Ho partecipato da remoto all’incontro di VD3 Sono soldi i soldi? ma non sono intervenuta, sia perché troppi pensieri e ricordi si affastellavano nella mia mente in modo disordinato, sia perché il confronto, molto ricco, portava in diverse direzioni, non sempre facilmente riconoscibili e conciliabili. O forse avevo semplicemente bisogno di pensarci su.

E ci ho pensato, lasciando affiorare gli interventi che più mi avevano colpito. Molte delle donne intervenute, la maggior parte direi, ha collegato la propria attuale posizione rispetto al denaro all’ethos di famiglia, riconoscendo – direttamente o non – una sorta di genealogia di atteggiamenti e scelte. E più di una ha menzionato le condizioni economiche difficili della propria famiglia, un retroterra di sacrifici, vissuto con un disagio non solo materiale ma anche simbolico, quasi all’insegna della vergogna, che in molti casi peraltro è stato di stimolo all’emancipazione personale.

Io, al contrario, vengo da una famiglia dell’alta borghesia padovana. Ho avuto il classico padre-padrone, dominante su moglie e figli, che ha imposto una morale famigliare e sociale sulla misura dei soldi, fino ai titoli nobiliari. Come è stato detto nell’incontro, il denaro non solo come mezzo materiale di scambio, ma anche come codice simbolico. Fin da piccola ho respirato questa morale di dar valore a persone, amicizie, eventi, scelte di vita, in base alla capacità economica: i soldi come misura di tutto. Ho vissuto anche l’assurdità della dipendenza di mia madre – che pur proveniva da una famiglia facoltosa – da lui e dalla sua scarsa generosità (per non dire avarizia) nel privato del ménage familiare, mentre in tutto ciò che entrava nello scambio sociale visibile si poteva (si doveva?) esibire la nostra posizione economica previlegiata. Classico esempio di scissione tra privato e pubblico. Nella mia famiglia la cultura contava niente, o quel poco che mia madre riusciva a far circolare e trasmettere a noi figli. 

Nell’adolescenza ho cominciato a riconoscere il mio disagio di fronte a questa doppia morale, come di fronte alla dipendenza economica, per nulla giustificata, di mia madre dal volere paterno. E ho maturato un forte desiderio di indipendenza oltre a costruirmi gradualmente una mia visione del mondo. Sono diventata una comunista (più tardi vicepresidente dell’Istituto Gramsci Veneto), ingenua, ma ostinata a tener testa a mio padre nelle pochissime occasioni in cui si parlava di politica in casa. E quando terminato il ciclo liceale con la maturità, mio padre decise che per me la continuazione degli studi era fuori gioco, tanto potevo aspettare il matrimonio, ho combattuto per fare l’università, con il sostegno seppur debole di mia madre. Avevo in mente l’indipendenza economica, il potermi creare una strada tutta mia, ma anche risuonava in me come un’attrazione l’esempio del mio bisnonno materno, uno scienziato – entomologo di fama – alcune scoperte del quale avevo studiato nei manuali del liceo. La cultura per me era un bene necessario, non sostituibile con succedanei quali il benessere economico e la rete delle amicizie che contavano agli occhi di mio padre. E quando ho portato a casa in dono ai miei il mio primo libro, pubblicato all’età di ventisei anni, quasi come ringraziamento per quanto avevo ricevuto da loro, credo avrebbero preferito la presentazione di un fidanzato benestante. 

Ho avuto la fortuna (non senza qualche fatica e sacrificio) di entrare presto, appena laureata, all’università e il lavoro di docente universitaria, svolto fino alla pensione, mi ha dato oltre all’indipendenza economica molte soddisfazioni, la gioia di rapporti significativi con studenti e colleghe/i, molti scambi e viaggi all’estero, lotte e impegni condivisi per trasformare l’università, fino a incontrare le donne con cui sarebbe nata la comunità filosofica Diotima. In Diotima non abbiamo mai parlato di soldi, non perché fosse un tabù, ma perché di soldi non c’era e non c’è tuttora bisogno, essendo una comunità, eterogenea per età e provenienza sociale, che trova ospitalità (finora gratuita) nelle aule universitarie per gli incontri periodici e il grande seminario annuale. È stata una scelta politica fin dall’inizio.

Sono vissuta del mio stipendio fino alla morte dei miei genitori. Allora ho ereditato. Ma ho anche subito ceduto una parte dell’eredità al mio primogenito, sia per alleggerire il mio carico economico che sentivo eccessivo, fuori misura, sia per aiutarlo a costruirsi la sua strada.

Quando nell’incontro ho sentito alcune intervenute (poche per la verità) parlare di un sentimento di vergogna per le proprie umili origini, è affiorato alla mia coscienza un sentimento simile, ma in forma capovolta: ora so di aver sofferto una sorta di disagio, se non di vergogna, per la ricchezza di cui disponevo. Sono sempre stata sensibile alle disparità/disuguaglianze sociali e cercato forme, per lo più ingenue ma poi sempre più politiche nell’ambito della sinistra, per combatterle. Continuo a farlo, non più nell’area della sinistra ma ormai da molto tempo nell’orizzonte politico delle donne e della differenza sessuale. Ma non è facile, come è stato sottolineato più volte.

Alla domanda rilanciata da Laura Colombo, «come guardare al denaro in modo libero e creativo?», risponderei dicendo che conosco il valore del denaro, credo di saperlo amministrare bene, senza (eccessiva) subalternità a istituti finanziari con cui mio malgrado ho rapporti, ma lo ritengo un semplice mezzo per la vita propria e altrui, compresa la vita dell’ambiente e del pianeta, cosa che sempre più mi sta a cuore. Mi sottraggo al consumismo nelle sue varie forme, sono attenta agli sprechi (e sostengo e pratico come posso l’economia circolare) e personalmente non amo fare shopping. Gli unici beni eccedenti i bisogni della vita quotidiana a cui non rinuncio sono i libri, e tutto ciò che mi nutre l’anima e mi fa star bene come spettacoli teatrali, mostre, concerti, cene con le amiche, ecc. E ricorro a cure private a pagamento quando proprio è indispensabile, non smettendo di denunciare il disfacimento del Servizio Sanitario Nazionale e di sostenere in vari modi le giuste richieste delle sue operatrici e dei suoi operatori, il cui lavoro, come ha ricordato Buttarelli, è inestimabile e andrebbe pagato più di quello dei manager.

Da anni ho una pratica, che chiamerei pratica del dono. Non certo in senso filantropico, bensì relazionale e politico. Ho la propensione a soddisfare con i miei soldi desideri di giovani amiche, anche se non sempre li condivido ma so che per loro sono importanti. Forse in qualche modo ammiro il loro stare sopra le righe quando coltivano un desiderio che sanno di non poter esaudire per mancanza di soldi, ma a cui tengono. E per me è una gioia vedere la loro gioia, scambiare con loro tempo, passioni, relazioni. Anche se non sempre accade quella dinamica propria dell’economia del dono, che è il dare, ricevere, ricambiare (v. Giannina Longobardi, Sono soldi i soldi? In Aa.Vv., La Rivoluzione inattesa, 1997), e la relazione con l’altra non prende (o non mantiene) la piega che mi aspettavo e in alcuni (rari) casi si dissolve.

Nell’economia del dono mediato dal denaro stanno anche le mie pratiche di sostegno finanziario ad associazioni, imprese sociali e cooperative, di volontariato, che da anni seguo per il loro impegno politico di cambiamento dell’esistente in vari e diversi ambiti. Le scelgo (e le seguo) accuratamente, escludendo quelle che si ispirano alla filantropia, all’assistenzialismo, all’opportunismo, restando subalterne all’economia neoliberista anzi confermandola. 

