si è creato il paradosso per cui una pratica nata dal personale per diventare collettiva si è ora incastrata nelle trame insidiose dell’individualismo. Siamo ancora in cammino, dobbiamo ancora chiederci per chi stiamo agendo e se quello che stiamo facendo sia davvero vantaggioso per noi donne come unicità e come pluralità. Le radici del movimento delle donne sono forti, ma i rami e le foglie hanno costantemente bisogno della nostra cura.
Fare impresa è un bel modo di dire l’azzardo che c’è nelle nostre vite: per me, il passaggio dai collettivi, al Centro di Iniziativa Democratica degli Insegnanti (CIDI), alla Merlettaia, e, insieme, il mio impegno nelle Città vicine, ma anche in Libera, nel Coordinamento per la pace a Foggia. Sempre mi ha accompagnato e mi accompagna l’idea che ciò che cerco appare solo se sto nelle cose, lì, sottraendomi ai lacciuoli che mi imprigionano e ascoltando l’enormità di ciò che desidero. Spesso questa enormità appare nelle parole di chi mi circonda: è una cosa dell’altro mondo; eppure, è lì nel mondo. Recentemente lavorando con alcune scuole sulla pace, e in particolare su come la pace si agganci al quotidiano e al conflitto nell’esperienza relazionale femminile, mi è successo di scoprire che quello che io credevo di dover portare c’era già, parlava nel modo di insegnare attento e profondo di alcuni e alcune docenti. E poco conta che loro non lo chiamino autoriforma, come lo abbiamo chiamato noi, l’autoriforma è lì. È lì quell’altro modo di fare scuola che tiene insieme autorità e libertà, ricerca appassionata di un modo di sentire le cose e traduzione nell’azione, attenzione alle dinamiche relazionali in classe e apertura al territorio. È una gioia enorme riconoscerlo e lì mi sento anche subito riconosciuta. Quel riconoscimento è la linfa che fa vivere le relazioni come ricerca di senso, non come una somma, né come un modo per essere più forti. O meglio, se di forza si può parlare è perché appare un altro tipo di forza.
Ricordo la prima volta in cui questo fu evidente ai miei occhi. Fu nel più vecchio dei modi attraverso un tradimento amoroso. Ora quella parola – tradimento – mi sembra così consumata, mentre sono grata a quella esperienza. Lì scoprii che i modi tradizionali che avevo a disposizione per reagire non potevo adottarli. Non mi sarei lasciata intrappolare nel rancore o nel desiderio di rivalsa. Non sarei rimasta dove mi volevano mettere. Per un momento pensai che, se amare voleva dire soffrire tanto, non avrei più amato. Poi mi vidi. Vidi che l’amore era la forma della mia sessualità e dava una forma al mondo. A quella grandezza non potevo rinunciare, pur avendo attenzione alle mie forze reali. Questa mia consapevolezza, che in seguito diventò consapevolezza della differenza femminile, apriva ad altro. Questo fece ordine nei percorsi spesso non lineari che seguirono. Ma, devo ammetterlo, questa consapevolezza era tanto forte quanto misteriosa. Era la fine degli anni ’70 del ’900.
La penetrazione di quel mistero divenne la passione della mia vita. Questo rese interessante interrogare le mie azioni. Non si trattava solo di me. La sessualità era qualcosa che io agivo, ma per coglierne il senso io dovevo guardarmi dentro ma anche guardare fuori, guardare alle altre donne. Quello che era in gioco mi trascendeva. È una percezione questa che non ho più perso e mi ha protetta dall’eccessiva concentrazione su di me, mi ha ricordato costantemente che tutto quello che facciamo è mediazione.
Un’altra prova importante sono stati i conflitti nella Merlettaia, circolo culturale e politico di donne e uomini: lettere aperte, riunioni, risposte sgarbate quando mi sembrava che vincesse il formalismo; e anche lì mi hanno guidato le parole di qualcuna che mi tiravano fuori dall’oscurità in cui sprofondavo e mi indicavano dove indirizzare le energie: «dove c’è vita». Era un modo per portare lì, nel nostro contesto, le parole di Luisa Muraro: «fare un’altra danza». O meglio, ricordare per quale danza avevamo messo in piedi l’impresa della Merlettaia e quali erano i passi che mi riconducevano a quella danza. È così che ho capito che l’ordine che cercavo in quei modi non lineari aveva a che fare con la ricerca di uno stato di grazia non con regole e principi, doveri e finzioni. E però una volta capito questo dovevo fare i conti con le nostre forze, non più solo con le mie, con i meccanismi introiettati, con le contraddizioni che nascono dal fatto che qualche volta capiamo prima con la mente, altre col cuore, altre con i sensi e occorre tempo per ritrovare l’equilibrio.
Ma la scoperta della ricerca di grazia come elemento di ordine ha cambiato radicalmente il senso di tutte e due quelle parole e mi ha dato un indizio importante per capire la differenza della sessualità femminile.
Ricordo che in quegli anni ci dicemmo che dovevamo portare la nostra sessualità dappertutto. Io, nel frattempo, avevo fondato con altre e altri il CIDI a Foggia e avevamo cominciato a lavorare perché il CIDI fosse una struttura in cui la differenza femminile avesse ascolto. Sulla base di quel proposito fu facile non banalizzare, anzi restituire senso alla gioia con cui andavo a scuola e che esprimevo con colleghe e studenti. Per mantenere quella gioia valeva la pena aprire tutti i conflitti necessari, perché la scena che si apriva era un’altra scuola per tutti: una scuola in cui fosse possibile stare con gioia.
La pensavamo così in tante se da quella tensione nacque la pedagogia della differenza e il movimento di autoriforma della scuola con la sua inedita alleanza fra uomini e donne che, per almeno dieci anni, dal 1992 al 2002 ci ha visto confrontarci, discutere e appassionarci alla lettura dell’esperienza che facevamo come insegnanti, aprendo per la prima volta l’orizzonte simbolico di classi composte da studenti e studentesse, da insegnanti donne e uomini, e dando a questa differenza carattere politico.
Ciò di cui ancora oggi spesso mi stupisco è come il senso e l’importanza di alcune cose apparissero a tante e tanti quasi contemporaneamente con la forza del passaparola, la stessa modalità con cui passa l’informazione sulle buone letture. Infatti i libri ebbero un gran peso: i libri, i campi donne, ma soprattutto la comune fame di senso che faceva apparire ciò che di altro cercavamo come un angelo luminoso sull’orizzonte della storia.
Come dicevo all’inizio quel riconoscimento reciproco in relazioni illuminate dalla ricerca di altro fa, ancora oggi, da linfa e permette di interrogare la nostra storia, chiedendoci cosa lascia, iscritto come memoria nel nostro corpo, non solo a ciascuna di noi singolarmente, ma a tutti. È questa l’impresa a cui mi sono appassionata negli ultimi anni.
Tra fine febbraio e inizio marzo ho letto per la prima volta “Non credere di avere dei diritti. La generazione della libertà femminile nell’idea e nelle vicende di un gruppo di donne”, libro edito nel 1987 dalla Libreria delle donne di Milano. Eppure, solo in vista di questa redazione aperta ho compreso che, da febbraio, io non ho mai smesso di leggerlo. Oggettivamente non è un volume infinito e non presenta migliaia e migliaia di pagine, ma è un testo che, nella sua finitezza, è in costante divenire. Questo suo divenire non si inserisce in una categoria statica, situata e astratta, ma si fa corpo e accoglie ogni piega del reale.
«Per una donna […] per diventare grande, in ogni senso del termine, c’è bisogno di una donna più grande di sé», infatti, la pratica dell’affidamento è ciò che «mette fine alla sterilità simbolica del sesso femminile». Solamente vivendo la Libreria ho potuto comprendere come il contenuto della citazione consista nell’aver assegnato parole e significato ad un significante che è esperienza trasformativa in quanto vissuta. È per questa ragione che le donne della Libreria sono riuscite a costruire, a mantenere e a diffondere un ordine simbolico altro. A questo proposito, mi piacerebbe trattare una questione affrontata più volte sia nel testo (cfr. Non credere di avere dei diritti) sia nelle discussioni in presenza, ovvero quella dell’invidia. L’invidia è uno degli strumenti attraverso cui il sistema capitalistico si alimenta, costringendo i soggetti a produrre compulsivamente per essere ancor più performanti. Non solo questo sentire è rimasto immutato nella dimensione reale, ma ha assunto nuove declinazioni negli spazi virtuali. Un esempio lampante è la cosiddetta FoMO (Fear of Missing Out). Questa nuova forma di malessere coincide con il timore di perdersi esperienze ed è scatenata dalla possibilità di assistere in diretta alla bellezza delle vite altrui, mostrate ed esibite sulle varie piattaforme virtuali. La FoMO porta, inoltre, a idealizzare l’interiorità e i modi di vivere di coloro che scegliamo di “seguire” sui social. Questo genera un senso di smarrimento, di inadeguatezza e soprattutto di invidia corrosiva. Anche a me capita di riscoprirmi invidiosa e di idealizzare morbosamente ciò che concerne l’alterità. Quello che mi ha stupito incredibilmente è la modalità in cui, interiorizzando le pratiche del femminismo della differenza e tessendo relazioni con le altre donne che agiscono in questo luogo incredibile, ho imparato a convertire l’invidia in ammirazione verso donne più grandi di me, il cui desiderio alimenta il mio e lo trasforma da potenza in atto. Siccome diventa attuale e si inserisce nella realtà è politico. In altri termini: l’affidamento è una delle pratiche alla base della libertà femminile, ciò che permette al desiderio di ognuna di attuarsi, di cambiare il reale e creare senso in modo nuovo e vitale.
A questo punto della riflessione mi pongo alcune questioni. Come dimostrato, i social media e la conseguente possibilità di osservare gli aspetti positivi delle vite altrui generano un senso di invidia distruttiva e di depressione. Ma sarebbe possibile, per la mia generazione e anche per quelle precedenti, pensare un modo alternativo di abitare i social? Se i social prescindono dalla presenza e dall’essere corpo come può il desiderio nascere e incarnarsi? Le pratiche della politica delle donne trovano la loro ragion d’essere nella presenza. Io su tutto questo non ho risposte precise. Ciò che so con certezza è che non è possibile rigettare l’immanenza della vita, ma solo accoglierla e trovare un modo per starci dentro.
Infine, grazie alla Libreria delle donne di Milano, ho capito questo: vedere soluzioni nuove nella problematicità del sistema dato non è impossibile. Ci sono riuscita: ho convertito quell’invidia distruttiva, che è un sentire che da sempre mi ha reso estranea a me stessa, in un sentire che agisce contro tale sensazione. Un’invidia generativa, un desiderio nascente, che mi permette di affidarmi.
Da qualche mese ho cominciato a frequentare la Libreria delle Donne. Sapevo della sua esistenza e della portata storica del luogo e delle donne che lo avevano creato, ma per qualche motivo non ne avevo mai varcato la soglia. Quando è successo, ho maledetto tutti i giorni in cui avevo pensato di andarci e non l’ho fatto.
Ho venticinque anni, sto per concludere il mio percorso di studi universitari e sono abbastanza sicura che, se avessi frequentato prima la Libreria delle donne, durante gli anni iniziali dell’università, sarei stata in grado di vivere, studiare e affrontare meglio tutto quello che riguarda il percorso accademico: le lezioni, gli esami, il rapporto con i docenti, con i miei colleghi, la frustrazione, l’ansia e anche il sollievo e la serenità.
Avrei avuto un luogo dove rifugiarmi senza nascondermi, dove scappare e allontanarmi per tornare più istruita, educata e ricca di parole, pensieri, riflessioni e amicizie, che nessun corso universitario da me conosciuto sarebbe stato in grado di procurarmi. Avrei avuto più risorse alle quali aggrapparmi, più tempo per caricarmi e interiorizzare, dando un nome e un luogo, le nozioni che man mano acquisivo. È questo il lavoro che sento di fare ogni volta che entro nella Libreria delle Donne: mi sembra che tutto quello che faccio abbia un senso, perché le donne che sto conoscendo danno un senso a quello che faccio, tutto ciò che pensano, dicono, analizzano e condividono mi rapisce e, sebbene spesso fatichi a immagazzinare tutto, so che ogni sospiro lì dentro sarà utile, necessario e vero.
Ci sono molte cose che mi hanno stupita, che conservo gelosamente e tento di imitare nella mia vita quotidiana: il rispetto reciproco che le donne della Libreria nutrono per ciascuna, il modo di parlare e gestire gli eventi così scambievole, partecipativo e coinvolgente, la condivisione del tempo, dei propri pensieri e perplessità, del cibo. Sono stata abituata a lezioni universitarie, presentazioni di libri o conferenze presentate da una persona che rivolge domande ad un’altra/o, in modo assolutamente rigido, pianificato, calcolato e privo di intoppi. Che gioia scoprire che è possibile la condivisione libera, spontanea, doverosamente rispettosa, anche se non programmata nei minimi dettagli. I momenti di interruzione inattesi, prima che l’ospite in Libreria concluda il suo intervento, sono i miei preferiti: in qualsiasi altro luogo un gesto del genere verrebbe interpretato come mancanza di rispetto, intromissione e arroganza, mentre in Libreria le donne che “interrompono” hanno lo scopo di nutrire il pensiero dei presenti: questo condividere subito ad alta voce un pensiero appena nato, una parola immediata, un discorso intuitivo non ancora formato mi sembra completamente fuori corrente. Dove possiamo permetterci di parlare anche se non sappiamo dove andrà a finire il nostro discorso? In quale luogo possiamo sentirci capite anche se non troviamo le parole giuste al momento giusto, anche se abbiamo deciso noi di prendere parola e non sentirci derise per questa mancanza? Con quali persone possiamo sentirci libere di iniziare un pensiero e lasciare che sia un’altra a concluderlo?
Io l’ho visto fare solo qui, in Libreria.
Il dialogo costante tra queste donne mi ha subito catturata; si tratta di un dialogo che non si placa mai, anzi è scandito costantemente da eventi, presentazioni di libri e progetti, che incorniciano una conversazione che non ammette conclusioni o battute di arresto.
Ci sono comunque delle regole da seguire alle quali tutte, in maniera assolutamente istintiva e spontanea, decidiamo di obbedire: è doveroso ascoltarsi con cura, rispetto e volontà di dare spazio alla voce di tutte, è d’obbligo comprendere la grandezza, l’importanza e la necessità del valore delle donne e del luogo che hanno creato. Si entra in Libreria per costruire, non per distruggere. La solennità che si respira in Libreria mi ha contagiata e condizionata, le donne che sto imparando a conoscere mi insegnano continuamente che esistono modi e possibilità di vivere e di essere donna diversi, creativi, che capisco e mi fanno stare bene. Alla Libreria delle donne si impara a stare insieme, a godere delle cose belle, a comprendere la difficoltà nel crearle, si mangia insieme ed è chiaro che ognuna deve darsi da fare per aiutare, mettere a posto, fare ordine, portate un bicchiere d’acqua. Bisogna accorgersi delle cose, in Libreria tutto ha un valore, tutto è necessario. Condividere non è sempre facile, non si può fare con tutte allo stesso modo: qualcuna ha testimoniato che non sempre quello tra donne è un rapporto semplice, regolare e lineare; ci sono stati anche fallimenti e rotture, ma, come sto imparando, è riconoscere l’autorità delle altre che predispone il riconoscimento della mia.