Mi sono esposta finanziariamente anche in modo importante per sostenere alcune imprese femminili cultural-politiche di cui ho condiviso finalità e senso, avendo fiducia nelle relazioni con le donne che le promuovevano, perché sentivo che il mio previlegio economico poteva contribuire a mettere in moto cambiamenti significativi, a tagliare l’ordine esistente aprendo altre prospettive di rapporti umani e sociali, di formae mentis, di circolazione non individualistica ma comunitaria di beni. Senza sicurezza del loro esito, dunque una scommessa politica.

Il nostro mondo attuale è dominato sempre più dal denaro come forma diretta e “sublimata” del potere, anche politico, e il denaro detta ormai le regole della convivenza. Penso a Elon Musk, l’uomo più ricco del mondo, che si appresta a governare con – o al posto di – Trump la cosiddetta maggior democrazia del mondo, e condiziona con i suoi innumerevoli satelliti e invenzioni tecnologiche le sorti di interi popoli in guerra. Penso alla mole di denaro investita in armamenti sempre più sofisticati e costosi. E penso alla compravendita di beni essenziali come l’acqua e l’aria pulite, ormai ridotte a merci investite in borsa, o al mercato di corpi umani o di parte di essi, messi sul mercato come prodotti qualsiasi, alle agenzie internazionali che si arricchiscono per esempio con la gestazione per altri, sfruttando a senso unico l’integrità umana, senza la quale alla convivenza non resta che il baratro della disumanità. 

E penso agli enormi interessi economici che muovono multinazionali, banche, assicurazioni alla ricerca/accaparramento di materie prime, depredando soprattutto paesi poveri, e al loro sostegno finanziario dell’agro-business che devasta foreste e aumenta la distruzione della vita sul pianeta: sostegno finanziario a cui non è certo estranea la politica dell’UE. E i soldi per i soldi (l’accumulazione di denaro per sé come imprenditori e per i propri azionisti), con l’impresa che si occupa di comprare e vendere capitale e molto meno di produrre beni, sembrano diventare il criterio primo dell’imprenditoria di un paese, e non solo in Italia, a scapito degli investimenti industriali utili alla crescita economica del paese e al benessere di tutti e nel calcolato disinteresse per la sorte dei lavoratori. Un fenomeno questo ormai riconoscibile, ma il cui carattere sistemico viene ignorato anche da una parte della sinistra, poco efficace nel prendere le distanze dal capitalismo neoliberista e individualista. E uno degli effetti è la povertà dilagante, oltre alla disoccupazione delle giovani generazioni, delle loro vite allo sbaraglio o in fuga verso paesi più promettenti. Come quella del mio secondogenito e della sua compagna, espatriati in Belgio da anni (dove sono riusciti a guadagnarsi da vivere e hanno messo al mondo il loro primo figlio) a scapito delle relazioni amicali e famigliari, di consuetudini e passioni lasciate non senza sofferenza in Italia.

Sono solo gli esempi più vistosi di un capitalismo in veste nuova, a cui forse tendiamo ad assuefarci per un senso di impotenza o rassegnazione. E questo è il pericolo più grande. 

Guardiamo allora alle innumerevoli iniziative “dal basso” (così si diceva una volta), che volano alto grazie alla energia desiderante delle soggettività in gioco e alla forza delle relazioni. Alcune sono state ricordate nelle parole delle intervenute, altre hanno evocato la pratica del conflitto tra economia del desiderio ed economia del profitto, dalle case, alle città, all’intero mondo. Più donne che uomini ne sono le autrici, sanno far tesoro della propria esperienza e della propria storia, non temono di relazionarsi con persone di altri mondi, amano e proteggono la vita rigenerandola. Penso al moltiplicarsi degli orti urbani e comunitari, dove si generano cibo buono e buone relazioni, penso ai luoghi di incontro, piccoli e grandi, in cui si fa insieme cultura e politica attraverso poesia, musica, arte, teatro. Penso alle battaglie per università e scuole a misura di desideri e bisogni di chi le frequenta, e biblioteche di quartiere che riprendono vita e fanno comunità. E vediamo generazioni diverse che si confrontano e si alleano, corpi e menti: dai ragazzi e ragazze di Ultima generazione, Extinction Rebellion eccetera, alle donne che hanno dato vita a livello globale a gruppi di attiviste per il clima e per arginare le destre dilaganti, fino alle nonne dell’associazione Senior Women for Climate Protection, che senza paura hanno denunciato il governo svizzero alla Corte europea dei diritti dell’uomo a Strasburgo per le insufficienti politiche di protezione dell’ambiente e della vita. Sono solo alcuni esempi, ma significativi di quanto la presa di coscienza a partire da sé e in relazione con altre, altri, possa generare trasformazioni passando dall’immaginazione all’azione, da un sé solitario e impotente al muoversi insieme, corpo, mente e desiderio, verso un altro oggi e un domani differente.   

Tra gli importanti contributi che hanno aperto l’incontro della redazione aperta di Via Dogana sul tema del denaro e la discussione che ne è seguita c’è una parola/un concetto lanciato da Daniela Santoro nella sua introduzione che ha trovato, non solo in me, un’eco speciale, una risonanza che connetteva istantaneamente il presente e il passato. È la parola “energia”.

Il presente evocato è l’adesso, raccontato parlando del proprio rapporto con il denaro, complesso in sé, radicato nei vissuti familiari di ognuna e rielaborato individualmente o collettivamente dentro un percorso femminista.

Oggi è quasi più difficile parlarne che in passato – il denaro è ancora molto “tabuizzato” per usare un’espressione di Ida Dominijanni – perché la questione si scontra con una situazione inedita e che molti definiscono “di caos”, cioè dove nulla sembra più funzionare.

Le disuguaglianze sono aumentate in maniera inaudita, il lavoro è cambiato e va in una direzione di impoverimento che non sembra dipendere dai comuni mortali, siamo finiti con sorpresa e sconcerto dentro una situazione di guerra, c’è difficoltà a far avanzare la consapevolezza sui rischi climatici ed ecologici che corriamo.

Chi l’avrebbe mai pensato in questi termini così radicali? Che cosa ne deriva?

Per me direi che ne deriva un umore basso, un pensiero connotato di ansia e pre-occupazione, entrambe alleate nell’immobilizzare e passivizzare. 

D’altra parte pre-occuparsi non vuol dire occuparsi.

Chi ha approfondito cosa avviene all’interno delle persone e nelle relazioni dice che l’Italia e tutto l’occidente è caduto in una tristezza/un umore depresso che si manifesta con disinteresse per la politica, un sentimento di impotenza verso l’enormità della guerra e aspettative di un potere autoritario che faccia ordine. 

È a partire da qui, da questo umore o sentimento, che ha preso il via per me il ricordo del passato e la ricerca di che cosa ci muoveva allora, così decise, così sicure. 

Parlo del periodo che sinteticamente definiamo “il ’68”, ispirato agli ideali di giustizia sociale, che ha visto germogliare e poi prorompere il femminismo. È stato per noi donne un periodo magico dove si è avviato il nostro “riposizionamento” nel mondo.

Riportare ad allora può far pensare a visioni utopistiche, non trasformative. Non è stato per nulla così. Alla rivolta del ’68 e al grande movimento delle donne sono seguite le più importanti conquiste degli ultimi cinquant’anni sul piano dei diritti essenziali: la riforma del diritto di famiglia con l’abolizione del pater familias, le possibilità di scelta nei rapporti donna-uomo (divorzio), la possibilità di una maternità consapevole e voluta (liberalizzazione degli anticoncezionali, aborto). E altre ancora tra le quali, di primaria importanza, la sanità pubblica introdotta da Tina Anselmi.

Ripenso a cosa ci muoveva allora. 

Per quella generazione c’era la giovinezza, certo, ma questa non è di per sé garanzia di un cambiamento positivo e per me auspicabile. C’era invece tanta motivazione, passione e desiderio perché venivamo da un passato buio, sessuofobico, fatto di proibizione e sottomissione. 

Oggi, a condizioni profondamente mutate, quell’energia stenta a riprodursi e mi pare che tutte/tutti soffriamo un po’ di questa assenza. 

Rinalda Carati si chiede: «Come si elabora il lutto di tutto quello che in questo mondo sta finendo perché ne sta cominciando un altro?»

Personalmente ho spesso l’impressione che viaggiamo su un piano inclinato che porta verso il basso, mentre abbiamo bisogno di trovare di nuovo direzione e orizzonte. In questo contesto penso che l’energia vada intenzionalmente alimentata perché non trova condizioni favorevoli e, spontaneamente, si produce a stento. 

C’è bisogno di esempi positivi. 

C’è bisogno di aiutarsi, dice Vita Cosentino, «l’aiuto risolve la questione dell’energia». 

Linda Marana invita a «portare l’etica dentro il lavoro», fa esempi di attività di fundraising e dell’acquisto da parte dei cittadini di un’isola a Venezia per sottrarla all’acquisto privato e alla speculazione.

C’è bisogno di lotta. 

La parola lotta oggi è un po’ desueta. Va risvegliata e rinverdita. Ovviamente intendo lotta non violenta, quella che mette in pista immaginazione e creatività, non armi e violenza. 

È lotta anche, di grande importanza simbolica e comportamentale, produrre un linguaggio del cambiamento, non stereotipato, capace di sfuggire alle semplificazioni banalizzanti e alla neutralizzazione dei due sessi. 

Quello che ci siamo dette nell’incontro e la ricerca collettiva di prospettive e di azioni concrete esemplificate nelle relazioni introduttive e nel dibattito, sono già un esempio positivo di quella che per me è una direzione e un orizzonte auspicabile. 

Sono vissuta a Venezia fino a 19 anni in una famiglia borghese professionale, dove tutti e tutte erano laureate. Nonostante una grande casa, una famiglia osservante non restrittiva, l’incertezza sociale c’era: riguardava i soldi, che erano pochi. Quindi era ovvio lavorare per mantenersi. Mi ero convinta che la mia realizzazione dipendesse dal livello culturale, più che dal patrimonio, o dal destino delle donne e degli uomini.

Ho scelto la facoltà di lettere per mantenermi (allora era facile trovare delle supplenze anche prima di laurearsi).  Stava iniziando il ’68 e la cultura era l’impegno per inventarne un’altra, in grado di contraddire gli ordini, anche affettivi. Poi ho scelto l’ultima occasione per ottenere una baby pensione e garantirmi una sopravvivenza per lavorare nell’arte contemporanea. Avevo assorbito l’dea che era importante un luogo critico, più che uno dove essere pagata per scrivere correttamente. Così mi sarei costruita una credibilità professionale, e non solo uno stipendio. 

Le prime recensioni le ho fatte per il manifesto dove il compenso, non solo per collaboratori, era una questione “politica”: chi poteva vi rinunciava e altri e altre accettavano ritardi. 

Ho privilegiato il desiderio di scrivere per essere letta, a quello di ottenere un reddito.

Ora mi accorgo che era un’adesione indifferenziata a un comportamento culturale tradizionale. Patriarcale? E qui, riconosco una difidenza, o almeno una lentezza, a progettare non tanto i luoghi dove garantire il lavoro delle donne a pieno titolo, ma quelli economici per finanziare e pagare il nostro lavoro culturale, e non solo il nostro gratuito, ineliminabile, confronto critico. 

La Libreria è un luogo di produzione senza “scopi di lucro”: un carattere specifico della ricerca intellettuale, che mi ha molto aiutato a formulare pensieri dissidenti, oggi però penso che, rispetto al perenne squilibrio tra i compensi delle donne e degli uomini, procurarci da noi i soldi per produrre, noi, le nostre iniziative culturali, sia una bella differenza. 

E anche una cosa di buon senso, visto che quando si pubblicano libri con case editrici professionali, si fanno conferenze o mostre in luoghi pubblici, in forme laterali ci viene quasi sempre chiesto di partecipare al budget! 

Forse è arrivato il momento di fare un balzo imprenditoriale, magari si sblocca il binomio oppositivo, soldi-contenuti, visto che la credibilità culturale, prodotta dalle donne è il cambiamento invocato da tutti. 

Quanti soldi sono abbastanza? È una domanda provocatoria che invita a farsi trovare allo scoperto, a rivelare l’intreccio che tiene insieme aspirazioni e condizioni materiali. L’argomento soldi è capace di stanare le contraddizioni dentro e fuori di noi per la peculiarità quasi impudente e sfacciata che lo contraddistingue, al tempo stesso si svela nella sua pretestuosità, nel suo continuo e imprescindibile evocare altro: relazioni, vicende, retaggi, storie.

Quanti soldi sono abbastanza? A questa domanda istintivamente mi viene da replicare in cerca di chiarezza: abbastanza per cosa?