Sono diventata femminista perché mi conveniva.
Che vantaggio è stato vedere il ridicolo delle leggi del patriarcato che voleva decidere delle nostre vite. Che vantaggio scoprire gli orpelli che il maschilismo mette in campo per impedirci la libertà. Che vantaggio proclamare la libertà in ogni sua forma; che vantaggio chiedere consiglio ad altre donne per esistere; che vantaggio acquisire una nuova chiave di lettura per interpretare il mondo.
Durante l’incontro di Via Dogana 3 la giovane Sara ha osservato che per essere femministe si paga un prezzo. Certo: ma c’è qualche azione umana per la quale non c’è un prezzo da pagare? Si tratta di decidere qual è il prezzo più basso: secondo me il non femminismo ha un prezzo altissimo! Il femminismo conviene.Inoltre mi ha molto colpito sentir raccontare che ci sono donne che danno un valore negativo alla parola “affidamento”. Non si nasce “imparate”. C’è stata un’altra donna che ci ha fatto riflettere. Per me sono state Luisa Muraro e Lia Cigarini; per alcune delle mie giovani amiche le insegnanti del liceo e dell’università; per altre un libro (Sputiamo su Hegel di Carla Lonzi o Le tre ghinee della Woolf). Questo è l’affidamento: importantissima pratica politica.
Fare impresa con obiettivi diversi dal profitto in un mercato sempre più selvaggio è sempre più difficile. La Libreria delle donne poi, come tutte le librerie indipendenti, stenta a reggere la concorrenza delle vendite on line a prezzi stracciati e la necessità di un sostegno economico che integri i ricavi delle vendite inizia a farsi pressante. Una strada è il ricorso a finanziamenti pubblici, ma è rischiosa perché può costringerci «a parole che non sono le nostre». Le istituzioni infatti tendono a “funzionalizzare” le iniziative “dal basso” alle loro politiche. Occorre quindi trovare le mediazioni necessarie a continuare l’attività preservando la nostra originalità, partendo dal desiderio che questo luogo resti aperto, per tutto quello che ci dà, come ha detto Laura Colombo.
Una mediazione consiste nel non battere un’unica strada e alternare le diverse forme di sostegno. Per quanto riguarda i bandi pubblici, la mediazione consiste nel concentrarsi su quelli finalizzati a finanziare la realizzazione di singoli progetti, come del resto abbiamo fatto finora. L’informatizzazione della Libreria anni fa, il rinnovo dell’impianto multimediale adesso, sono stati realizzati con bandi ad hoc che, se pure sono costati molto lavoro ed energie a chi li ha seguiti, ci hanno aiutato ad andare avanti senza condizionarci.
Trattare con la pubblica amministrazione su argomenti particolari non è un tabù, si può e si deve farlo su singole necessità con intelligenza, apertura e senza rivendicazionismo oppositivo. Ma è necessario assicurarsi al tempo stesso il massimo possibile di autonomia economica e di libertà d’azione, in un andirivieni continuo tra le nostre pratiche politiche e il confronto sul terreno istituzionale.
Ci sono realtà femministe che credono fermamente, non senza ragioni da un certo punto di vista, che le istituzioni abbiano un debito con le donne e che debbano dunque offrire forme di sostegno continuativo alla cittadinanza femminile, sotto forma di finanziamenti, sedi o altro. Così si genera però una dipendenza economica e simbolica (“esisto se le istituzioni mi riconoscono”), che porta a un’impasse quando la concessione del sostegno viene subordinata all’erogazione di servizi voluti e regolati dalle politiche pubbliche, mettendo quelle realtà a rischio di snaturare la loro attività e il senso della loro esistenza. Non sediamoci, quindi, ma continuiamo il nostro andirivieni.
Sono entrata in Libreria a causa del Sottosopra verde e spiego il perché. All’inizio degli anni Ottanta il movimento delle donne a Milano era rifluito: sciolti quasi tutti i gruppi di autocoscienza, scomparsi collettivi, come anche il coordinamento cittadino e le assemblee e le manifestazioni di piazza. Ci incontravamo nelle case e alle feste. Io come tante altre vivevo una scissione: da una parte avevo preso coscienza come donna e dall’altra ero molto attiva nel mio posto di lavoro, volevo protagonismo. Le due cose non stavano insieme: a scuola o nella sezione sindacale il mio essere donna era del tutto irrilevante. Sono stata conquistata dal Sottosopra verde e dalla sua proposta di sessualizzare i rapporti sociali proprio perché rispondeva a questo mio bisogno di esserci intera, lì dove c’era la mia passione politica.
In Non credere di avere dei diritti si dice che la cosa che sconcertava del Sottosopra verde era «il ragionare sessuato sul mondo» (p.142). Sì, sconcertava, ma è stato proprio ciò che ha conquistato moltissime femministe di allora, che come me avevano passione di stare nel mondo. A quei tempi in Libreria e negli altri luoghi delle donne molte erano insegnanti (oggi non è più così) e in un tempo breve sulla spinta del Sottosopra verde è nato un movimento di insegnanti femministe in molte scuole sparse in tutta Italia: ha preso il nome di Pedagogia della differenza. Questo è capitato anche nei tribunali, nelle università, negli studi di architettura, nel sindacato… C’è un libro pubblicato da Pratiche nel 2000: Duemilaeuna. Donne che cambiano l’Italia: dà conto di tutto questo intenso movimento trasformativo che ha avuto un altro segno, quello delle pratiche politiche. Posso affermare che il Sottosopra verde ha operato un rilancio del movimento delle donne in quegli anni, ma con modalità che non sono state viste perché non erano quelle già conosciute. Infatti nella narrazione corrente gli anni Ottanta e Novanta sono visti come anni di assenza o morte del femminismo. Invece io li considero gli anni più produttivi e inventivi, soprattutto per il femminismo della differenza. Io amavo spendermi nel sociale, sono stata una delle promotrici dell’autoriforma della scuola che era un movimento di donne e uomini di ampiezza nazionale, ma sono ben consapevole che tutto questo non sarebbe potuto succedere senza l’esistenza della Libreria anche come luogo materiale oltre che di pensiero. Quegli anni di sperimentazione di pratiche politiche sono stati un andirivieni costante tra quello che si viveva sui luoghi di lavoro e le riunioni che si facevano ogni giovedì in Libreria, dedicate alla riflessione sulle pratiche. Poi si andava a mangiare insieme: un gruppo al Cicip&Ciciap con Luisa Muraro e un altro gruppo in pizzeria con Lia Cigarini e si continuava a discutere. Tante idee sono nate intorno a un tavolo apparecchiato. L’esistenza di un luogo fisico è stata fondamentale, e anch’io ho sentito la necessità di contribuire a farlo vivere, facendo un turno finché ho potuto… c’è un guadagno a stare in Libreria che va visto: si offre tempo e lavoro gratuito e si prende molto sia come pensiero sia come ricchezza di relazioni.
Al cuore della proposta politica del Sottosopra verde c’è l’affidamento: «La significanza originaria della differenza sessuale si attiva praticando la disparità tra donne e affidandosi di preferenza a una propria simile per affrontare il mondo» (Non credere di avere dei diritti, p.138).
In quegli anni si ragionava della difficoltà per una donna di assumere la posizione di soggetto. Lo aveva rilevato Luce Irigaray, Patrizia Violi aveva pubblicato L’infinito singolare e ricordo che anche in Libreria costituimmo un piccolo gruppo di lavoro, voluto soprattutto da Francesca Graziani, e pubblicammo con Gabriella Lazzerini Eppure la lingua c’è madre (Cooperazione Educativa, maggio 1990). In quel testo portavamo avanti una ricerca linguistica approfondita per affermare che la soggettività femminile si costituisce con la relazione con l’altra, che è donna.
Erano i primi passi e penso che l’affidamento, una pratica che diventa un modo di stare al mondo, sia stato ciò che ha permesso a molte giovani donne di allora di costituirsi in soggettività femminile, autonoma dal maschile. Certo ai tempi la parola “affidamento” suscitava anche paure: paura di tornare nella fusionalità tra donne, paura di annullarsi in un rapporto di dipendenza. In gran parte queste paure erano legate al fatto che molte giovani di allora – io per prima – avevano un rapporto difficile con le loro madri. Oggi siamo in una situazione molto cambiata, quegli ostacoli sembrano non esserci più: il rapporto madre-figlia corre su altri binari, come ci ha raccontato Emma Ciciulla sulle pagine di Via Dogana 3 del numero La forza delle donne (giugno 2022), e d’altro canto non si può certo dire che le donne oggi non siano soggetti.
Eppure.
Da uno scambio tra Luisa Muraro e Jennifer Guerra pubblicato su Sette1 ho capito quali sono le contraddizioni da affrontare oggi per costituire legami tra donne che possano dare libertà e forza, come è stato con il rapporto di affidamento. La prima questione è che nel femminismo egemone tra le giovani la soggettività tende a scivolare nell’io individualistico «in cui a contare è il successo della singola donna»; la seconda, ancora più determinante, è che le giovani non dispongono di una dimensione simbolica del materno, che così resta confinato al solo ambito biologico.Dice infatti Jennifer Guerra: «Materno è una parola che a noi giovani fa un po’ paura, perché ci vediamo – forse sbagliando – un’esaltazione della maternità e la creazione di una gerarchia tra donne, prima le madri e poi le non madri». Risponde Luisa Muraro: «C’è una maternità come fatto e una maternità come dispositivo simbolico, sono due cose diverse. Io stessa sono una madre che non si identifica con la figura della madre. La dimensione della maternità non è mai assoluta e questo fa sì che si possa anche non essere madri per partecipare a questo ordine, che mette al mondo la forza femminile». Ascoltare e comprendere la radice delle obiezioni aiuta a intendersi e a entrare in relazione.
- Le parole contano ancora? Due filosofe divise da 50 anni, di Jennifer Guerra. “Sette”, venerdì 13 giugno 2025. ↩︎
Perché ad alcune donne la parola “affidamento” ha fatto o fa paura? La questione è emersa nella redazione aperta di Via Dogana Tre “Fare impresa femminista”. Io sono stata una di quelle donne e posso provare a rispondere per me.
Premetto che ormai da anni ho accolto l’affidamento, e sottoscrivo tutto quello che ne abbiamo detto nell’incontro: ha successo per chi lo pratica; rompe il patto sociale esistente fondato sulla centralità maschile e ne crea uno nuovo che dà forza e libertà a tutte le donne; una donna per diventare grande ha bisogno di un’altra donna più grande di lei e affidandosi riceve grandi vantaggi.
Eppure da giovane ne avevo paura e ho perso anni preziosi tenendomene alla larga perché ne fraintendevo il significato. L’“affidamento” mi evocava l’affido dei minori agli adulti, lo stare sotto tutela. Lo interpretavo in un senso gerarchico a cui mi ribellavo, senza vedere che mi offriva la libertà femminile che cercavo, e gli opponevo un ideale astratto di rigida uguaglianza e di democrazia formale.
Ho superato la mia diffidenza quando mi sono accorta che in politica facevo riferimento al pensiero di uomini e a dirigenti maschi, rischiando molto di più. Infatti, invece di affidarmi a una donna, mi consegnavo agli uomini, finendo per dipendere da loro. È andata così: ero marxista perché speravo che il comunismo avrebbe liberato le donne, nel mio partito desideravo prendere a modello delle donne, ma c’erano pochissime dirigenti e non tutte notevoli, per cui spesso pendevo dalle labbra degli uomini più brillanti. E le donne che stimavo erano garantite ai miei occhi dalla comune appartenenza e dall’importanza che avevano per i compagni. Cioè, erano “brave” perché tali le consideravano gli uomini, in un consesso maschile in cui la presenza femminile era facoltativa e non portatrice di senso. Però continuavo a essere insoddisfatta, a cercare qualcosa di più.
Per fortuna una delle dirigenti “notevoli”, Elettra Deiana, scoprì il pensiero della differenza sessuale, proprio attraverso una pratica di affidamento con Marirì Martinengo, sua collega, con cui realizzò un progetto di pedagogia sessuata. Allora mi fidai di lei perché la sua credibilità era “garantita” dal partito: paradossalmente, un po’ come se mi fossi “affidata” al partito per affidarmi a un’altra donna. Ma ascoltandola mi si aprì un mondo e nulla fu più come prima. A partire dal partito, che perse immediatamente il suo valore di misura del mondo.
Fu come guardare un trompe-l’œil e vedere improvvisamente l’impasse dove sembrava esserci una prospettiva. Mi accorsi che riconoscere il di più di altre donne non produceva gerarchia ma indipendenza dall’approvazione maschile, e che guardare gli uomini e il mondo in relazione con altre donne, attraverso una mediazione femminile, era condizione di libertà per tutte. Allora iniziai il lungo percorso che mi ha condotta fino alla Libreria delle donne.
Il termine “affidamento” è giusto perché descrive fedelmente la pratica. Non esiste una parola magica facile e accattivante con cui sostituirlo, perché ciò che fa problema non è il nome, ma l’imprevisto della libertà femminile e la paura di sottrarci alla misura maschile, l’unica che conosciamo. Così riconduciamo tutto a quel che la politica maschile ha già prodotto: l’autorità femminile al potere, il riconoscimento di disparità alla delega, l’affidamento alla gerarchia o alla tutela. È per lo stesso motivo che tante rivendicano ossessivamente giustizia dalle leggi e dalle istituzioni, anziché dare valore al proprio cambiamento. Laura Minguzzi dice: «L’affidamento va raccontato». Ha ragione. Ma per essere ascoltate nel racconto occorre prima aver costruito relazioni: non esistono scorciatoie.
Per una migliore economia di sé
Mi sembra di aver letto in qualche articolo giornalistico sul cinquantenario della Libreria, e comunque so per esperienza, che entrare qui fa effetto, fa effetto specialmente per una donna, perché è bello, è strano, si sente qualcosa di diverso… il fatto è che ogni donna conosce il piacere, la forza, di stare con altre, lo sente. La pratica dell’affidamento nasce da qui, dall’osservazione di questa esperienza soggettiva, dal pensarla, dal nominarla, in questo modo facendola diventare una risorsa politica. («Ci sembrava un’invenzione ma l’avevamo soltanto scoperto», si legge in Non credere di avere dei diritti, il libro scritto dalla Libreria delle donne, p. 153.)