Chiedere di quantificare l’avverbio abbastanza quando si parla di soldi è un po’ come cercare di stabilire quanto olio o latte ci voglia nella preparazione di un piatto quando la ricetta suggerisce “q.b.” (quanto basta); denaro e cibo non di rado occupano gli stessi spazi dell’esistenza: sopravvivenza del corpo, relazioni, affetti, dimensione sociale. L’avverbio “abbastanza” relativizza istantaneamente, mi chiama a incarnare il pensiero, cioè a dire ciò che so e a prendere le distanze dall’astrazione, dalle ipotesi che mi sono convenientemente lontane. Per me parlare di soldi è come camminare su un laghetto ghiacciato, sento gli scricchiolii, incedo con cautela mista a paura; scivolare in modo ridicolo sulla superficie dura e sprofondare nelle acque gelide sono due eventualità ugualmente probabili. All’inizio della mia vita i soldi – quelli pensati, voluti e prodotti dal pensiero maschile – sono stati una variabile dotata di una forza capace di imprimere una deviazione radicale a quello che sarebbe stato il mio futuro, quantomeno nelle sue potenzialità: il potere e la centralità riconosciuta ai soldi mi hanno imposto l’adozione e mi hanno consegnata a una extra-ordinaria vita con due madri. Proprio pochi giorni prima dell’incontro di redazione ho dovuto aprire il fascicolo della mia adozione nel quale sono contenuti documenti di ogni tipo, ricevute, traduzioni di documenti dal brasiliano1 all’italiano e viceversa, biglietti, prenotazioni, lettere; fra i vari fogli uno riesce sempre a trascinarmi a sé, si tratta di una lista di spese vive sostenute dai miei genitori adottivi e antecedenti l’adozione definitiva, cioè l’emissione del dispositivo giuridico; fra queste spese svettano cinquecentomila lire per spese di degenza ospedaliera e duecentocinquantamila lire di farmaci. Nel Brasile del 1985 l’accesso alle cure era un nodo pericolosamente economico e i soldi potevano divenire lo spartiacque fra la vita e la morte. Ero gravemente malata a causa della malnutrizione, in condizioni così precarie da essersi resa necessaria l’ospedalizzazione e la mia giovanissima madre, Angela, che allora aveva diciotto anni, non era in grado di sostenere quelle spese; un’altra donna le avrebbe coperte, una trentaquattrenne messinese di origini borghesi che lavorava, ironia della sorte, per una banca, la mia madre adottiva, Raffaella. Quelle cifre, scritte col solito ordine chiaro che contraddistingueva l’azione di mia madre Raffaella, fanno emergere ancora oggi il campo in cui le mie due madri si sono avvicendate, toccate, legate e i presupposti maschili ai quali entrambe hanno dovuto in parte subordinarsi ma ai quali si sono ribellate in un modo forse imprevisto. Da un lato un Brasile emerso dalla feroce e fallocratica dittatura militare e nel quale la più ineludibile delle fragilità – la salute – era un affare privato, dall’altro l’Italia che aveva beneficiato pochi anni prima della genialità di Tina Anselmi, madre volitiva di quel Servizio Sanitario Nazionale che ha reso quasi cosa viva il concetto di solidarietà; nel mezzo un sistema maschile che stava costringendo due donne a dare misura del valore della maternità adottando esclusivamente il parametro economico: Angela avrebbe perso, solo giuridicamente, la possibilità di dirsi (mia) madre perché priva di sostanze, Raffaella che avrebbe acquisito la possibilità di dirsi (mia) madre perché in una condizione socio-economica solida2. I soldi in questo caso, come in una buona parte delle storie di adozione internazionale, si imposero quale parametro di merito capace di tramutare la maternità in puro dato economico; questa maternità monetizzata non dice nulla di come le mie due madri si sentissero in quelle settimane di scambio e provo sempre una grande tenerezza per entrambe quando mi capita di pensarci. La reductio ad pecuniam non si impose solamente sulla maternità ma anche su di me in qualità di figlia e mi qualificò come una questione economica che andava risolta secondo parametri sui quali nessuna donna aveva potuto (o voluto) avere voce in capitolo; il dominio maschile crea strettoie e poi le chiama “ordine naturale e logico delle cose”. In un certo senso Angela e Raffaella furono protagoniste di una riproposizione ancora più grottesca (rispetto all’originale) del giudizio salomonico: quale delle due è la “vera” madre? Quella con più soldi, rispondono le carte. Eppure nessuna delle due mi stava contendendo, anzi direi che le mie due madri proprio in quei giorni strinsero un patto silenzioso di mutuo riconoscimento: in nessun momento della vita mi è stato chiesto di stabilire quale delle due fosse la mia “vera” madre: Raffaella non ha mai avuto la mira di essere “l’unica”, pur avendo dalla sua la forza della legge; Angela non si è arroccata nel fortino di quella “vera”, “l’originale”, nemmeno quando ci siamo ritrovate dopo 26 anni e pur avendo dalla sua la forza dell’avermi generata e amata ancor prima che io nascessi. 

Le mie due madri mi hanno dunque insegnato cosa significa “amore incondizionato”, che è un amore non tanto senzacondizioni quanto un amore nonostante le condizioni e che non va inteso come amore autodistruttivo e nullificante. Evito come se fosse peste il soffermarmi a pensare a quali squarci interiori entrambe abbiano vissuto nella consapevolezza ineludibile che nessuna delle due avrebbe potuto detenere alcun primato, diritto di prelazione, posizione di vantaggio: erano parte, congiuntamente e disgiuntamente, di ciò che per me è il senso della parola madre; probabilmente hanno passato la vita col vago senso di essere l’una sotto lo scacco dell’altra. La specifica, relativa e situata materialità della mia condizione fa sì che, in qualità di figlia, la frase “di madre ce n’è una sola” sia ciò che Arendt chiamava “affermazione priva di senso”. Per molto tempo ho invidiato chi, per pura casualità e quindi senza colpa, poteva vivere tranquilla riconoscendosi in quella massima senza rendersi conto degli aspetti di comodità legati ad avere una e una sola madre, anche nel peggiore dei rapporti madre-figlia. Tornando all’aspetto economico, quando penso alla condizione adottiva, a ciò che ha costretto mia madre Angela ad accettare il percorso di adottabilità, a ciò che ha consentito a mia madre Raffaella di accedere al percorso adottivo, mi rendo conto che la condizione umana eccede tutti i parametri con cui cerchiamo di gestirla o dirla, e il denaro non fa eccezione. I soldi sono tracce di un vissuto e, come ho cercato di dire all’inizio, fungono da rimando, alludono, evocano ma sono muti davanti al peso specifico dell’umanità. 

Fra le parvenze più insidiose di questo tempo c’è quella secondo cui i soldi abbiano il potere di definire il nostro valore, molto più che in passato, e quell’eccedenza della condizione umana è sotto attacco simbolico: da strumenti – non necessari – che possono facilitare sono stati resi quasi un soggetto capace di tramutare la persona in strumento, convincendola che essere-in-funzione del denaro non solo sia cosa giusta e accettabile ma sia persino fonte di soddisfazione e autorealizzazione.

Provo sincero terrore davanti a un capitalismo feroce che sempre più chiede a ciascuna e ciascuno di noi di pensarci adottando proprio il denaro come parametro e di ridurci sempre di più a qualcosa che può essere venduta e comprata; l’edonismo individualista automercificante che ci vorrebbe ridotte a monodimensionalità diventa però una strategia priva di potere nel momento in cui riconosciamo autenticamente la condizione umana, per farlo però dobbiamo accettare il rischio di ribellarci e dobbiamo trovare il coraggio di stringere patti e alleanze che costeggiano, stanno altrove, rispetto a ciò che ci viene impacchettato e consegnato come l’unica strada percorribile. Il coraggio di Angela e Raffaella che dal 1986 sono le mie due madri. 

  1. Uso questo termine perché il portoghese brasiliano ha una sua autonomia e desidero sottolinearla. ↩︎
  2. Una condizione di vantaggio apparente, un privilegio di superficie che si dissolve quando si pensa al senso di manchevolezza che deve aver provato nella relazione con un corpo che fino a quel momento non aveva potuto generare. Come donna ha preso questo senso indotto di manchevolezza e lo ha messo a frutto accettando quel rischio di farsi madre senza il tramite del corpo e accettando di condividere quella maternità con un’altra donna, senza illusioni e pretese o ricorrendo a escamotage che cancellassero l’esistenza dell’altra madre dalla quale dipendeva la mia esistenza.  ↩︎

Tendo spesso a non parlare di soldi. È una tematica che mi mette a disagio. Infatti è stato molto difficile per me presenziare al dibattito che ha avuto luogo domenica 1° dicembre in vista della redazione aperta di Via Dogana 3. Impensabile è stata l’idea di fare un intervento a voce alta davanti a tutte le persone presenti. Eppure domenica ho avuto un’opportunità, quella di confrontarmi con il mio limite e di indagarlo. Per quale motivo non riesco ad aprirmi e discutere a cuore aperto su questo argomento?

Io mi sento privilegiata. Sono cresciuta a Milano e i miei genitori non mi hanno mai fatto mancare nulla. Da tempo avevo l’idea di fare l’università in una città diversa da quella in cui sono nata. Proprio per questo, intorno ai quindici anni ho iniziato a lavorare e a mettere da parte i soldi che mi venivano dati (quelli delle paghette mensili e dei regali di Natale). 

Vorrei poter dire che, grazie a quei soldi, oggi posso permettermi di pagare l’affitto della casa in cui vivo a Verona, ma non è così. Mia nonna mi ha aiutata, dandomi un gruzzolo del quale tutt’oggi mi servo per poter pagare l’affitto. Mi è sempre pesato chiedere soldi, sia ai miei genitori che alla mia famiglia. Il mio desiderio di studiare lontano da casa non poteva gravare sui miei genitori. Al punto che a giugno 2023 facemmo un accordo: loro avrebbero pagato l’università, io la casa. Ora come ora vivo nel terrore che quei soldi finiscano, come se quelli fossero la misura della mia libertà (non assoluta, ma quella di studiare ciò che più amo nel luogo che sento più affine, dal momento in cui studio filosofia all’Università di Verona). Mi chiedo: cosa sarebbe della mia vita e dei miei desideri se non avessi i soldi come strumento per realizzarli? 