Io penso che non si possa sorvolare su due o tre cose, tra loro collegate. La prima è che la pratica dell’affidamento presuppone una scelta riguardo al materno. L’elemento consapevole che le donne della Libreria hanno messo nella preferenza femminile per le relazioni con le proprie simili sta infatti in questo: nel vedere, o nel dire, che il bello di queste relazioni è ‘riscattare’ per sé l’amore della madre. E la madre, ‘figura dell’origine’, ti restituisce questo (il senso che hai un’origine) ma è anche figura della ‘disparità’ tra le donne: ti mostra e ti fa fare i conti col fatto che un’altra, per certi versi, sotto certi profili, può avere un di più rispetto a te e che questo di più faresti bene a usarlo per te, e lo puoi fare. Perciò direi che l’affidamento è anche una forma di investimento: di sé, delle proprie energie (e per questo è particolarmente appropriato parlando della Libreria come impresa ‘economica’. Si basa su un buon uso, su una buona economia, delle energie femminili). Tutto questo significa, secondo me, che il significato della differenza sessuale, che ispira il pensiero della Libreria, va ricercato sul piano politico. Presupposto delle relazioni tra simili, la differenza sessuale trova il suo senso sul piano politico, cioè delle relazioni, e vale a dire nel modo in cui entri nella società e ti metti in gioco; non è questione di ruoli, biologia, ecc. In Non credere di avere dei diritti (il libro della Libreria delle donne, apparso nel 1987) lo si dice così: «La differenza sessuale non consiste in questo o quel contenuto, ma nei riferimenti e nei rapporti in cui s’iscrive l’esistenza» (p. 18).
Tutta la prima parte di Non credere è una carrellata di figure femminili che hanno trovato la loro libertà e la loro grandezza eleggendo altre donne a propri riferimenti; e, questo, ben prima che sorgessero movimenti di liberazione femminile, o leggi di parità o di “inclusione”.
Quale è l’idea che corre in quelle pagine, quale è l’idea, o l’‘atteggiamento mentale’ che ha potuto far vedere libertà femminile nelle mistiche medievali, o nel farsi di Maifreda seguace di Guglielma? (Mi riferisco alla storia studiata da Luisa Muraro, e di cui sintetizzerei così il senso: Maifreda sapeva che, essendo lei una donna, la società non le offriva che ruoli in cui essere seconda, la moglie di, o anche l’abadessa di un monastero consacrato a un Dio-maschio; era una donna piena di forza, di volontà e di orgoglio; scelse allora di farsi seconda a una donna, Guglielma, che per Maifreda, era Dio, ciò che le permise di essere se stessa, una donna, senza essere sminuita, ma al contrario ingrandendosi).
L’idea è che la libertà femminile non è il prodotto di alcune istituzioni o di dati tempi ma è una necessità sentita sempredalle singole donne, e che hanno sempre cercato, e trovato, i modi per rispondervi, per metterla in pratica. Si tratta di nominare, di riconoscere, di far diventare risorse consapevoli queste ‘strategie spontanee’.
E così l’affidamento non è una ‘teoria’, è un modo per mettere in parola (ovvero: far pensiero di) qualcosa che già c’è (per questo il pensiero della differenza è pensiero del simbolico). E il solo fatto di pronunciare l’idea, il solo fatto di vedere, in comportamenti spontanei delle donne, in loro bisogni, una risorsa, è affidamento. È dare credito a quello che le donne fanno, pensando che dentro vi sia qualche cosa di sensato, di importante, anche se finora, o nella maggior parte dei casi, non visto, non nominato.
Se c’è un ‘metodo’ nel pensiero della differenza (o del simbolico) è quello di «ragionare tenendosi in contatto con la sfera del sensibile e una certa capacità di utilizzarla nel lavoro teorico» (Non credere, p. 40) e questa è una enorme differenza rispetto ai modi ‘accreditati’ di ragionare nel campo ‘teorico’, i quali tendono a separarsi dalla pratica, se non altro perché la subordinano a sé (la teoria che stabilisce come la realtà deve essere. E diventa ideologia). Il pensiero del simbolico non conosce la distinzione/gerarchia tra teoria e pratica: «Più volte … i nostri ragionamenti sono terminati con la scoperta del senso di cose che erano già davanti a noi. Meglio così, perché sapere leggere quello che è, è più importante del progettare i cambiamenti e i cambiamenti migliori sono quelli dettati dalle cose, quando si capisce quello che vogliono dire. Anche la proposta politica dell’affidamento è nata in questa forma e in questa forma desideriamo che sia presa» (Non credere, p. 188). E d’altronde: «Legarsi all’esperienza è stato il punto di leva del femminismo. Significa scoprirne il nucleo di verità che non è solo soggettivo, ma riguarda, con le giuste mediazioni, la verità del mondo in cui viviamo» (Chiara Zamboni, Sentire, in La carta coperta, Moretti & Vitali, Bergamo 2019, p. 67).
Perché investire sulle relazioni con altre? Alla base vi è la consapevolezza, e l’esperienza, molto dolorosa, dello ‘scacco’: l’esperienza dell’inesistenza, o svalutazione sociale, del nostro sesso. Questo è un problema molto grosso, è decisivo, ma la soluzione non potrà venire dalla società, dal sociale, il quale di per sé è sempre vissuto benissimo senza la libertà femminile; vi va portata e vi può essere portata a partire da un movimento individuale, singolare, e relazionale, grazie al quale ciascuna, dando credito al proprio bisogno interiore di essere in rapporto con la propria simile, per ricevere da un’altra un’immagine migliore di sé e delle proprie possibilità, mette quel bisogno in pratica nel mondo esteriore. E lo fa riscoprendo quel che una già sapeva sin dall’infanzia, ma che la svalutazione sociale del sesso femminile le ha fatto dimenticare: e cioè che «per diventare grande, ha bisogno di una donna più grande di lei» (Non credere, p. 142). La scommessa è che in tal modo prendano forma e visibilità sociale relazioni in cui le donne guardano l’un l’altra come fonti di forza e non strumentalmente, ma sulla spinta di un fine in sé, la propria libertà.
Inserendosi in una genealogia femminile «che non mi definisce ma mi riconosce» diventa possibile «trovare la forza e l’immaginazione» di ragionare «al di là degli stereotipi», ha spiegato una volta ai miei studenti Clara Jourdan, per mostrare come da questo movimento interiore nascano forza politica e mutamento sociale (come quello per cui lavorano le Città vicine: il mio era un corso dedicato al diritto all’abitare).
È questo un movimento interiore ed esteriore di ripristino di una fonte di autorità, quella materna, il cui aspetto più prezioso è di rappresentare la possibilità di relazioni «senza secondi fini» (Luisa Muraro, Non è da tutti, Carocci, Roma, 2013: p. 25): il genere cui appartengono le «cose che non progrediscono e questo non perché rimangano ‘indietro’ o risultino ‘superate’ da altre che cambiano col tempo: non fanno progressi perché sono semplicemente chiamate a ripresentarsi antiche e nuove» (Ib., p. 81 enfasi aggiunta).
(È perché parla di queste cose che Non credere è una lettura ‘interminabile’, come l’ha definita Laura Minguzzi nella discussione).
Secondo il pensiero del simbolico, concepire la libertà femminile come il prodotto di alcune istituzioni, o di dati tempi, è incentrarsi su una mediazione non felice e non sicura (la sorte della nostra libertà dipende in quel caso dalle vicende di quelle istituzioni, o dei tempi); laddove la relazione con un’altra donna che sia veicolo di forza, di fiducia, di libertà, è una mediazione a portata di mano, che rende possibile un “possesso sicuro” (altra espressione cara al pensiero del simbolico) della nostra libertà.
Invece, «la politica delle rivendicazioni, per quanto giuste, per quanto sentite, è una politica subordinata e della subordinazione perché fa leva su quello che risulta giusto secondo una realtà progettata e tenuta in piedi da altri, e perché adotta logicamente le loro forme politiche» (Non credere, p. 19).
L’affidamento è la ‘giusta mediazione’, la vera scoperta del femminismo «Prima del femminismo molte ignoravano il fatto che tra sé e il mondo c’era una struttura mediatrice» (Non credere, p. 184).
La politica della relazione, in cui l’affidamento si traduce, è prendere le energie femminili e usarle per sé, per le proprie simili, per un’altra. Non per amore di un fine sociale, anche se una trasformazione sociale è già in gioco quando una fa questo per te. Lei sta facendo un gesto libero, ti apre la via per un libero uso delle tue energie (cfr. Non credere, p. 105 e dintorni). Perché se lei ha libertà e ne fa uso, ti mostra che ce l’hai anche tu. Questo in effetti mette le cose ‘sottosopra’, è sovversivo, perché è un uso ‘irregolare’, o anche ‘deviato’ delle energie femminili, a cui, di solito (è anche questa una cosa che ‘si ripresenta’) si chiede di essere spese per tutto e per tutti, meno che per se stesse.
La mia cittadinanza
Per quanto mi riguarda, mi ritrovo tantissimo in queste parole: «La differenza femminile non domanda di essere descritta. Per esistere, ha bisogno di una mediazione così da poter uscire da sé e diventare a sua volta mediatrice in un circolo di potenza illimitata. L’affidarsi dà praticamente avvio a questo movimento liberatore di energie femminili. Comincia con un rapporto tra due ma non è un rapporto di coppia e vediamo che ben presto si dirama in altri rapporti suscitati dalla possibilità nuova di mettere in gioco la propria umanità, mente e corpo di donna» (Non credere, p. 186-7).
Per me è andata così, in effetti, perché a un certo punto da giovane, più di trent’anni fa, sono arrivata in Libreria per effetto di una relazione di affidamento e poi è venuto fuori per me un modo di vivere che passa attraverso una socialità femminile. Dico che sono arrivata in Libreria per una relazione di affidamento perché mi fidai di questa donna che mi aveva presa a cuore, che in un certo senso investiva su di me (si chiama Susanna), che diceva che dovevo entrare in contatto con quelle ‘della differenza’. Era una posta in gioco tra me e lei (una volta che l’aveva detto io che facevo, finta di nulla?) e le ho dato retta: poi sono successe tante cose, che mi hanno abituata a vivere in una socialità femminile, l’hanno semplicemente costruita intorno a me un pezzo alla volta e io spesso tra me e me l’ho chiamata la mia cittadinanza, perché in effetti abito il mondo passando attraverso le mie relazioni femminili.
Naturalmente non vi racconto tutta la storia ma un punto sì: a un certo punto smisi di venire in Libreria, ma è rimasto come un orientamento che ha dato una struttura al mio modo di vivere; per esempio a Roma mi sono sposata, poi ho avuto la figlia, ma intanto conoscevo e frequentavo donne, …poi a Cagliari, con le mie amiche, dico sempre abbiamo fatto tanta politica al tavolo della colazione, parlando, e cioè dandoci reciprocamente le parole. È politico lo scambio in cui io provo a dire una cosa che sento, che vivo, e tu mi aiuti a capirla meglio, a dirla meglio. (Nella discussione Michela Risi ha notato come in Libreria la parola circola, le ‘introduzioni’ fatte da coloro che sono al tavolo non sono sentite come un tutto compiuto che ‘il pubblico’ riceve. Dicendo questo ha toccato il cuore del lavoro del simbolico, che è fatto di parole messe in circolo, e cioè non utilizzate come definizioni già pronte, normative; parole invece che, nella loro incompiutezza rispetto all’esperienza, al vissuto, al sentire, fanno spazio per un lavoro, un lavoro certamente sociale, perché simbolico. Un lavoro nel quale lo scambio col punto di vista dell’altra, che ti suggerisce un’altra parola, o ti fa pensare meglio al senso della parola che usi, tende a ricercare le parole giuste per dire quello che c’è. Si è discusso tanto anche su ‘affidamento’ e ‘autorità’, parole come si sa ‘difficili’ e che ad alcune non piacciono, lo si è detto anche oggi nella discussione. Ma è così che le parole restano occasione di vita, di coscienza, di essere, di politica. Che ne sarebbe altrimenti della parola ‘donna’ o della parola ‘madre’?)
A proposito del parlare con le mie amiche, della politica fatta al tavolo della colazione, voglio aggiungere che secondo me è così che si rompe un patto sociale e se ne costruisce un altro. Riferendomi al giudizio di altre ha smesso per me di venir prima l’accordo con l’uomo, o col professore, ma è venuto prima l’accordo con la donna che conta per me. Metto l’una cosa nella prospettiva dell’altra. Mi sono abituata a ragionare così, a mettere le cose in questa prospettiva, a dare la precedenza al punto di vista e alle parole delle donne (non in generale e in astratto, ma di quelle concrete cui mi affido, di cui mi fido).
E, sempre per raccontare come sono andate le cose per me, in tutto questo passavano gli anni, una buona decina tra la metà degli anni Novanta e i primi anni Duemila, in cui in Libreria non venivo, ma ero al corrente, mi incontravo con altre donne, studiavo, a un certo punto, sempre tramite una donna, Ida Dominijanni, conosciuta in tutti questi giri, scrissi una cosa sul Manifesto e cosa successe, successe che ricevetti una email da Clara, la mia ‘referente’ nella Libreria, che a quel punto non sentivo da tantissimo tempo! E Clara mi scriveva che era importante che quello che pensavo non rimanesse ‘chiuso nell’università’. Mi scrisse proprio così, che a pensarci, per una che ha anche patito tanto, come me, per stare nell’università, e a quel punto ero ‘riuscita’ ti puoi anche offendere, ma ovviamente non mi offesi affatto, era un riconoscimento enorme ma soprattutto per me fu un segno incredibile del senso della relazione di affidamento: lei non solo non aveva smesso di fare attenzione a me, non solo aveva sentito di dovermi dire una cosa, ma si aspettava qualcosa da me, continuava ad aspettarselo, e nell’aspettarselo me lo mostrava possibile, al tempo stesso necessario (per essere all’altezza di questa aspettativa). Mi dava credito, ed era chiaro che era un’altra misura del mio valore.
Quando mi scrisse quella e-mail Clara sapeva, io penso, che ne andava della mia libertà. A quel punto della mia vita, giovane ordinaria e intellettuale in via di ‘riconoscimento’, potevo dimenticare, ma grazie a lei non ho dimenticato, che «il fatto di appartenere al sesso femminile è la ragione sociale di tutta la libertà che una donna può desiderare per sé» (Non credere, p. 126). La libertà necessaria per vivere.
La questione infatti era: dove vuoi mettere le tue energie? Dove cerchi riconoscimento?
Ho avuto l’opportunità di deviare da un uso ‘regolare’ delle mie energie (diventare un’‘esperta di femminismo’, restare per sempre la prima della classe… le cose che non bastavano) e il fatto che ci fosse ‘un luogo’ a cui orientarmi, la Libreria, ‘concretamente incarnato’ (Non credere, p. 126), ha pesato molto. Deviare le proprie energie, in modo che non vadano disperse, è possibile se non si perde di vista da dove vengono, quelle energie, da dove viene quella voglia di libertà, che è già libertà.
Esistenza
Per esempio, io non ho allieve, ma ci sono alcune colleghe più giovani di me che, senza dovermi nulla né aspettarsi nella da me sul piano della loro carriera, hanno mostrato, apertamente, di sentirsi autorizzate da me, da quello che io scrivo eccetera, per dire il loro. Se in qualche modo anche io sono una a cui altre in qualche misura si ‘affidano’ lo sono perché continuo a essere una che si affida; conosco colleghe che considero bravissime, sono le donne che mi autorizzano a sostenere certe cose e con cui misuro gli argomenti, donne a cui io mi affido perché attraverso quello che pensano e dicono penso meglio e di più. Non c’è bisogno di una dichiarazione ufficiale, di un patto formale (tu sei la mia madre simbolica, a te mi affido), non c’è bisogno di dichiararsi aderenti al ‘femminismo della differenza’ è semplicemente una condotta pratica (ti stimo, ti nomino, faccio riferimento a te, ti prendo a interlocutrice e sento che questo mi ingrandisce). L’autorità femminile c’è, basta vederla, e anche saperla assaporare, comincia da me che la cerco, allora la vedo che ce l’ho al fianco, la nomino, e sapendola me ne arricchisco.
(Ha ragione Lia Cigarini, quando dice che la relazione di affidamento è un guadagno per colei che si affida, così come è vero che l’ordine simbolico della madre… lo fanno le figlie! E allora, cosa guadagna colei su cui si fa affidamento? Tenendo conto che non è un ruolo fisso, ma ‘un andirivieni’ – prendo una parola usata a altro riguardo nel dibattito da Silvia Baratella – io penso che anche quando a una capita di sentire di essere colei a cui un’altra si affida, anche per lei, io credo, il guadagno è lo stesso: è la forza di sentirsi in un ordine simbolico generativo e reale, cioè la stessa cosa che per ‘l’affidata’; e forse il sentire, che vale anch’esso per entrambe, di aderire a una necessità. Questo, per rispondere un poco alla domanda fatta durante la discussione da Carlotta Grassi.)
Quando sono stata qui per parlare con Angela Condello del Catalogo giallo, nella discussione sorse il tema, sollevato da Laura Colombo, delle domande, fatte alla Libreria in occasione del Cinquantenario, sul se qui ‘si fa inclusione’. Come rispondere? Personalmente non penso proprio di aver ricevuto dalla Libreria ‘inclusione’; di certo ho ottenuto esistenza e mi pare una parola molto più bella (c’è un punto in Non credere, a p. 98, proprio sull’esistenza, che mi piace molto), ma lascio a voi decidere se libertà non è ancora più bella. Nel senso di queste parole: «Nel lavoro necessario per avere esistenza sociale libera il mezzo è eguale al fine. La libertà, infatti, è il solo mezzo per arrivare alla libertà» (Non credere, p. 182).
L’affidamento è una pratica di libertà, se non altro perché riflette una scelta (la preferenza per le proprie simili). Nella discussione è stato posto il problema se, per la propria sopravvivenza economica, la Libreria possa e debba chiedere fondi a soggetti pubblici, nel quadro dei finanziamenti per le politiche ‘sociali’. Penserei che il tema delle pratiche di libertà non vada perso di vista, e anzi possa essere di aiuto, nell’orientarsi in questa decisione.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Fare impresa femminista, 8 giugno
Vorrei dire la mia esperienza in Libreria attraverso quelle pratiche che ho vissuto personalmente e che sono la base della nostra politica, in particolare la pratica di relazione, l’affidamento e la pratica del fare.
Sono entrata in Libreria, quando era in Via Dogana, alla fine del 1976 grazie a Donatella Palazzoli, socia fondatrice che avevo conosciuto durante una vacanza e che me ne parlò con entusiasmo e passione. Mi invitò a partecipare e a fare un turno come volontaria; io stavo attraversando un periodo difficile della mia vita personale, ero attratta dalla proposta ma divisa tra il desiderio di partecipare e il senso di inadeguatezza rispetto a un percorso e un sapere che non conoscevo: vinse il desiderio.
Cominciai a fare un turno con Giordana Masotto che era la libraia di riferimento, poi mi ritrovai tutte le mattine in Libreria. La Libreria era diventata il mio spazio di libertà: lo scambio con altre, l’ascolto di esperienze e saperi nuovi, il turno affollato del venerdì mattina con Luisa Muraro, i rapporti di amicizia con alcune turniste mi facevano stare bene. Aiutavo nel lavoro quotidiano, un fare concreto che mi faceva sentire più coinvolta. Partecipavo agli incontri politici che si tenevano tutti i giovedì sera, ricordo il sottoscala pieno di fumo, le donne sedute sui gradini, l’ascolto come nutrimento mentale. Molta produzione politica, moltissime iniziative sono state pensate, elaborate, discusse in quel luogo.
Quando si trattò di sostituire Giordana, dopo diverse riunioni in cui nessuna si proponeva, io capii quanto quel luogo era diventato importante per me e che occuparmi della Libreria poteva essere il mio modo di partecipare più attivamente al progetto in cui mi identificavo e l’occasione di dare continuità a un processo di valorizzazione personale. Mi resi disponibile e entrai a far parte della cooperativa nel 1978.
Da allora sono stata responsabile della Libreria per 34 anni. Se oggi ripenso al mio modo di gestirla, posso dire che ho sempre contato sull’apporto delle altre. Ricordando l’esperienza positiva nel sentirmi più partecipe condivisi con le turniste del mattino il lavoro quotidiano della libreria: sistemazione degli scaffali, spunta dello schedario, apertura dei pacchi dei libri… dando a tutte la chiave per l’apertura, rendendole così più responsabili.
Spesso ho condiviso il mio compito con una donna che più di altre sosteneva il progetto e aveva tempo disponibile: universitarie, insegnanti, pensionate, casalinghe… tante, tante donne di età e interessi diversi si sono alternate al mio fianco in un rapporto duale in cui ho spartito lavoro, amicizia e passione politica.
Per le mie incertezze e dubbi su ordini o richieste particolari incominciai a chiedere a Lia Cigarini, che in riunione mostrava più esperienza e sapere di altre. Le sue risposte puntuali mi orientavano e mi permisero di vivere senza troppe ansie, anzi direi con tranquillità quel primo periodo.
Quando nel 1983 uscì il Sottosopra verde ricordo la commozione, quasi una conversione, nel leggerlo; mi riconobbi nello scacco, nel disagio e nella teorizzazione dell’affidamento c’era l’esperienza che io avevo vissuto con Lia.
Col tempo l’affidamento per me era diventato una specie di legame mentale che mi dava risposte. Anche oggi per me Lia è un riferimento necessario.
Nella seconda metà degli anni ottanta, una grande iniziativa in Libreria fu organizzata con i “mesi” dedicati alla storia, all’umorismo, ai romanzi, alla poesia, alla scienza, alla filosofia. Erano gestiti da quelle donne che più sapevano sull’argomento e che si rivolsero alle scrittrici, alle pensatrici più significative del settore per realizzarle. Tutte accolsero l’invito, molte venivano da città lontane a loro spese ed erano ospitate nelle nostre case. Io organizzavo e mi occupavo della materialità, aiutata da tutte le turniste in lavori essenziali per la buona riuscita degli incontri, seguiti da centinaia di donne. Dal mese della filosofia nel 1988 fu pubblicato a cura di Ipazia il catalogo rosa Quattro giovedì e un venerdì per la filosofia con le riflessioni e le foto delle relatrici e anche un mio scritto, “Come si costruisce una cattedrale” in cui io mettevo un sasso tra le pagine e ponevo il problema della invisibilità e del disvalore del lavoro quotidiano femminile così essenziale ma poco considerato dalle donne stesse della Libreria. Un progetto dove materialità e pensiero sono strettamente legati e ugualmente necessari. L’intento politico era di fare di questa realtà una rappresentazione sociale che producesse un’idea modificante.
Nel 1994 una proposta, decisa in riunione, nacque con lo scopo di entrare in rapporto e mettere insieme quelle librerie a Milano che avevano in comune la caratteristica di essere spazi sociali e culturali della vita cittadina come La libreria dei ragazzi, che oggi si chiama Libreria delle ragazze e dei ragazzi, Babele, la Claudiana, la libreria del giallo, quella del fumetto e altre… Si formò così “Librerie in compagnia” un gruppo di 12 libraie/i che si riunì a turno nelle varie librerie rafforzando relazioni e attivando contatti per farci conoscere e affermare la nostra presenza come parte attiva della vita pubblica della città. Si riuscì a coinvolgere la stampa e uscì anche una facciata intera sulla pagina di cultura locale di un importante quotidiano. Da questi confronti uscì un raffinato portfolio con il progetto e le schede di ogni libreria e un programma mensile con le iniziative di tutte che si dava in omaggio alle clienti. Per ringraziarci e per concludere questa esperienza il libraio di Babele, libreria specializzata in pubblicazione gay-lesbiche, organizzò nella sua bella casa una splendida festa napoletana con ricca cena, musica e canto.
Un’altra iniziativa a cui tengo molto è nata dalla relazione con Bianca Piazzese, giovane donna torinese che veniva ogni tanto alle riunioni della Libreria. Ci propose di presenziare con uno stand alla Fiera del libro di Torino dove lei saltuariamente lavorava. Il costo era molto alto così si pensò di condividerlo con quelle poche case editrici di libri e riviste femministe che, come noi, non avevano distributore. Contattai e riuscii a coinvolgere le editore che compresero la grande occasione di rendersi visibili in un ambito così fortemente patriarcale. A noi si unì la casa editrice La tartaruga con le prime traduzioni di autrici fondamentali per il femminismo e riuscii a ottenere la fiducia delle donne di “Scritti di Rivolta femminile” non soltanto per la vendita ma anche per la distribuzione dei libri di Carla Lonzi. Questa iniziativa incominciata nel 1990 si protrasse per qualche anno e lo stand diventò un appuntamento annuale dove si creavano relazioni, un punto di riferimento per le librerie delle donne che erano sorte in quel periodo e per alcune libraie un’occasione per aggiornarsi e prendere in deposito la nostra produzione e i libri di Rivolta. Con la politica delle relazioni le idee e i progetti si moltiplicano e si attuano in autonomia.
Un giorno, nello stand della fiera, una donna di Ancona che faceva parte di un gruppo femminista, ci chiese di organizzare nella sua città una mostra di libri, in occasione di un loro seminario. Con Bianca ne parlammo in riunione e la proposta fu accettata. “Fiera del libro delle donne” fu il progetto che ci portò in alcune città e regioni lontane, Ancona Napoli, Catania, Puglia, Sardegna, richieste da gruppi e librerie militanti con l’obiettivo comune di raggiungere e coinvolgere altre donne nel movimento. Riempivamo scatoloni di libri e documenti importanti e difficili da reperire e poi li spedivamo col corriere. L’incontro ci occupava per un weekend di 4 giorni dal venerdì al lunedì. Di quel periodo ricordo l’accoglienza generosa, l’entusiasmo reciproco nel vedere le tante donne che, la domenica, venivano anche da città e paesi lontani per seguire gli incontri, donne interessate che compravano libri, e chiedevano, e volevano conoscere… E poi alla fine dello scambio di esperienze e di saperi organizzavano cene e feste molto animate, felici dei nuovi rapporti e della riuscita dell’iniziativa. Non ci sono mai stati disguidi di pacchi o contrasti. Guglielma ci ha sempre protetto.
Con Traudel Sattler partecipai alla “Fiera internazionale del libro femminista” ad Amsterdam portando il Sottosopra verde tradotto in molte lingue anche in greco. C’erano femministe di tutta Europa e non solo, e ricordo in uno stand tedesco il libro di Luisa Muraro e la storia della nostra libreria, Non credere di avere dei diritti, tradotti entrambi da Traudel.
Nel 2001 fummo costrette a lasciare la piccola sede di Via Dogana a causa dell’affitto troppo alto e ci siamo trasferite in Via Pietro Calvi, zona non più così centrale ma col vantaggio di avere uno spazio più ampio con Libreria e Circolo della rosa insieme. Anche per l’allestimento e la sistemazione dei nuovi locali si agì la nostra politica affidandoci a Stefania Giannotti e Corrado Levi architetti cari amici della Libreria che rivoluzionarono gli spazi al meglio, ricavando un soppalco per l’amministrazione e un’ampia cucina dove socie e amiche del gruppo Estia si confrontarono, pubblicando poi l’esperienza nel quaderno di Via Dogana Fuochi. La Libreria fu attivata al massimo per sostenere questo passaggio che durò alcune settimane e che si concluse con una grande inaugurazione.
L’inizio in Pietro Calvi coincise con l’avvento della tecnologia. Laura Colombo che unisce nella sua vita materialità e passione politica è la nostra preziosa referente. Insieme inserimmo nel computer più di 6000 titoli… La Libreria ora è superinformatizzata grazie a lei.
Nel 2012 ho concluso il mio lavoro in libreria e ho passato il testimone a donne più giovani. Ora sono la libraia decana, per anni ho fatto un turno settimanale di mezza giornata, seguo gli incontri al Circolo e mi occupo della corrispondenza per la spedizione delle nostre pubblicazioni. Sapere che questo piccolo lavoro raggiunge donne lontane e le rende partecipi alla elaborazione politica della libreria dà senso a questo mio fare.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Fare impresa femminista, 8 giugno 2025
Mi è capitato qualche volta che qualcuna o qualcuno entrasse per la prima volta qui in Libreria delle donne e mi chiedesse: “Ma cos’è questa libreria?”, e io esordissi dicendo: “è una libreria, sì, ma è molto di più di una libreria”. Ne hanno dato notizia anche giornaliste e giornalisti che hanno fatto dei servizi in occasione dei nostri 50 anni.
Allora, cos’è quel “di più” che ha permesso di tenere aperta questa impresa per 50 anni? Come ha fatto la Libreria a reggere per tutto questo periodo, e quali sono le sfide da affrontare in un mondo in rapida trasformazione? Oggi cerchiamo insieme di mettere a fuoco questo “di più” che possiamo condividere con altre realtà.
Non voglio ripercorrere la nostra storia di 50 anni, ma devo dire che per me è stato bello e emozionante rileggere o anche leggere per la prima volta alcuni documenti dei primissimi tempi della Libreria, grazie a Marta Equi che li ha rintracciati negli archivi per la sua tesi di dottorato dedicata proprio alla nostra impresa.1 Qui voglio anche sottolineare l’importanza e l’efficacia dei testi che hanno sempre accompagnato l’attività della Libreria in un circolo virtuoso tra il fare materiale e la riflessione politica.