Ricordo che al liceo la professoressa di italiano chiese a noi studenti di scrivere un tema sulla felicità. Molti tra i miei compagni di classe scrissero che la felicità era direttamente proporzionale alla quantità di soldi posseduta. Più denaro si possiede, più è facile vivere delle cose che si amano. Nell’ascoltare la lettura di quei testi ricordo che mi arrabbiai. La stessa cosa accadde in quinta liceo ed in particolare davanti alla scelta dell’università. Quale percorso di studi permette di trovare un lavoro ben retribuito? Anche su Instagram emerge spesso questa questione. A ragazze che divulgano filosofia sui social viene posta di continuo questa domanda: scegliendo una facoltà umanistica non si rischia poi di finire senza lavoro? Come comunicare ai genitori che si desidera intraprendere un corso di laurea in lettere antiche o in beni culturali quando è evidente che un professore di greco non è pagato quanto un avvocato? A causa dei soldi, molti giovani rinunciano all’amore che guida le loro scelte in nome di una stabilità economica. Come biasimarli, dal momento in cui il costo della vita si alza e gli stipendi rimangono gli stessi di anni fa. Il futuro è sempre più precario e di ciò gode il sistema turbocapitalista dentro il quale siamo immersi. La difficoltà di basare la vita sul proprio desiderio porta alla necessità di ottenere godimento nell’hic et nunc. Questo è un problema del nostro tempo.

Io mi sento molto disorientata, l’angoscia mi assale ogni qualvolta io faccia una transazione o un bonifico. Nell’ultimo periodo mi sono persino sentita in colpa per aver speso soldi in visite ed esami medici, pur sapendo razionalmente quanto sia importante curarsi della propria salute. 

Quando si tratta di denaro penso, di tanto in tanto, a una frase che ho sentito pronunciare a mio padre: “spendiamo più di quanto potremmo realmente permetterci”. 

Ma allora è davvero possibile fare in modo che siano l’amore e il desiderio a governare la nostra vita? Come ribellarsi alle logiche del capitalismo? Si può sottrarre ai soldi il potere che esercitano? 

Io credo di sì. Forse quello che afferma mio papà ha in sé il principio della ribellione oppure ciò che avviene alla Libreria delle donne di Milano e a cui io guardo con profonda ammirazione. Ovvero il sapersi aiutare reciprocamente, esserci per le altre e gli altri gratuitamente senza mai allontanarsi dal proprio desiderio che è comune nella misura in cui è politico e individuale perché riguarda ognuna nella sua intimità. 

Carla Lonzi ha definito un capolavoro una serata ben riuscita. In Libreria, al Circolo della Rosa l’invenzione del gruppo di cucina relazionale Estia ha riattivato l’arte della manutenzione tenendo insieme parola e nutrimento senza soluzione di continuità. Animate dalla passione politica, le neopreziose sono state e sono artefici di tessuti relazionali, artiste della relazione. Un lavoro invisibile perché precede l’esposizione pubblica, la messa in tavola dei piatti che velocemente si svuoteranno ma richiedono molto pensiero creativo, ricerca, studio e lavoro manuale. E soprattutto ascolto delle esigenze dell’altra/o che non sono uguali, quindi a ciascuna/o secondo i suoi bisogni. 

Nel tempo ci sono stati spesso momenti di tensione tra il desiderio di alcune di parola come forma di espressività e il desiderio di altre di un fare, che senza contrapporsi hanno poi trovato sbocco in proposte creative come per esempio il ciclo di incontri Cibo dell’anima cibo del corpo, ideato da Luisa Muraro, Ida Farè, Sandra Bonfiglioli, Rossella Bertolazzi, Stefania Giannotti e Clelia Pallotta. In questo gioco di desideri differenti in cui uno nutriva l’altro e viceversa, la gioia del buon cibo generava pensiero di qualità e le relazioni in presenza si arricchivano. L’arte della conversazione ha preso forma e corpo in un continuum tra vita, lavoro e politica come un fiume che scorre: il Fiume dell’Inclinazione della Carte de Tendre.

La Preziosità ha portato la “civiltà della conversazione”1, che fu una rivoluzione linguistica in una Francia afflitta dalle guerre con una divisione rigida fra i sessi. Le Preziose spezzarono la barriera tra i ruoli sessuali trasformando le loro dimore, gli hôtels particuliers, le loro camere da letto, les ruelles, in luoghi di parola che si ampliarono in salotti aperti agli uomini. 

Romanzi come La Princesse de Clèves di Madame de Lafayette o Clélie, histoire romaine di Madeleine de Scudéry rappresentano una raffinata operazione linguistica e letteraria volta non solo a demilitarizzare la lingua attraverso una sapiente analisi dei sentimenti e dell’interiorità conflittuale dei personaggi, ma a orientare e guidare una società verso un cambiamento.

La Carte de Tendre è una mappa che disegna un intreccio fra la lingua materna e un paese immaginario, visione di un abitare nel mondo il cui fondamento sono le relazioni fra i sessi, dove gli uomini sono disponibili all’ascolto di parole preziose e prendono le distanze dalle parole armate e il territorio si fa espressione dei sentimenti, non oggetto di conquista e dominio. Una mappa del cuore di cui l’autrice si serve per mostrare come l’autorità di una preziosa regolava il ritmo della conversazione, dava la misura.

Le preziose di oggi incarnano questa modalità del piacere e della libera espressione di sé dando vita a una politica che non si sostituisce alle forme di vita.

  1. Benedetta Craveri, La civiltà della conversazione, Adelphi 2001  ↩︎

Prof, perché ci parli di artiste che nel libro di storia dell’arte non ci sono?

– Perché il libro è sbagliato.

– Ci sono libri sbagliati?

– No, lo sbaglio l’ho fatto io che ho scelto per voi questo libro.

– Come mai?

– L’ho scelto perché è fatto da due studiose, due donne.

– È questo lo sbaglio?

– No. Ma dovevo controllare che non fossero orbe.

– Orbe?

– Che non avessero la vista difettosa; il problema si pone con chi ha la vista difettosa ma non lo sa.

– Come le autrici del nostro libro di storia dell’arte?

– Sì.

– È per questo che non vedono le opere di Artemisia Gentileschi, di Sofonisba Anguissola, di Rosalba Carriera?

– Sì.

– Qual è la causa di questo difetto?

– È la mancanza di orientamento. Come ti ho insegnato, la comprensione di un’immagine è il risultato di una interazione tra chi guarda e l’immagine stessa, esattamente come capita tra due persone che fanno conoscenza. Si tratta di un processo dinamico che richiede uno spostamento, un andare verso: per questo “andare verso”, è necessario ricercare e definire il luogo da cui muovere, altrimenti è un andare a caso, che è una forma di cecità peggiore della cecità fisica.

– Cercare questo luogo è come cercare il punto di vista?

– Sì. dal punto di vista in cui si sono messe le autrici del nostro libro di storia dell’arte si vedono solo artisti uomini, non si vedono donne.

– È strano, anche loro sono donne.

– Non è tanto strano, perché le donne, più degli uomini, sono messe in difficoltà dalla nostra cultura che nega la madre come primo punto di vista sul mondo.

– La mamma è un punto di vista?

– Rudolf Arnheim nei suoi Pensieri sull’educazione artistica (Aesthetica, Palermo 1992) spiega che la nostra conoscenza si basa molto sul guardare e che procede per gradi, a partire dagli oggetti più familiari, come il cane di casa. Ma l’oggetto primo che ogni bambina e bambino imparano a riconoscere non è il cane di casa, è la madre. La ri-conoscenza della madre permette alla bambina come al bambino di spostare lo sguardo sugli oggetti che la madre le indica e le nomina.