Come risulta già dal primo volantino del dicembre 1974, appena il negozio in Via Dogana fu trovato, l’attività della Libreria unisce la diffusione delle opere di donne del passato a quelle del presente, perché “pratica della nostra lotta è stata la presa di parola e trovare i tempi e gli strumenti (contro chi ne farebbe un uso capitalistico e contro di noi) per diffondere, discutere, approfondire tutto ciò che di nuovo le donne esprimono […] perché divenga ricchezza collettiva. […] La Libreria sarà uno spazio di incontro e di confronto aperto soprattutto alle donne…”.2 Sottolineo “soprattutto”, non “esclusivamente”, come in altre librerie delle donne che hanno seguito una linea separatista.
Quindi, oltre a essere uno spazio aperto sulla strada si delinea fin dall’inizio la vocazione della Libreria come editrice autonoma: infatti, la maggior parte delle nostre pubblicazioni è stata autoprodotta e autofinanziata, come i Sottosopra,Via Dogana e i Quaderni di Via Dogana. Una pratica editoriale che è pratica politica, non solo perché autofinanziata, ma perché le pubblicazioni sono strettamente legate all’esperienza messa in parola. In seguito, le parole materializzate sotto forma di pubblicazioni sono state quasi sempre accompagnate da incontri in presenza in tutta Italia. Questa pratica che io trovo ricca ed efficace, l’abbiamo riattivata con Femminismo mon amour, spaziando da Bressanone a Catania. L’impresa Libreria quindi è stata ed è creatrice di contesti e di relazioni.
Contesti e relazioni che si sono diramati nel sociale laddove le singole che prestavano e prestano il lavoro gratuito in Libreria si trovavano a guadagnarsi da vivere. E sono state le esperienze e le contraddizioni nei commerci sociali la materia viva per l’elaborazione politica in Libreria. Un periodo particolarmente fertile è stato quello dopo la pubblicazione del Sottosopra verde negli anni ’80-’90 proprio quando, secondo i media mainstream, il movimento delle donne era morto: sono nate la comunità filosofica Diotima, l’autoriforma dell’università e della scuola, la pedagogia della differenza, il gruppo Ipazia che riuniva scienziate e non scienziate, il gruppo Vanda di architette e urbaniste…
Per quanto riguarda la gestione della Libreria, non abbiamo mai seguito un’organizzazione di tipo aziendale, non ci sono corrispettivi in denaro (a parte un contributo simbolico per chi si occupa di aspetti amministrativi, ordinazioni di libri ecc.). Non abbiamo ruoli fissi regolati da un organigramma. Ma non è che qui vogliamo proporre un modello alternativo di “gestione femminista” di tipo Best practices. È stata un’avventura, una sperimentazione, era tutto da inventare, pescando ispirazioni di qui e di là, come testimonia un documento assai divertente dell’84: “La Libreria è tenuta un po’come la casalinga cura la casa, l’imprenditore lombardo gestisce l’azienda, il pastore sardo vigila sui suoi beni, un misto di accuratezza femminile, di prudenza contadina, di efficacia imprenditoriale. Con questa combinazione di cose contrastanti noi cerchiamo di giocare per inventare e realizzare qualcosa di nuovo che può andare bene alle donne”. 3
Nello stesso documento si sottolinea che “non siamo mai state un gruppo omogeneo e non lo saremo probabilmente mai”. E la storia l’ha confermato. Anche oggi, ognuna porta nel progetto il proprio desiderio, la propria passione e il tempo che può o vuole mettere a disposizione. Desideri e passioni ovviamente diversi che vanno contrattati con quelli delle altre, tenendo conto della disparità tra donne e riconoscendo l’autorità femminile. Non è facile pensare, parlare, esporsi, giocarsi in prima persona. Il rischio personale è forte in un contesto dove le relazioni non sono regolate da strutture prestabilite o dal denaro. Ciascuna è chiamata a fare i conti a partire dalla contrattazione tra sé e sé: che cosa voglio, cosa sono disposta a dare, cosa sono disposta a rischiare e cosa invece no? Quando i conti non tornano più capita che una se ne vada. Infatti, non voglio dare un’immagine idealizzata, abbiamo visto anche conflitti insanabili e rotture dolorose.
Stare in libreria è come “un impegno in più, di cui bisogna sentire l’urgenza e la necessità per sé” ha scritto Clara Jourdan in un numero della rivista di Diotima.4 Nella riunione di preparazione a questo numero la stessa Clara ha proposto di inserire il lavoro politico in “tutto il lavoro necessario per vivere” proposto dal Sottosopra Immagina che il lavoro.5 C’è un aspetto vitale, che fa vivere, nel dare il proprio tempo e le proprie capacità per un progetto comune trasformativo. Questa è una questione che va riconsiderata a fondo oggi in un momento in cui la Libreria è all’interno di un grande cambiamento sia nella sua gestione pratica sia nell’assetto relazionale in quanto alcune figure storiche per ragioni di età non possono più essere attive come prima.
Oggi come si sa c’è una crisi nel settore librario, dovuto soprattutto a Amazon che ti recapita in pochissimo tempo (sfruttando chi lavora) un libro a casa. Oggi poi – e questo è un aspetto positivo – libri scritti da donne si trovano anche al supermercato, a differenza degli anni in cui è nata la Libreria quando i libri di autrici non si trovavano da nessuna parte. Quindi la sopravvivenza economica della Libreria è più difficile. Io stessa devo ammettere di non prestare abbastanza attenzione ai dati di vendita, allo stato dei pagamenti dell’affitto ecc. Il denaro è entrato e entra, mai a sufficienza, dalla vendita di libri e documenti, inoltre da donazioni e finanziamenti di singole e singoli, che abbiamo preferito a finanziamenti pubblici che ci costringono a percorsi burocratici e linguaggi che non sono nostri. Ma oggi dobbiamo affrontare questa contraddizione.
Anche organizzare i turni volontari di vendita è più difficile perché le giovani che arrivano in Libreria sono immerse in un mondo di lavoro che risucchia tutte le loro energie.
Per me personalmente, stare in Libreria è stato ed è un grande guadagno: è stato di importanza esistenziale aver trovato uno spazio fisico aperto nel centro di Milano dove ho potuto mettere radici, in una città, in un paese sconosciuto. Ho trovato un linguaggio nuovo che ha rivoluzionato il mio pensiero e la mia vita, e ho stretto amicizie politiche e personali. Ho sempre avuto un profondo senso di gratitudine, e tutto quello che faccio per la Libreria ha il segno della restituzione da cui io stessa guadagno in esistenza e in ricchezza di relazioni. Per esempio aver tradotto in tedesco Noncredere di avere dei diritti e altri testi della Libreria e di Luisa Muraro mi ha aperto un mondo di relazioni in Germania e mi ha ricollegato al mio paese di provenienza.
È comunque una questione delicata, quella della gratificazione senza misura stabilita da parametri esterni come il denaro. Soprattutto oggi che viviamo in un mondo di gratificazioni facili e veloci, tramite like… Ci si aspetta il riconoscimento immediato da parte delle altre? Il riconoscimento sotto quale forma? Essere amate? Qual è la moneta di scambio? Il riconoscimento da “fuori”? L’apparire in TV in occasione dei 50 anni? Oppure c’è qualcosa, una mancanza o un desiderio che continua a trovare senso nello stesso farsi del cammino in cui la gratificazione e il solo fatto di farlo?
Ci teniamo molto a restare un luogo aperto al pubblico, e far vedere che oltre ai libri che si possono comprare e in un mondo dove sembra che tutto si possa comprare, c’è altro che circola, in un “mercato della felicità”.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Fare impresa femminista, 8 giugno 2025
- Marta Equi Pierazzini, A Legacy Without a Will. Feminist Organising as a Transformative Practice. PhD Program in Analysis and Management of Cultural Heritage XXXI Cycle. IMT School for Advanced Studies, Lucca 2019 ↩︎
- “Abbiamo trovato un negozio nel centro di Milano”, 8 dicembre 1974, in Marta Equi, op. cit. p. 215 ↩︎
- “La Libreria delle donne – sue caratteristiche, sua storia, in breve”, in Marta Equi, op. cit. pp. 338-341. (Il testo non è mai stato pubblicato, un’annotazione scritta a mano dice “al Comune per la Guida luoghi delle donne”) ↩︎
- Diotima, Per amore del mondo, n.11/2012 ↩︎
- https://www.libreriadelledonne.it/pubblicazioni/sottosopra-immagina-che-il-lavoro/ ↩︎
Lessi per la prima volta il Catalogo giallo due anni fa circa, dopo che fu Lia Cigarini stessa a consigliarmelo. L’ho letto in un susseguirsi di varie emozioni e mi sono immaginata in mezzo a loro, così arrivata alla fine ho pensato: «Quanto avrei voluto esserci!». Durante la lettura ho sentito una grande felicità, come quella menzionata durante l’incontro del 2 marzo proprio da Rosaria Guacci che invece alla stesura del catalogo ha partecipato.
Per la prima volta, dopo anni passati tra i banchi di Lettere all’Università di Bologna a studiare teoria della letteratura, finalmente ho scoperto che esisteva altro: la pratica della letteratura. Quasi il polo opposto dello spettro, se vogliamo. Perché se studiare la teoria mi ha dato degli strumenti in più per leggere, la pratica della letteratura – che è, a dirla meglio, pratica della lettura, come già avanzato anche da Laura Colombo in questo numero1 – mi ha ridato il desiderio del leggere e soprattutto gli strumenti per leggermi.
Io sono sempre stata una lettrice solitaria, ma questa pratica non è solitaria, non può esserlo per sua stessa essenza: la pratica della lettura è anche il desiderio di condivisione e scambio, per creare qualcosa di fecondo a partire dalla letteratura stessa. Come lo è stato il Catalogo. Dove il riconoscimento nella lettura – o anche il disconoscimento stesso – è propulsore e di conseguenza produttore di pensiero.
Ma questo processo non può avvenire nella solitudine del proprio spazio reale o virtuale che sia, non sarebbe fecondo, non sarebbe pratica ma mero esercizio di filosofia. E forse di questo avremmo bisogno quando si parla di “attualizzare le pratiche”: del metterle in pratica davvero, poiché le pratiche per loro stessa natura sono già attuali. Per “attualizzare il catalogo” basterebbe rileggerlo e lasciarsi trasportare dalla sua forza e dalla sua felicità trasformativa. Ciò che serve è trovare il tempo, lo spazio, l’energia e il desiderio per rimettere in piedi un progetto simile, rispondendo a quel bisogno che sento in me e in tante altre donne di ritrovarsi in una genealogia di scrittrici e pensatrici femministe. Questo potrebbe colmare quel vuoto profondo che caratterizza gli slogan del femminismo virtuale – spesso primo approccio al femminismo per le giovanissime – un mondo senza storia fatto di frasi accattivanti ma prive di radici nella pratica concreta.
In questo modo, potremmo navigare meglio tra i vari femminismi contemporanei, troppo spesso ridotti a ripetizioni meccaniche di pensieri preconfezionati, portati avanti come mere bandiere identitarie senza connessione con il passato o visione del futuro. Potremmo così rispondere alla cultura effimera delle stories di ventiquattro ore riscoprendo lo slancio vitale (e felice) del femminismo della differenza e la politica su cui si basa, fatta di relazioni intrecciate nella pratica dello scambio tra donne come fonte viva di pensiero e trasformazione.
- https://puntodivista.libreriadelledonne.it/la-lettura-come-pratica-politica/ ↩︎
Poco prima dell’incontro su Le madri di tutte noi (2 marzo 2025), in Libreria delle donne mi ha colpito una battuta: «…come eravamo intelligenti…». Con questa “allerta” ho seguito gli interventi introduttivi e la dicussione della redazione aperta di Via Dogana 3 e in particolare nell’incontro ho percepito la forza trasformativa messa in moto da una pratica politica che ha prodotto questo «modo di leggere che confonde vita e letteratura», ho visto il guadagno e la felicità provata da chi c’era.
Con il pensiero della differenza io ho guadagnato mediazioni e parole per il “qui e ora” con le quali ho abitato e mi sono radicata nel mondo, ricavando misura e forza dalle relazioni tra donne; sono riuscita a stare al mondo con un po’ di agio e il rapporto con la parola delle donne, con il femminismo della differenza, mi ha sostenuto nella mia impresa, il sindacato, e vedo la stessa pratica tra altre donne attorno a me, anche quando è inconsapevole, non nominata né riconosciuta.
Le donne che hanno scritto il Catalogo giallo sentivano che cambiando se stesse il mondo cambiava e noi abbiamo ricevuto e siamo cresciute con questo loro guadagno, tutta la mia esperienza sindacale e politica ne è stata alimentata.
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Dall’incontro con Lia Cigarini e Luisa Muraro, nel lavoro con il gruppo del Martedi della Camera del Lavoro di Brescia è nata la pratica politica della relazione tra donne senza la quale non sarebbe stato possibile il “lavoro di fabbrica e lavoro del pensiero” e il nostro (mio e di altre) “essere sindacato”.
La pratica politica e le esperienze raccolte nelle interviste realizzate (grazie a Loriana Lucciarini) a lavoratrici, delegate, funzionarie metalmeccaniche su “il lavoro, il lavoro sindacale, la contrattazione” nel dicembre 2018 sono diventate i “materiali” per il 27° congresso nazionale della Fiom Cgil.
Il confronto con il pensiero politico della Libreria, la relazione con Giordana Masotto e Luisa Pogliana, ha alimentato il “Tavolo permanente”1 per ripensare lavoro e azienda, una pratica politica che, in un luogo come la Libreria delle donne e in una forma inedita, ha messo insieme la forza e il sapere di sindacaliste e manager.
La relazione tra le donne impegnate al tavolo negoziale nei rinnovi del Contratto nazionale dei metalmeccanici ha individuato e costruito soluzioni contrattuali innovative per donne e uomini e introdotto misure “concrete” per contrastare la violenza maschile contro le donne.
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Nella redazione allargata di Via Dogana 3 sul valore politico del Catalogo giallo e sui testi nati dal pensiero della differenza è diventato evidente quanto “l’intelligenza” collettiva di quel lavoro abbia permesso a noi di trovare parole fedeli al sentire. Oggi, grazie a queste mediazioni, possiamo parlare in prima persona di noi stesse e di come siamo, nel presente.
Chiara Zamboni, nel suo bellissimo articolo Sul pensiero della differenza sessuale ha messo a fuoco una contraddizione che vivo e che non riesco a risolvere: per una parte della mia esperienza riesco a trovare solo parole che si avvicinano a quello che sento, senza mai dirlo davvero.
La parte di me che desidera esprimere pienamente ciò che sente di fronte ai fatti del mondo – quei fatti sui quali voglio «esistere, per esserci in rapporto agli altri e a noi stesse»2 non l’ho scoperta oggi: la conosco da tempo.
L’incontro di Via Dogana 3 ha (ri)messo al centro la questione dell’esperienza femminile che non ha o non trova parole per esprimersi; se non riconosco questa contraddizione, quel «vuoto simbolico pieno di esistenza» – per riprendere le parole delle lettrici di Gertrude Stein nel Catalogo giallo – rischia di essere occupato da descrizioni del reale che parlano anche di me, senza che io ci sia pienamente. E sento concretamente il pericolo che lo spazio delle relazioni si trasformi in un campo di battaglia, dove si muovono appartenenze e ideologie travestite da buoni sentimenti (i cosidetti valori) o da puro pragmatismo.
Silvia Niccolai, nella sua relazione3, segnala «il peso e il pericolo» e indica una traccia: «stare nel vuoto senza cadere nel nulla», senza «cedere al troppo pieno, l’identità troppo intensamente ricercata, il dispendio emotivo per l’una o l’altra buona causa…» perché oggi, dice, siamo di nuovo chiamate a schierarci e teme che il dover dimostrare che siamo dalla parte giusta «ci tolga la parola per dire il modo in cui fa davvero problema la realtà difficile dell’oggi, per ciascuna di noi nel suo concreto».
Chiara Zamboni offre una ulteriore traccia per affrontare il presente con intelligenza; chiarisce che questa ricerca di parole sensate richiede un «…lavoro di parole creativo. Un percorso che non può concludersi, perché un’espressione che sentiamo fedele, è semplicemente un punto di avvistamento da rimettere ogni volta in gioco dato che il nostro divenire si dipana lungo tutta la vita».
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Interrogando la mia esperienza e la mia pratica sindacale trovo un punto di avvistamento in grado di aiutarmi ad affrontare i fatti del mondo, la contraddizione in cui mi trovo: è il concetto di autonomia cioè la capacità, la facoltà, la libertà di esprimere il mio sentire senza subordinarlo ad appartenenze, pratiche identitarie, ideologie e regolandomi su quello che “è giusto” secondo il mio sentire; una pratica politica che mi permette di esprimermi politicamente senza ricadere nella ricerca o nell’affermazione di una identità, che sostiene la mia ricerca di libertà.
Con questa pratica politica possiamo occuparci di quello che succede – anche della guerra e della violenza – al riparo da ogni tentazione identitaria o di estraneità, facendoci guidare dalle lettrici della Stein: «la sua indifferenza politica è estraneità ad ogni ideologia», non estraneità al mondo e a quello che succede.
È un desiderio che mi sembra di riconoscere in altre donne, è stato un desiderio per tante donne prima di noi; l’ho trovato in Virginia Woolf, Edith Warthon, Rosa Luxemburg, così diverse tra loro, eppure quante altre donne (non lo so, lo sappiamo?) hanno trovato parole per significare la loro esperienza di estraneità ad ogni ideologia che sostiene la guerra.
Oggi il mondo è attraversato ed è minacciato da queste pulsioni ed è in questo mondo che «la differenza è in movimento»4.
- “Tavolo permanente” è un lavoro nato dalla relazione tra Giordana Masotto (co-fondatrice della Libreria), Luisa Pogliana (Ass. Donnesenzaguscio – Percorsi femminili in azienda) e me, un incontro che si propone di ripensare lavoro e azienda a partire dall’esperienza di sindacaliste e manager. ↩︎
- Chiara Zamboni, Sul pensiero della differenza sessuale, www.libreriadelledonne.it, sezione Contributi, 16 marzo 2025. ↩︎
- Silvia Niccolai, Vuoto simbolico pieno di esistenza, Via Dogana 3, 2 marzo 2025. ↩︎
- Chiara Zamboni, Sul pensiero della differenza sessuale, cit. ↩︎
Appena ho messo piede in Libreria delle donne nei primi anni ’80 sono stata attratta dall’intensità delle relazioni che lì si vivevano. Ho subito deciso di unirmi a questa comunità di donne che generavano parole che per me erano una vera rivelazione, tant’è vero che presto sentii il desiderio di tradurre in tedesco quelle idee che nella mia lingua madre non erano mai state formulate politicamente. Anche nella mia pratica femminista precedente, quella della sorellanza, avevamo letto le scrittrici e cercato le parole per dirci a partire dall’esperienza, ma mai scavando così in profondità, con il senso del simbolico, del lavoro sul linguaggio.
Oggi il Catalogo giallo ci ricorda e ci fa rivivere quel lavoro con tutta la fatica e tutta la felicità che comportava. Rileggendolo mi ha colpito come il desiderio della singola si potenziasse nello scambio con le altre, e come la perseveranza delle autrici che ci avevano lavorato per due anni abbia prodotto parole per nominare ciò che non aveva nome. Passione politica, sperimentalismo totale che, in assenza di un linguaggio, tentava ogni combinazione tra letteratura ed esperienza propria.
Silvia Niccolai nella sua introduzione dice di aver trovato l’assunto più potente della politica del simbolico nelle parole conclusive su Gertrude Stein: «Vuoto simbolico, pieno di esistenza» che lei ha riformulato per sé: «stare nel vuoto senza cadere nel nulla». Facendo vuoto della legge del padre, del simbolico maschile, non si cadeva nel nulla perché attraverso la relazione con l’altra si ritrovava ciò che mancava, la relazione con la madre e con sé stessa, liberandosi dalla violenta intromissione del maschile nella vita di ciascuna.
Oggi la situazione è molto diversa, più difficilmente decifrabile, ma per certi versi richiede lo stesso lavoro. L’ho capito tempo fa quando tre giovani donne del gruppo Le Compromesse sono entrate nella redazione di Via Dogana 3: erano esposte già da giovanissime a un neoliberismo che cerca di fagocitare il femminismo, e a un’intromissione insidiosa di influencer che nel nome del femminismo non fanno altro che imporre lo sguardo maschile. E anche loro hanno reagito in modo spontaneo con la sottrazione. Si sono messe insieme prima in rete e poi fisicamente per trovare le parole e dire la propria esperienza. Forse inconsapevolmente si sono inserite in quella genealogia che viene esplicitata nel Catalogo giallo.
Con la ristampa di questo fascicolo rilanciamo l’idea del filo che ci lega a quelle che sono venute prima di noi e a quelle che sono arrivate dopo. Non si tratta di trasmettere parole o concetti, che sono sempre legati alla contingenza, ma si possono mostrare pratiche efficaci. Un aspetto della pratica politica che vediamo nel Catalogo giallo e che sicuramente aiuta a intensificare le relazioni e lo scambio è il fattore del tempo, il prendersi il tempo necessario: incontri che duravano anche alcuni giorni, con piccoli gruppi di lavoro che si riunivano in giornata per ritrovarsi con le altre la sera, e discussioni fino a tarda notte. Io stessa ho potuto fare questa esperienza felice quando è stato elaborato il Sottosopra rosso sulla fine del patriarcato: mi è piaciuto moltissimo! Cinque giorni a Pasqua alle Cinqueterre tra riunioni, confronti a due, cene, passeggiate. E alla fine il lavoro insostituibile di sintesi di chi sa scrivere… Con il Catalogo giallo mi viene voglia di dire: riprendiamoci più tempo per pensare insieme, in questa epoca che impone ritmi frenetici a cui sembra impossibile sottrarsi.
Il pieno uso delle nostre facoltà produce felicità. La felicità ci fu data ai tempi in cui mettemmo mano alla scrittura del cosiddetto Catalogo giallo Romanzi. Le madri di tutte noi, a cura della Libreria delle donne di Milano e Biblioteca delle donne di Parma.
Erano gli anni ’80 e fra noi amiche più strette vigeva la consuetudine di parlare dei romanzi che ci erano piaciuti, così come oggi ci chiederemmo l’un l’altra quali viaggi ci piacerebbe fare, quali lavori e cose simili.
Storie? Tutte Storie? No, Lia Cigarini aveva sdoganato il romanzo come fonte di libertà per una donna soprattutto durante la sua formazione, sottraendolo alla sensazione di “piacere vergognoso” di cui godere in segreto, non parlandone in pubblico come fino ad allora molte l’avevano inteso. Allora si pensò di dividerci in gruppi di lavoro, ognuno dedicato alle scrittrici che ci erano più piaciute: le madri simboliche per noi essenziali.
Andammo da loro e da loro prendemmo. E restituimmo.
Come al mercato, quel mercato della felicità di cui nel 2016 avrebbe poi scritto Luisa Muraro nel libro omonimo, partendo dall’episodio biblico della messa in vendita di Giuseppe da parte dei fratelli gelosi della sua bellezza e dell’amore per lui del padre Giacobbe. Il figlio aveva tessuto al padre una tunica dalle lunghe maniche e anche noi avremmo intessuto abiti che volevamo perfetti per le scrittrici prescelte. Ci immettemmo dunque al mercato col poco che avevamo per acquistare il meglio, come la vecchietta che, nella narrazione di Luisa, si era messa in fila coi suoi gomitoli di lana per acquistare Giuseppe, il soggetto/oggetto più bello. “L’importante è il desiderio, anche quello di ciò che ci sembra impossibile da ottenere, perché il reale non è indifferente al desiderio e non assiste indifferente alla passione del desiderare. Il mondo è salvo solo al patto che coloro che lo abitano abbiano aspettative incommensurabili ai propri mezzi e non perdano mai la fiducia di essere destinati a qualcosa di grande”.
Ecco, noi volevamo la madre scrittrice che nel suo splendore non avevamo mai avuto o che avevamo piuttosto perduto, con la speranza di ricostruire quell’oggetto simbolico, fors’anche fino ad allora trovato mancante, impreziosendolo con un filo d’oro (il nostro desiderio, la nostra passione) come si vede in certi vasi kintsugi della tecnica giapponese.
I gruppi di lavoro si erano quindi scelti. Il metodo di lavoro era formidabile: il lavoro collettivo delle molte, orizzontale, reciproco, dove ognuna pensava, scriveva, aggiungeva, cancellava e il risultato parziale veniva di volta in volta sottoposto all’assemblea delle tutte.
Ci eravamo divise, forse un po’ ingenuamente, in seguaci delle scrittrici “vincenti” o “perdenti”. (Era nell’aria la “voglia di vincere” partendo dallo “scacco”, che Lia aveva messo a tema nel cosiddetto Gruppo n. 4. Nel 1983, due anni dopo la stampa del Catalogo giallo, il lavoro di quel gruppo sarebbe esitato nel “Sottosopra verde” Più donne che uomini chiamato anche “Voglia di vincere”.)
Noi intendevamo come perdenti le scrittrici che si erano mantenute in un’apparente indifferenziazione (le sorelle Brontë) o in quello che a noi sembrava vuoto, riempito di troppe parole, e avevano terminato le loro vite col suicidio (Sylvia Plath, Virginia Woolf). Era ancora lontano il tempo in cui una critica come Liliana Rampello avrebbe riscattato nel suo Canto del mondo reale la leggerezza, la perfezione, la lietezza della vita di Virginia laddove la morte rappresentava uno degli episodi e non il più significativo.
Tornando a noi, il risultato finale del Catalogo fu che le pagine scritte sulle “perdenti” mi sembrarono le più soddisfacenti e compiute dell’intero testo.
Fatto quindi salvo il metodo di lavoro, cosa cercavamo? Testi/pretesti da cui partire per prendere ma anche dare. Nulla sarebbe accaduto se non ci fossimo innamorate di parole o frasi che possedevano, per noi, luce. Pagine di scrittura risolta stando all’interno del nostro genere e nell’esperienza del nostro genere che trovava le parole recettive nell’esperienza.
Il viaggio era dall’approssimazione all’esattezza massima a noi possibile. Volevamo penetrare il “luogo nascosto della materia prima” (Lispector), l’accumulo di vita prima non registrata restando protette dalla figura materna. Che “era lì. Era lì fin dall’inizio” (Woolf). Alle sue spalle c’era un’assenza.
La prima lotta fu quella contro il linguaggio appreso, non materno, quello che invece ci avrebbe permesso di rivedere la realtà con quel segno che prima avevamo perduto: ora ci serviva riguadagnare di nuovo quello che era già in noi, “vecchie cose diffuse senza nome” (Adrienne Rich), che premevano forte per uscire.
Provammo “vivide sensazioni di apertura”. Come se fossero a portata di mano “cose straordinarie invece della frustrazione di situazioni che prima ci toglievano ogni piacere” (Carla Lonzi, Autoritratto). E nel contempo continuavamo la ricerca al fondo di noi stesse di “una parola migliore e ancora migliore di quella migliore” (Colette).
Come già detto, il metodo di lavoro fu squisitamente collettivo; fu messa in essere la ricerca, credo compiuta, di una genealogia femminile grazie anche alla parzialità riconosciuta delle attribuzioni. Furono due anni di pura felicità. Il catalogo “Le madri di tutte noi, ristampato tre volte, è sotto gli occhi del mondo.
Per sentirti parte di una genealogia femminile che produca in te una trasformazione liberante occorre rendere dicibile innanzi tutto a te stessa il tuo amore fin da bambina per tua madre e il suo amore per te perché questa è l’esperienza fondante la felicità di una donna di stare al mondo. Per far questo sono importanti ma non sufficienti gli scritti di altre, che sempre ti parlano nel presente pure se elaborati da donne del passato, scritti che ti sono venuti incontro perché ne avevi bisogno anche quando te li hanno consigliati. E neppure le parole di altre che hai ascoltato in incontri pubblici, addirittura quando le loro parole e azioni illuminano aspetti della tua esperienza.
Infatti ultimamente come Comunità di storia vivente1, una ventina di donne da varie parti d’Italia e una dalla Spagna, abbiamo messo in atto una pratica di incontri mensili, necessariamente on line, in cui riflettiamo sul racconto di ciascuna, uno alla volta, elaborato in anni di confronto in presenza nella propria Comunità, e qui ho visto delinearsi la redenzione della genealogia carnale di ognuna attraverso la liberazione dell’amore per la propria madre.
Un amore che rifulge liberato dalle recriminazioni, dalla sofferenza, dal dubbio che non sia stato o non sia corrisposto, perché ciascuna per sé insieme alle altre individua i delitti contro il piacere femminile2, piacere di cui l’amore tra figlia e madre è la matrice. Delitti come le forme della sessualità maschile con le conseguenti, a volte numerose, gravidanze indesiderate; la sessualità oggettivante l’altra, anche da parte di donne; le modalità della cultura ecclesiastica di reprimere la spiritualità femminile e colpevolizzarne la libertà; la deportazione femminile dalla casa materna a quella del marito; la svalorizzazione del lavoro femminile, sia quello non retribuito in ambito familiare sia quello retribuito in altri ambiti; la molteplice chiusura di una donna in ruoli non definiti da lei; la ricerca dell’uguaglianza con gli uomini sia attraverso l’accecamento di fronte alla violenza ermeneutica della scuola e del sapere accademico sia attraverso l’inserimento femminile in lavori usuranti e violenti e/o in strutture maschili di potere come partiti e sindacati. Delitti la cui colpa smettiamo di far ricadere su nostra madre o su noi stesse.