– La mamma, insomma, è una maestra di punto di vista, come te, prof, quando siamo andati al Museo.

– Sì, quello che io ho fatto per farvi conoscere i quadri, ogni madre fa con i suoi figli piccoli per far loro conoscere il mondo in cu li ha messi.

– Come si fa a negare questa cosa?

– In tanti modi. Rudolf Arnheim, per esempio, dice che i neonati si guardano intorno per conoscere l’ambiente ed evitarne i pericoli, e non considera la loro relazione con la madre che li rassicura e li invita a guardare il mondo. Io penso che l’orientamento, cioè la possibilità di vedere, sia il risultato di due sguardi, in successione, un primo sguardo verso la madre e un secondo sguardo verso il mondo. per cui, alla base della conoscenza, non c’è, come dice Arnheim, un’esigenza di difesa dall’ambiente, ma uno schema di amore-relazione, che può diventare, se ne prendiamo coscienza, paradigma di conoscenza, di orientamento personale e di modo di stare al mondo.

– Ma finora come abbiamo fatto per conoscere il mondo?

– Abbiamo fatto con l’insostituibile aiuto del punto di vista materno. Ma senza averne coscienza, per cui la donna, senza rapporto consapevole con il punto di vista materno, ha perso il posto da cui guardare, in maniera sua originale, il mondo. E ha perso, insieme, il senso autonomo di sé, rimanendo esposta allo sguardo altrui. Il nostro libro di storia dell’arte è pieno di donne rappresentate da artisti uomini.

– E l’uomo?

– L’uomo ha sostituito il punto di vista materno con il suo modo scientifico di guardare il mondo. Tu conosci la storia della prospettiva. Nel Rinascimento nasce la prospettiva che rappresenta il mondo visto da un solo occhio. C’è una famosa incisione di Dürer del 1525 (te la farò vedere) che rappresenta un uomo che disegna un vaso in prospettiva, guardandolo attraverso un buco a cui appone il suo occhio e dal quel buco, da quell’occhio fisso, eterno, universale, vede e fa vedere la realtà che diventa essa stessa fissa, eterna, universale. Infatti, nella costruzione prospettica la distanza si annulla perché il punto di vista coincide con il punto di vista più lontano posto sulla linea dell’orizzonte, il punto in cui convergono le linee parallele, cioè l’infinito.

– Io ho capito che gli uomini, al posto del punto di vista materno, hanno messo l’infinito. Hanno sbagliato?

– L’unico sbaglio, da cui siamo partite, l’ho fatto io scegliendo un libro che non corrisponde al mio insegnamento. Io voglio insegnarti a leggere il modo in cui le donne e gli uomini leggono il mondo. L’uomo, con la sua costruzione prospettica, tiene l’occhio fisso sull’infinito, e allontana così, dal suo campo visivo, ogni essere umano in carne e ossa, a cominciare da se stesso, perché ne ha allontanato, per cominciare, la madre, oggetto primario della percezione. Al suo posto ha messo un cane (psicologia) e il buco della serratura (scienza della prospettiva). Si crea così la situazione descritta anche da Arnheim, per cui un essere umano può vedere le cose, “ma non riconoscerle”.

– Allora c’è qualcosa di sbagliato!

– Non so. Certo, adesso sta tornando la guerra e gli uomini si dividono tra quelli che in guerra ci vanno e quelli che della guerra parlano guardandola dal buco della serratura con un occhio solo. ma in realtà abbiamo due occhi, abbiamo un corpo, abbiamo una madre, siamo due sessi. Forse, come dici tu, c’è qualcosa di sbagliato nella prospettiva maschile. 

(Via Dogana n. 12, settembre/ottobre 1993)

«Come oggi le pratiche artistiche possono arricchire il vivere insieme?» chiedeva l’invito all’incontro di Via Dogana Tre del 6 ottobre scorso, L’arte della relazione. Una domanda molto importante che mi ha fatto subito pensare alle tante attività della Città Felice, un’aggregazione di donne e qualche uomo che ha sempre cercato di arricchire il vivere insieme legando arte e città con le pratiche femministe. Racconto un’iniziativa recente con la quale abbiamo voluto mettere al centro la nostra storia, politica e artistica, nella città.

Nelle mani, donne, uomini, ragazze e ragazzi tengono una mappa delle strade di Catania in cui in giallo sono evidenziati i nomi dei luoghi del femminismo catanese: quelli storicamente attivi e operativi, quelli che hanno operato sino a non troppo tempo fa e quelli degli anni ’70… tantissimo tempo fa!

La “Passeggiata femminista” organizzata dalla Città Felice di Catania si svolge in maniera allegra, discorsiva e istruttiva. Il percorso è tortuoso e tocca alcune zone della città: soprattutto quelle del centro storico dove erano concentrate, ma lo sono ancora oggi, le sedi di gruppi, reti e collettivi femministi. Quando chi guida il corteo si sofferma davanti ai luoghi femministi storici che si sono trasferiti altrove o che hanno cambiato nome oltre che sede, come ad esempio il SE-NO de “Le Lune”, e racconta la storia di quel luogo spiegando la politica che vi si svolgeva negli anni ’80, gli attuali abitanti di quel luogo che era il più fervente spazio separatista di Catania, si uniscono interessati al gruppo in ascolto, ignari dell’importanza politica che quel posto underground, ora adibito a localino alla moda, avesse ricoperto sino a circa trent’anni fa. In ogni luogo femminista dove ci si sofferma, che sia appena nato, che sia in vita da sempre o che faccia parte integrante della memoria femminista della città, c’è sempre una donna di quel contesto che narra delle attività svolte o da svolgere in quello spazio, del pensiero politico e della pratica che connotano o hanno connotato quelle mura preziose intrise di senso. Quando si prosegue nella Passeggiata femminista, sui portoni dei luoghi che sono stati narrati e significati della politica delle donne, rimangono affisse le loro storie scritte in cartoncini colorati arricchiti da frasi di grandi pensatrici e da opere artistiche realizzate da noi di Città Felice, ora a carattere ironico e spiritoso, ora raffiguranti ricordi stilizzati di episodi avvenuti in quel posto, ora evidenziando immagini e foto riguardanti l’importanza delle relazioni tra donne. 

L’idea di proporre alle donne e agli uomini di Catania la Passeggiata femminista e di realizzarla in tutti i suoi momenti, cercando di condurla al nostro presente e di proporla con forme e contenuti più corrispondenti all’oggi, ci è venuta in buona parte dalla storia delle femministe bostoniane che molti anni fa decisero di segnalare in maniera creativa il lavoro politico che svolgevano nella loro Boston, rendendo note le loro storie e le vivaci attività che mettevano in essere, contrassegnando concettualmente con una interminabile striscia gialla tracciata sul selciato i luoghi e le sedi femministe che avevano fondate e che a quel punto erano strettamente legate le une alle altre, potendo ben  asserire che nella città di Boston avevano dato risonanza e visibilità a una straordinaria HER STORY.

Arte, relazioni, creatività, lingua materna, lavoro… sono alcune delle parole che mi hanno interpellata nell’incontro di domenica 6 ottobre.

Durante il dibattito, come questione problematica messa in gioco da Giordana Masotto è venuta fuori la contraddizione che esiste tra trovare uno spazio di creatività nel proprio lavoro e avere una stabilità e una retribuzione adeguata. Sembra quasi che sia necessario scegliere tra l’una o l’altra: o creatività o retribuzione. Come si può provare a negoziare la creatività nel lavoro? Era la domanda che si poneva nella conclusione del suo intervento. Poco dopo è intervenuta Elisabetta Cibelli facendo riferimento alla dimensione incommensurabile della creazione e dell’arte, per poi constatare, appunto, le difficoltà di portarla al mondo del lavoro. 