Che cosa ha permesso la redenzione liberante del proprio amore per la madre e, a partire da lei, la redenzione della propria genealogia carnale femminile? Che cosa ha permesso di non fermarsi a riscattarne solo le vite attraverso la loro narrazione secondo le modalità della storia sociale?
L’incontro col femminismo che ha valorizzato l’essere quella singolare donna come portatrice di significati ancora da scoprire insieme ad altre vicine a te come animecorporee, usando la felice espressione di Antonietta Potente, altre che ti hanno dato e danno fiducia nella ricerca di parole per significare la tua esperienza, e così anche la loro, e l’invenzione di pratiche che ti permettano di continuare a tentare di dirla.
Se il tuo amore per tua madre e il suo per te resta indicibile questa cancellazione o snaturamento pesa sulla tua vita e ti blocca in un presente asfittico. Portare alla luce questo amore ti ricollega col tuo sentire originario e ti colloca in una genealogia infinita, il continuum materno. Una genealogia che ti aiuta ora ad aprirti all’amore per le figlie reali e per le donne più giovani, e di farlo trovando forme non sacrificali, né per te né per loro, in cui di volta in volta creare insieme il piacere della relazione.
- Per conoscere di più sulla storia vivente e la sua pratica: Marirì Martinengo, La voce del silenzio. Memoria e storia di Maria Massone, donna “sottratta”. Ricordi, immagini, documenti, ECIG, Genova 2005; La pratica della storia vivente, “DWF” n. 3/2012; María-Milagros Rivera Garretas, Riscattare e redimere il presente in Annarosa Buttarelli e Federica Giardini (a cura di), Il pensiero dell’esperienza, Baldini Castoldi Dalai editore, Milano 2008, pp. 343-371; Comunità di storia vivente di Milano (a cura di), La spirale del tempo. Storia vivente dentro di noi, Moretti&Vitali, Bergamo 2018. ↩︎
- Rispetto al piacere femminile faccio riferimento alla rivelatrice e rivoluzionaria riflessione di María-Milagros Rivera Garretas nel suo libro Il piacere femminile è clitorideo, edizione indipendente, Madrid e Verona 2021. ↩︎
Sarò brevissima. Vi dirò solo che ho letto questo catalogo come se fosse nuovo, completamente nuovo per me, perché me l’ero dimenticato. Rileggendolo, mi sono ricordata del lavoro intenso che abbiamo fatto tra noi, tanto che a un certo punto una di noi ha esclamato: “Kavan c’est moi”, perché si sentiva totalmente identificata con questa scrittrice, che molte di noi non conoscevano nemmeno. Abbiamo lavorato con profondità per due anni, e sono stati due anni di pura felicità. Abbiamo anche vissuto assieme con un’intensità straordinaria, per esempio i quattro giorni passati nella casa dell’UDI a Caspoggio, dove ciascuna aveva la libertà di portare la propria scrittrice, parlarne, proporla, difenderla.
Per esempio, posso citare Jane Austen: in quegli anni era considerata una scrittrice leggera e divertente, adatta alle ragazze, non una grande autrice. Era interpretata in modo sbagliato, almeno qui in Italia. Solo dopo abbiamo scoperto che in Inghilterra era considerata tra i grandi della letteratura, una delle inventrici del romanzo moderno. Insomma, col nostro lavoro abbiamo contribuito a modificare la percezione di questa scrittrice. Ora, però, vedo che le più giovani non la conoscono, i suoi libri restano invenduti negli scaffali della Libreria delle donne, e anche questo va considerato. C’è l’occasione della ristampa del Catalogo, le più giovani potrebbero riscoprirla attraverso il Catalogo giallo.
Lo stesso vale per Ivy Compton Burnett, che tra le nuove generazioni non passa. In Inghilterra è stata nominata Dame Commander of the Order of the British Empire dalla Regina Elisabetta II, nel 1967, ma qui in Italia, anche oggi, la Compton Burnett resta poco apprezzata. Anche in questo caso forse perché viene vista come una scrittrice divertente, e probabilmente qui non si apprezza lo humor inglese.
A mio parere oggi entrambe le scrittrici sono ancora importanti, innanzitutto perché sono delle grandissime scrittrici e poi perché veicolano il simbolico femminile. Per esempio, Ivy Compton Burnett scrive il romanzo Madre e figlio, e nel suo svolgersi lei descrive due signorine, due ragazze in rapporto tra loro; lei legittima la relazione tra donne, anche il rapporto amoroso tra donne, del resto Ivy Compton Burnett amava le donne, aveva un rapporto amoroso con una donna. Insomma, lo descrive nel libro e quindi lo mette al mondo simbolicamente.
Il nostro lavoro è stato così intenso che è diventato un libro, il Catalogo giallo, che oggi è stato ristampato. E l’abbiamo fatto con molto divertimento e con la consapevolezza che fosse un modo per darci dei principi, come dire, dei fondamenti, e poi poter andare avanti su quelli.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Le madri di tutte noi, 2 marzo 2025
Preparandomi a questo incontro – Le madri di tutte noi – ho pensato che per riuscire a parlare in un tempo ragionevole del Catalogo, che è così ricco di parole ed espressioni, l’unico modo era stare a quello che mi veniva in mente, anche se taglia via tanto altro.
Intanto, come è andato il mio incontro col Catalogo? Una volta Angela mi interpellò su come rispondere alla proposta di una rivista americana di tradurre e commentare testi femministi che parlassero del rapporto tra politica e letteratura e allora mi venne in mente il Catalogo giallo. Non lo avevo mai letto e per la verità non lo avevo nemmeno mai visto, ma lo conoscevo da Non credere di avere dei diritti, dove lo si ricorda, tra altre cose, come il momento della scoperta che le donne tra loro sono diverse.
L’impasto di letteratura e politica fa parte anche della mia esperienza diretta: una gran parte del mio apprendistato femminista l’ho fatto coi romanzi. Leggere e condividere letture, spesso sul suggerimento di un’altra, mi ha dato un orientamento, un piacere, che potrei chiamare di visione, di un vedere, grazie a lei che ti dice qualcosa, qualcosa che già sai, in qualche modo, ma finora era solo dentro di te, e anche un piacere di rider sopra ciò che si vede, un piacere che ogni volta mi ha fatto sentire più ricca. È quello che ritrovo detto nelle parole che presentano la rubrica Libri preziosi,sul sito della Libreria: «Questo è un elenco tendenzioso e parziale di libri che ci hanno parlato. La scelta è dettata unicamente dalle nostre preferenze, e dal fatto che dopo ogni lettura ci siamo trovate a guardare la realtà con altri occhi».
Quando ho letto il Catalogo vi ho trovato tutto quello che ho imparato a chiamare pensiero femminista del simbolico, nel suo farsi. Non credere enuncia i suoi punti molto chiaramente, sin da quando nel sottotitolo si definisce come il racconto della generazione della libertà femminile nelle vicende di un gruppo di donne… e ti dice subito, così, che la libertà femminile non è una cosa astratta, che «bisogna esserci per viverla» (come oggi la Libreria descrive la sua politica), va insieme alle donne che la fanno mentre la cercano, «preferendo altre donne»…
Nel Catalogo è questo che circola, avviene, si addensa e trova dei momenti di espressione di particolare intensità.
Per me il passaggio più importante, quello che mi ha toccata più profondamente, è quello con cui inizia la parte su Gertrude Stein, e che ora vi leggo; per me qui c’è l’assunto (se posso chiamarlo così) più potente della politica del simbolico, in tutto il brano e specie nelle parole conclusive, «Vuoto simbolico, pieno di esistenza».
Abbiamo letto i libri della Stein in ordine cronologico.
Più cresceva la complessità (o la semplicità) della scrittura, più cresceva anche il nostro coinvolgimento, più cresceva il suo distacco dalle ideologie più cresceva il nostro piacere, più la sua scrittura dava conto dell’esistente, più ci siamo sentite libere.
Una cosa è una cosa è una cosa e non più soltanto una rosa è una rosa è una rosa.
Una scrittura che dà conto della superficie, che dice quello che tutti vedono se guardano.
Una scrittura senza sforzo ed esatta, che accosta e non subordina eppure è precisa, che non ha centro, che non ha una direzione privilegiata e scardina ogni possibilità di gerarchia. Una scrittura senza soggetto, senza il soggetto del libro e senza il soggetto che scrive il libro, perché il genio – cioè lei – è solo chi dice quello che si vede, cioè quello che esiste.
Così l’autobiografia è di tutti, Ida è solo un nome più i fatti che la riguardano, ad avere un’identità la Stein rinuncia con tranquilla pacificazione.
Non a caso – lei dice – è stata una donna che ha saputo guardare, senza schemi di collegamento prefigurati nella mente o nell’occhio. Una donna perché le è più facile essere fuori dagli schemi conoscitivi, dalle ideologie.
Poiché non ha nessun interesse particolare da sostenere: la società, la memoria, la cultura, sono dei padri.
Vuoto simbolico, pieno di esistenza. (p. 32)
“Vuoto simbolico, pieno di esistenza”, io me lo sono ridetto così: stare nel vuoto senza cadere nel nulla.
Il “vuoto” è la consapevolezza che l’esperienza, l’esistenza femminile non è, se la cerchi nel simbolico “dominante”, ma quando raggiungi questo vuoto non cadi nel nulla, perché il vuoto è anche un silenzio, il finalmente tacere delle definizioni, dei costrutti, delle missioni o dei valori affidati alle donne e in questo vuoto-silenzio finalmente puoi sentire qualcosa.
Nel Catalogo il passo che precede immediatamente quello su Stein dice:
«Non temere più» «e anche io mi sono detta per giorni “non temere più”, ritornello che nel libro suggerisce che ciò che è stato perduto o di cui si è mancanti può essere ancora ritrovato o ricostruito» (p. 30. La Signora Dalloway).
Ciò che si è perduto e di cui si è mancanti è la relazione con la madre, l’altra, se stesse (e questo punto è il punto di tutto il Catalogo, di tutta la nostra politica); il dominio maschile si è espresso nella violenta intromissione nei rapporti tra donne e pertanto nel rapporto di una con se stessa (il tema delle prime pagine di Non credere, dicevo, e nel Catalogova quasi da sé che in Tre esistenze di Stein la storia del rapporto tra Melanchta e Rose è la storia di una «relazione femminile turbata dal rapporto con l’uomo»).
La posta in gioco, ciò di cui vi è mancanza, non è il riconoscimento, i diritti, o il potere (che altri detengono, che ti rinviano sempre a quel simbolico dove non sei) ma la capacità di stare in rapporto con la fonte della vigoria di ogni donna, e cioè con la propria simile (e questa mancanza può essere colmata da noi stesse, e solo da noi stesse, tra noi): «Ciò che ho visto nelle varie scritture per il tramite delle immagini partecipava sia della natura delle cose reali che delle cose immaginate, ma in entrambi i casi il linguaggio era legato a una pratica reale e all’ingiunzione di essere lì dove doveva essere, un luogo di donne» (p. 30).
Oppure:
«Non ci troviamo più rinserrate tra mimetismo e silenzio: come Elsa Morante con le sue invenzioni, anche noi ne siamo fuori per qualcosa, la pratica dei rapporti tra donne e la riflessione su di essi» (p. 28).
Ecco che quando fai vuoto non cadi nel nulla.
Come in altri innumerevoli aspetti del Catalogo, nel passaggio su Stein, da cui sono partita, è presente un tema che sarà svolto molte altre volte, per esempio tutte le volte in cui Luisa Muraro, come fa nell’Ordine simbolico della madre, ti dice “a un certo punto bisogna arrestarsi nell’ordine delle negazioni”, altrimenti finisci nel nulla davvero. Una complessa presa di posizione filosofica (la critica all’eccesso di costruttivismo) è una reale questione di vita.
Il Catalogo ti invita a sostare nel vuoto, a non affrettarti a riempirlo.
Il Catalogo dice chiaramente che un modo per non sostare nel vuoto, per non approfittarne, e allora per cadere davvero nel nulla, è anche cedere al troppo pieno, l’identità troppo intensamente ricercata, il dispendio emotivo per l’una o l’altra buona causa…
Ci sono molti passaggi dedicati all’identità (Stein fa «una lotta contro l’identità» (p. 33) e le lettrici lo legano al suo modo di scrivere, aderente alla realtà, «che accosta e non subordina» (p. 32) col suo presentarsi slegata, frammentata: «L’adesione all’esistente riduce il problema di avere un’identità» (p. 38).
«In Ida si avverte la massima distanza dall’identità. Sappiamo che lei [Stein] non crede possibile né utile affaccendarsi per raggiungere un’identità, il problema – ripete lei – è essere, anche se ricercare un’identità è una piacevole debolezza della natura umana» (p. 43).
Quel quel che ne ho capito io, è che l’identità è anche uno schierarsi su fronti ideologici (Stein non prende posizione sul fascismo e la guerra, e alcune lettrici glielo rimproverano). Per esempio: Ivy Compton-Burnett, dice «“io sono un neutro”» e le lettrici scrivono «l’identità non le interessa» (p. 63). Proprio per questo può condurre la sua ironica, destabilizzante lettura del reale, che apre i buchi.
Luisa Muraro parla dei “buchi” (lo fa per esempio ne Le amiche di Dio), i buchi di un reale troppo compatto, necessari alla trascendenza femminile; il troppo pieno “tappa tutti i buchi” tutti gli strappi, gli scarti, le contraddizioni che vivi nell’apparente compattezza di un ruolo o, appunto, di una identità, e che invece servono perché passi la parola, l’esperienza, l’esempio, che ti dice che non sei affatto tutta lì, che nulla è tutto lì… i buchi servono perché da una trama fitta di “dover essere” che ti allontana dalla sua simile passi la tua simile, la preferenza per lei e quello che questo orientamento ti dà in più. Il Catalogo parla di “frammenti”, li preferisce, ma sono “i buchi”. Cose più preziose di una identità.
A me è questo che oggi risuona in modo forte del Catalogo, perché sento che siamo di nuovo chiamate a schierarci, a dare un’identità come si danno i documenti, e cioè a dichiarare da che parte stiamo… Spesso confrontate con una realtà che è realissima (la guerra) ma anche fantasmatica (Trump, Musk, le destre e le sinistre woke che “ci attaccano”…, tutte cose che si toccano e ci toccano, ma lo fanno in un modo strano, perché in realtà sono lontane, diverse, mentre risultano vicine, assimilate, e questo mi ricorda quello che Stein non fa … con la sua lingua «che non è tirata a esprimere sintesi grandiose», lei evita di «collegare distanze di spazio e di tempo che non si potrebbero mai toccare nell’esperienza» (p. 37).