Allora ho pensato che, in realtà forse, può essere proprio attraverso l’arte della relazione e della mediazione che si possono mettere insieme le due cose, prendendo, volta per volta, quella parte della mia creatività che riesco a far entrare nel mio lavoro, qualsiasi esso sia. Certo, ci vuole quell’arte della cura che ci guida nel discernere come rendere efficace ma anche bella la mossa precisa che mette in dialogo le due dimensioni. Quale pezzo della mia creatività può andare bene in quel pezzo del mio lavoro? con quale modalità far incontrare i due mondi? Venendo poi fuori un’opera diversa, nuova, ma forse ugualmente bella. La cura o l’arte delle relazioni, in questo caso, mi permette di scegliere l’aspetto che vorrei accentuare e, che forse proprio quel tipo di lavoro, con quel gruppo di persone e in quel preciso momento, mi permette di veicolare senza rinunce o laceranti alternative. 

Se parlo del mio lavoro vi posso dire che, per esempio, l’arte della giustizia di Simone Weil, l’incommensurabile purezza del suo pensiero mi porta sempre più spesso a parlare di lei al lavoro, insegnando alle studentesse e agli studenti delle mie facoltà di scienze politiche e di giurisprudenza, frammenti della sua opera. Mi sono autorizzata a saltare la barriera simbolica del diritto (Clara Jourdan): la barriera di un programma universitario basato sull’ordine normativo del lavoro. Ho voluto tracciare un percorso di genealogia femminile nel diritto che, facendo dialogare i due mondi, mettesse sempre più da parte quello normativo. Sono stata facilitata dalla critica ai diritti di Simone Weil e dal libro, a lei ispirato, Non credere di avere diritti. Trovare con grazia ed efficacia il pezzo dell’incommensurabilità da portare al lavoro è stato un mio momento creativo. 

La scommessa più recente è far diventare la scrittura giuridica una scrittura creativa. Per farlo ho voluto cogliere quell’attimo – personale, materiale, relazionale e temporale – in cui posso dirlo con la lingua materna, spostando il linguaggio specialistico o mettendolo da parte, per collocare al centro la lingua materna di Simone Weil e creare insieme a lei la strada di un altro ordine, l’ordine del bene e dell’essere umano. La creazione sta nello spostamento verso «la contemplazione delle opere d’arte autentiche, e ancor di più quella della bellezza del mondo, e ancor più quella del bene sconosciuto al quale aspiriamo, per sostenerci nello sforzo di pensare continuamente all’ordine umano che deve essere il nostro primo oggetto» (Simone Weil, La prima radice, SE, Milano, 1990, p. 20).

Suscita gioia poter constatare di persona che un filo rosso lega le scoperte nel campo dell’arte degli anni ’70 e le pratiche artistiche di oggi. È ciò che ho provato quando Donatella Franchi e Giorgia Basch hanno introdotto questo numero di Via Dogana 3, L’arte della relazione, in un dialogo a due voci che ho sentito in forte sintonia. Dentro di me hanno trovato un’eco profonda le parole di Donatella quando ha affermato che tutti e tutte hanno un io creativo che devono poter esprimere per stare in un modo sensato nel mondo. Se da un lato le sue parole mi rimandavano a Carla Lonzi, che pensava che non è immaginabile che si accetti una parte dell’umanità tagliata fuori dal fatto creativo, dall’altro lato toccavano un punto centrale nella mia vita: l’esprimersi come atto creativo, come modo di partecipare alla vita comune.

Per parte mia “l’esprimersi” è stato ed è principalmente legato alla scrittura. Devo tuttavia precisare che, da dilettante, mi piace lavorare con le mani e passo del tempo a creare manufatti di vario tipo, come sanno le molte che hanno in casa le mie tovagliette o usano i segnalibri con il nuovo logo della Libreria delle donne di Milano, ricevuti comprando un libro.

La passione per lo scrivere mi accompagna da tutta la vita e sento che le ore passate a cercare le parole sono ore “belle” anche quando sono un tormento… voglio dire con questo che c’è una soddisfazione e un piacere legati all’atto stesso di farlo. Che appaga. Scrivere apparentemente sembra un atto individuale (una lei da sola davanti a un foglio bianco o a un computer) in realtà è profondamente relazionale. Ho sempre cercato una scrittura in cui io fossi compresa, ma che non fosse solo mia. La desidero non solo mia, nel doppio significato di nascere da una interlocuzione e di dare voce a qualcosa in cui altre e altri possano riconoscersi. 

Molte donne della mia generazione – e anche io mi metto tra queste – hanno cercato di riversare nel proprio contesto le scoperte che facevano a partire da sé, ma che erano frutto di tutto il dibattito politico e teorico di quegli anni. Io, allora, mi trovavo a lavorare nella scuola e da insegnante ho pensato che quello che valeva per me, cioè bisogno di esprimersi e scrittura relazionale, potesse valere anche per alunni e alunne. In questo mi sentivo pienamente sostenuta dalle riflessioni di Annamaria Ortese. Per lei l’esprimersi con la scrittura era alla pari con il sopravvivere e in Corpo celeste(1997) afferma che ogni adolescenza ha bisogno di «dare una forma propria, quindi nuova, a ciò che sente» entrando nel mondo. L’Ortese non salva la cultura e le opere letterarie in sé. Infatti dice: «Godere e consumare il bene “prodotto da altri” – l’espressività altrui – sembra buona sorte a chi ha denaro. Non lo è. Necessario non è comprare e godere, ma fare e pensare in proprio. Al ragazzo delle moltitudini come al ragazzo delle minoranze popolari». (p. 93)

Da questo insieme di esperienze personali e pratiche e riflessioni e scambi e ancora pratiche, è nata un’ipotesi di insegnamento della lingua, come ho raccontato in Un’altra possibilità alla vita. La ritengo tuttora capace di operare trasformazioni, perché può orientare ragazze e ragazzi verso bisogni profondi che, per loro natura, sono più veri di quelli di superficie, spesso indotti. Quel testo fa parte di una articolata riflessione sulla lingua e il suo insegnamento, portata avanti nel movimento di autoriforma della scuola sfociata in un convegno e poi in un libro collettivo, Lingua bene comune (2006).

Una concezione dell’arte che abbraccia la vita, offre molti spunti altri di riflessione. Se, infatti, lo scopo dell’arte è «arricchire il vivere insieme» e se creare contesti di relazioni diventa «un atto creativo», questa posizione diventa preziosa per chi porta avanti la politica delle donne. Lonzi ha dilatato l’ambito artistico fino a comprendere anche una «frase trovata», «una serata riuscita» e penso che soffermarsi su questa apertura e metterla in rapporto con la politica delle relazioni, che sostanzialmente è fatta di incontri e di “serate”, possa aprire a spostamenti importanti. 

Considerare una serata un’opera d’arte ci sposta immediatamente dal terreno del potere o della visibilità o della ripetizione: è quasi un antidoto quando le pratiche tendono a contaminarsi con logiche di potere o a essere ripetitive, rischiando di diventare burocratiche. 

Mi è tornato in mente il libro di Wanda Tommasi Ciò che non dipende da me (2016), in cui l’autrice riflette sulla indimenticabile signora Ramsay, protagonista del romanzo di Virginia Woolf Al faro. La considera un punto di equilibrio perché è una figura che tiene insieme un intenso coinvolgimento relazionale e una forte centratura su di sé. Ai due estremi contrapposti sono le protagoniste di altri due romanzi: quella anonima de La Parete di Marlen Haushofer, che rappresenta la totale solitudine e chiusura in sé; e la Monique di Una donna spezzata di Simone de Beauvoir, che rappresenta il dispendio totale di sé nel ruolo di moglie e di madre. 