Oggi, sento il peso e il pericolo di interpretare la mia posizione di donna come piegata a dover rispondere all’imperativo di offrire una sintesi grandiosa che metta a tacere tutti i conflitti, si dimostri al riparo da ogni contraddizione, sia inattaccabilmente nel giusto, mentre è diventata così insicura… Se io sono sicura che un mondo in cui il legame materno sia sostituito da una tecnica impersonale non è buono per nessuno, perché mi faccio incrinare dal dubbio di chi mi dice che difendere il legame materno li danneggia? Mi viene a mente una frase di Lia Cigarini, quando diceva, nella Politica del desiderio, che un diritto femminile sarà ben capace di occuparsi anche degli uomini, non lo abbiamo sempre fatto? Certo non lo faremo stilando un Programma di Gotha, però, non siamo venute al mondo per ripetere.
Voglio dire, che qualche volta in questo oggi guerresco, militarizzato, fatto di amici e nemici, io oggi vivo la sensazione che il dover dimostrare che siamo dalla parte giusta ci tolga la parola, la parola per dire il modo in cui fa davveroproblema la realtà difficile dell’oggi, per ciascuna di noi nel suo concreto.
Allora io sento il bisogno di pregare con Bachmann, e con Pia: «Parola, stai al nostro fianco» (p. 53).
Questa espressione richiama la parola metonimica, che ti sta accanto, che non sostituisce ciò che senti e che sei, non annulla con un registro metaforizzante la realtà che viviamo, i disagi, le paure, le ambizioni, le delusioni e le mancanze. Con questo faccio mia una famosa (per me) frase del Catalogo: «difendendo la Stein difendo me stessa», «così anch’io autorizzo la mia anomalia a vivere» (p. 57). La politica delle donne come versione perfezionata, e cioè l’imitazione perfetta, il portare a perfezione la politica maschile? Io credo che qui ci sia un ricatto e un pericolo, che sono noti. Mi vengono a mente le frasi con cui il Catalogo va verso la sua conclusione, e che parlano secondo me dell’autorità femminile e della politica femminile, fatta di trama complicata e indefinibile, perché non imita e non ripete le relazioni e le gerarchie note, le loro identità, i loro schieramenti, ma molto concreta, perché fatta del riferirsi in concreto ad altre, e allora anche se ti senti persa non sei persa.
Perché «c’è un corpo nell’armadio, non ancora cadavere».
Ancor prima di un desiderio tra noi, abbiamo condiviso il piacere di un sospetto riguardo alla naturalità della nostra condizione nel mondo, e al pieno del simbolico maschile. Abbiamo sospetti particolari sul mondo e anche su di noi, da sostenere non in vista di una redenzione universale, ma nella particolarità di un’ironica esperienza femminile. Quando abbiamo cominciato a dire del vuoto (e ancor prima, già nello stare tra noi), abbiamo accettato un non senso. Da qui, Compton-Burnett insegna, si può trarre un piacere raffinato, quello che riesce a comunicarci con la sua scrittura. Che non si deve temere il non senso. Fra le streghe medievali e gli automi settecenteschi, c’è lo spazio delle ambigue libertà che stiamo abitando; a volte riusciamo a fissare qualcosa (un arco, un angolo, una stella, un segmento…) ma per lo più siamo allusive, rispolverando spesso una vecchia forma di comunicazione femminile mai lasciata impolverare: il pettegolezzo, il cui gusto non sta tanto nel giudicare, quanto nel renderci complici tessitrici di sospetti. Fuori dai momenti ufficiali delle riunioni, si crea tra noi una fitta rete di pettegolezzi, che alimentano i fantasmi, creano alleanze ansiose e precarie, ma anche alludono a un qualcosa che non ha altro modo di esistere. È un modo provvisorio di condurre i nostri giochi e indica che la soluzione non sta nella prepotenza di un giudizio o di un azzittimento, ma di una forza particolare che tenga conto anche di questa rete sospesa. (p. 67)
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Le madri di tutte noi, 2 marzo 2025
Le madri di tutte noi è il titolo del secondo dei fascicoli editi dalla Libreria delle donne di Milano dedicati alla discussione sui libri. Il primo, del 1978, Catalogo di testi di teoria e pratica politica – Sulla servitù della scrittura. E sulle sue grandi possibilità, detto Catalogo verde, riflette su libri e documenti legati alla nascita e alla crescita del movimento delle donne. Il Catalogo n. 2 – Romanzi. Le madri di tutte noi, detto Catalogo giallo, privilegia la scrittura letteraria, a partire da quella delle scrittrici preferite, Jane Austen, Elsa Morante, Gertrude Stein, Virginia Woolf, Ivy Compton-Burnett, Sylvia Plath, le sorelle Brontë… Pubblicato nel 1982 in collaborazione con la Biblioteca delle donne di Parma, da cui provenivano alcune del gruppo che l’ha elaborato, è frutto di due anni di incontri, raccontati in varie forme. In occasione dei 50 anni della Libreria delle donne di Milano lo abbiamo ristampato e lo riproponiamo, sempre alla ricerca di «una parola che stia al nostro fianco», come scrive una delle sue autrici citando un verso di Ingeborg Bachman.
La prima cosa che mi ha colpito rileggendolo oggi, è che lì si manifesta in tutta evidenza il senso dell’aver scelto una libreria delle donne da parte delle femministe che l’hanno realizzata nel 1975. In quegli anni cominciava a diffondersi “la pratica del fare” insieme al parlare: alcune hanno aperto un consultorio, altre un bar… Queste donne hanno scelto di fare una libreria. Una scelta felice e fortunata. Penso di poter dire che il lavoro del Catalogo giallo incarni la necessità storica della Libreria delle donne di Milano, per le scoperte cruciali a cui l’esistenza di questa libreria ha portato: la genealogia femminile, la disparità, l’autorità… Il passaggio storico è avvenuto mettendosi in rapporto insieme tra lettrici con le scrittrici e le loro opere, i loro linguaggi, dove si è potuta cogliere quella differenza femminile che scompariva nel linguaggio di molti testi teorici femministi dell’epoca, che dovevano ancora usare le parole acquisite negli studi. Come dicono le autrici del Catalogo alla fine del loro lavoro, «alcune [di queste scrittrici] sono state delle inventrici di linguaggio, del nostro linguaggio» (p. 58).
E il titolo (titolo preso da un romanzo di Gertrude Stein) non poteva essere più giusto. Le madri di tutte noi sono le scrittrici e le madri di ciascuna donna, e la relazione con la madre che è dentro di noi e agisce nelle relazioni tra donne e con il mondo. Nei lavori sul Catalogo la consapevolezza della presenza in ciascuna donna della relazione con la madre emerge fin dall’inizio, come si vede nel racconto-riflessione sull’incontro residenziale di Caspoggio dell’ottobre 1980 (pag. 10 e seguenti). Lo sottolineo perché per me che non ero tra le donne che hanno fatto la Libreria e il Catalogo – io ci sono arrivata dopo, con la lettura del libro Non credere di avere dei diritti (1987) – questa scoperta della relazione con la madre è stata fondamentale, una delle cose della Libreria di cui sono profondamente grata, che mi hanno cambiato la vita, alla radice, cioè dalla relazione con mia madre. Prima ero concentrata a sottrarmi alla relazione con mio padre, e verso mia madre sentivo indifferenza, come se non contasse niente… Poi mi si sono aperti gli occhi e il cuore.
Le autrici non vengono indicate nella pubblicazione (come in altri testi femministi collettivi dell’epoca), tranne l’autrice delle vignette, Patrizia Carra, Pat. E ci sono alcuni testi firmati col nome. La parte sugli scambi a Caspoggio è scritta in prima persona e non è firmata. Ma qui vengono nominate (per nome senza cognome, tranne una per cognome senza nome) le partecipanti, e alcuni dei nomi citati sono ben riconoscibili, perché di donne che hanno continuato l’impegno in Libreria negli anni successivi, alcune fino a oggi, qualcuna anche qui in presenza o in zoom.
Una delle autrici è Lia Cigarini, che aprirà il nostro scambio insieme a due lettrici, Silvia Niccolai e Angela Condello, entrambe giuriste (come Lia). Angela Condello insegna Filosofia del diritto a Messina; ha scritto con Ilaria Boiano Lia Cigarini e il “vuoto legislativo” come libertà nel libro Femminismo giuridico (2019) di cui è anche una delle curatrici. Silvia Niccolai insegna Diritto costituzionale a Cagliari. Collabora con Via Dogana fin dagli inizi, discutendo negli anni ’90 le proposte di legge contro la violenza sessuale. Le abbiamo invitate oggi per il lavoro che hanno fatto sul Catalogo quando una rivista americana che si chiama Law&Literature ha chiesto a Angela Condello di scrivere sul rapporto tra “politica e letteratura nel femminismo italiano”; Angela ha proposto a Silvia di farlo insieme e hanno deciso di lavorare sul Catalogo giallo.
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Le madri di tutte noi, 2 marzo 2025
«Scartata la critica letteraria», scrivono le autrici alla prima riga del Catalogo giallo (1982, oggi ristampato), «diversi approcci erano possibili» (p. 1). Siamo appena all’inizio e ci troviamo immediatamente coinvolte in una ricerca, accanto alle donne della Libreria. Tuttavia, lo scopo di questo percorso non è ancora chiaro e verrà precisato nei testi del Catalogo (che hanno stili e temi vari): che cosa cercano, nella letteratura femminile (romanzi e poesie), queste donne di generazioni diverse? Delle madri che alimentino un simbolico femminile? Scrivono: «la trama del romanzo era seguita fino a che qualcuna non diceva: abbiamo inventato un altro romanzo… Fermiamoci ad analizzare questo nostro modo di leggere che confonde vita e letteratura» (p. 1). Come in un lavoro analitico, la letteratura è una sorgente di figure e codici che generano riflessioni e permettono di evocare episodi in cui identificarsi o da cui distanziarsi. A partire dai testi si riflette sulle proprie vite, e a partire dalle proprie vite viene risignificata la letteratura: le loro autrici sono Jane Austen, Emily Brontë, Charlotte Brontë, Elsa Morante, Gertrude Stein, Sylvia Plath, Ingeborg Bachmann, Anna Kavan, Virginia Woolf, Ivy Compton-Burnett.
Dove conduce la ricerca? Vogliono «vedere se i loro scritti, magari in misura ridotta, a sprazzi, momenti, facessero apparire un simbolico delle donne» (p. 1), e la rilettura delle scrittrici offre l’occasione per ripensare sé stesse e per far emergere «quello che andiamo cercando» per loro (p. 2). Come lavorano? Spesso scrivono: «alla rinfusa», «confondendo» i piani, prendendo tutte le direzioni possibili. Si tratta dunque di un lavoro genealogico portato avanti senza conoscere a priori l’origine verso cui le condurrà: le possibilità sono aperte e la genealogia serve a trovare quel che le donne sanno e quel che le donne sono.
Le scrittrici e le storie vengono deformate, ridotte a una frase o a una immagine, a una figura retorica: la madre al singolare (“The mother”, nel titolo di Gertrude Stein, The mother of us all) diviene «le madri», al plurale, a indicare proprio la possibilità di una moltiplicazione genealogica delle direzioni che il simbolico femminile può intraprendere e cioè qualcosa che è aperto in senso plurale, che non è detto una volta per tutte, che non cerca un «pieno» in cui stabilizzarsi ma cresce in uno spazio vuoto – che è quello in cui ciascuna può agire la propria libertà secondo forme anche impreviste. Si tratta di un lavoro genealogico che fuoriesce dalla condizione della necessità di trovare una e una sola origine o una e una sola identità: contro il «pieno» e «determinato» tipico dell’autorità maschile, le scrittrici sono il terreno dell’autorità femminile in cui pensare, dubitare e immaginare quello che le donne desiderano essere.
La madre, le madri e l’autorità femminile in genere sono temi volutamente confusi nel Catalogo: scrivono (ripensando al seminario di Caspoggio del 1980) che non capiscono «perché i discorsi sulla madre arrivano sempre allo stesso punto» (p. 13) e cioè al punto in cui si dice che la madre è un limite a quel che una donna avrebbe potuto essere, godere o volere. D’altra parte, spesso questi sono fantasmi: dalla madre si è nate e il seno materno non può che avere una connotazione ambigua e ambivalente, come un farmaco platonico è infatti ragione e soluzione di problemi. In questo senso però la lettura delle scrittrici aiuta a non distorcere il proprio pensiero rispetto all’essere donne: rispetto alle scrittrici esiste sia una distanza sia una relazione, sono «altre» eppure sono anche loro stesse, sono figure femminili grazie a cui ogni donna può chiamare in causa tutto quello che non è e che vorrebbe, invece, essere o diventare (ecco ancora la possibilità genealogica). Meglio che nel lavoro individuale su sé stesse o sull’astratto materno, spesso troppo concettuale e metaforico (qui il pensiero va a Maglia e uncinetto di Luisa Muraro, naturalmente), le pagine dei romanzi o i versi delle poesie ci mettono davanti alla possibilità di poter essere – ora e subito – diverse «da come la società, madre compresa, immagina e vuole che una donna sia» (p. 13).
Nel movimento genealogico, com’è ovvio e naturale, accade anche che alcune scrittrici siano citate più spesso di altre e che i loro testi finiscano per essere più generativi di altri. Le ragioni per questa differenza sono molte. Scrivono (p. 49): «avete dimenticato le sofferenti e vi siete lasciate trasportare dall’interesse per le vostre preferite, come la Stein, Ivy Compton-Burnett e Austen. […] Si è creata, come per convenzione del gruppo, questa dimenticanza delle scrittrici infelici perdenti sofferenti suicide vittime». Tuttavia, non è stata negligenza né rimozione: semplicemente, alcuni codici e alcune trame le hanno condotte prima o meglio nella direzione in cui stavano andando, e questo è accaduto durante le letture, durate anni (come ci ha confermato Rosaria Guacci durante la redazione aperta del 2 marzo scorso): la distinzione se la sono inventata, è vero, ma è anche emersa indipendentemente dalla loro intenzione, in un processo molto più ampio di questa dicotomia fra vincenti e perdenti che è diventata possibilità per generare uno spazio che si espande ancora oggi, come la lunga conversazione in Libreria ha confermato.
Di nuovo, come allora, il Catalogo è una chiave che mette in comunicazione letteratura, esistenze femminili e lotta politica: le vite di Emma di Jane Austen o Ida di Gertrude Stein, delle lettrici dei primi anni Ottanta, e di noi lettrici di oggi sono intrecciate, si incontrano e poi si allontanano; tuttavia, luci e colori, così come modi e tempi della scrittura, si confondono. Chi sono loro, chi siamo noi, chi sono loro? Dietro questa domanda c’è un chiaro intento confusivo e produttivo insieme in cui i testi, «scartata» appunto la «critica letteraria» (p. 1) in senso tecnico, funzionano come spazi dell’immaginazione in cui le categorie e i determinismi sono abbattuti in favore della generazione di nuove possibilità (semantiche, esperienziali, esistenziali).
Introduzione alla redazione aperta di Via Dogana Tre Le madri di tutte noi, 2 marzo 2025