La signora Ramsay è un personaggio ispirato alla madre di Virginia Woolf e il romanzo è una sorta di omaggio alla sua figura. Quello che qui interessa mettere in luce è che possiede l’arte di tenere insieme in una serata persone molto differenti, di far fluire la conversazione, di offrire cibi ben cucinati. Come padrona di casa, la signora Ramsay conosce l’arte per far sì che una serata sia ben riuscita e ci si può ispirare a lei per riprendere qualcosa da una tradizionale grandezza femminile. 

Tuttavia per la coscienza di oggi questo non basta: perché una serata sia ben riuscita sentiamo l’esigenza di qualcosa di più, avvertiamo il bisogno dell’accendersi di un pensiero che susciti rimandi che fanno luce dentro di sé. Possiamo chiamarla l’arte del “pensare in presenza” per dirlo con le parole di Chiara Zamboni. 

Negli Scritti di Londra (1957) Simone Weil ci dice che il pensiero si nutre di gioia e che lei stessa sente come una asfissia il suo venir meno, che fa spegnere l’intelligenza. La gioia non coincide con i piaceri, i divertimenti oppure con la soddisfazione delle vanità e ci avverte che «non si dà la gioia dal di fuori ad un essere umano o a una collettività, bisogna che nasca dall’interno». Ma poi aggiunge: «tuttavia ci sono delle condizioni che la rendono o non la rendono possibile» (pag. 168). 

Ecco, nell’agire politico ispirarsi alle pratiche artistiche e fare della relazione un’arte apre a una ricerca consapevole per esplorare quali sono le condizioni che rendono possibile la gioia.

Sono contenta di potervi vedere anche se con zoom vi vedo dentro a dei quadrettini. 

Grazie per questo incontro sulle relazioni. È un tema che mi entusiasma sempre. 

Volevo dare il mio contributo per dirvi che ho conosciuto Donatella Franchi nel 2001 quando è venuta ad inaugurare e a presentare la mostra di ICONE – Spiritualità femminile e Immagini di Dio, allestita nell’Oratorio di Villa Simion a Spinea (Venezia). Vicino alla Biblioteca Comunale. 

Il fatto che tutte le icone fossero state create da donne aveva fatto sorgere anche un po’ di scandalo, perché qualche uomo amante di tale modo di esprimersi affermava che era questa un’arte di spiritualità solo maschile. 

Donatella, artista e ricercatrice, ci ha detto che la sua attenzione e il suo lavoro avevano, come centro di interesse, i percorsi della creatività femminile nell’arte e nelle relazioni.

Nel dialogo che immediatamente è sorto tra noi e alle sue domande sull’arte io ho confessato che non ero proprio un’artista, non mi intendevo di quadri e tantomeno di icone, l’unica cosa che mi veniva spontanea di dire, quando andavo a vedere qualche mostra e guardavo alcuni quadri, era: mi piace o non mi piace, questo qua è bello oppure non mi interessa. Insomma, non sapevo dare un mio giudizio, non mi azzardavo a criticare l’autrice o l’autore.

«Guarda che tu sei un’artista delle relazioni». E in seguito: «Tu sai stare insieme a tutte e a tutti e fai in modo che tutte e tutti stiano in dialogo e in comunicazione tra di loro. Il lavoro che fai è arte». 

In quel momento Donatella ha rivelato me a me stessa, perché ho sentito che era vero che il mio fare-comunicare rispondente al mio desiderio d’amore, la mia passione per metterlo al mondo insieme alle mie simili e con gli uomini di buona volontà, mi richiedeva riflessione, conoscenza, impegno, fatica, ricerca, tempo, pazienza, attenzione per me, per tutte/i le donne e gli uomini che incontravo, e anche per la natura e per ogni vivente. 

Così credo di aver capito, mi è stato chiaro che ogni essere umano ha una o più parti di sé, che se si riconosce o viene riconosciuta e desidera esprimere e comunicare al mondo, quando la realizza compie un’opera artistica.  

Da tantissimi anni, con Identità e Differenza – Associazione Culturale Politica e Apartitica di Spinea, mi occupo, ci occupiamo di ricerca culturale e politica e della promozione di pratiche di dialogo e di scambio nel pieno e reciproco riconoscimento di ogni differenza e diversità. Abbiamo sempre operato per dare valore, significato e visibilità alla differenza dell’essere donna e dell’essere uomo. 

All’interno di questa attività, si articola un lungo percorso di ricerca sull’elaborazione creativa e simbolica che le donne compiono per stare al mondo in fedeltà a sé e in relazione con le altre donne e con gli uomini. 

Il nostro stile di ricerca avviene attraverso la pratica dello scambio, del mettersi in gioco personalmente, a partire da sé, e dal saper stare in relazione non strumentale e rispettosa con ogni Altra e Altro e con un unico scopo: la pace. 

Forse qualcuna/o di voi ricorda l’installazione Riparare le relazioni. Tessere relazioni è arte, sempre a Villa Simion a Spinea nel 2018, a cura di Donatella, mia, con la collaborazione di Franca Bertagnolli, artista scenografa, e con la partecipazione delle donne e uomini di Identità e Differenza. Un’opera corale molto suggestiva, fatta dei pensieri di 151 persone, stampati e ricamati su tela. 

Donatella ha sempre partecipato agli incontri, alle mostre, alle installazioni a Spinea e ai Convegni Annuali, prima ad Asolo e poi a Torreglia, organizzati dalla nostra associazione. 

Non ci è mai mancata la sua grande cura sia dell’aspetto comunicativo culturale, sia dell’immagine visiva artistica che, ogni volta, ha aperto i nostri scritti, gli atti degli incontri e dei convegni.

Il mio profondo rapporto d’amicizia con Donatella, che dal 2001 collabora con noi, è un esempio della creatività delle relazioni e di come tessere relazioni sia arte della vita.

A proposito dell’arte e l’arte della relazione. Sono passati quarantasei anni dalla pubblicazione del libro Ci vediamo il mercoledì gli altri giorni ci immaginiamo (Mazzotta ed., Milano 1978), che raccoglie i lavori collettivi del nostro gruppo di artiste e fotografe. Il titolo è l’esatta rappresentazione di cosa è stato quel gruppo, una relazione stretta fra donne che ha prodotto fotografie, filmati e non solo, anche installazioni e viaggi insieme.

Abbiamo vissuto intensamente il nostro operare ignorando il sistema dell’arte, non volendo entrarci, così appagate dal nostro fare in collettivo o anche in solitudine. Molti di questi lavori sono di difficile attribuzione perché siamo intervenute a più mani e a più idee, l’idea di una diventava il filmato o la serie fotografica di un’altra. Dopo quasi cinquant’anni questa pubblicazione è diventata fonte di studio per giovani donne che la presentano nelle loro tesi, donne che si relazionano con noi, che ci intervistano, che ci fanno rivivere nella memoria quella esperienza esistenziale che era arte. Allora le nostre giornate erano scandite da incontri e da un fare che si mischiava fra arte e quotidiano, o gesti quotidiani che diventavano materiale artistico. Il 5 ottobre, il giorno prima della riunione di Via Dogana 3 ci siamo di nuovo ritrovate, io, Diana Bond e Paola Mattioli, in viaggio verso Ravenna per l’inaugurazione della mostra “Fotografia e Femminismi” presso la Fondazione Sabe per l’Arte, Storie e Immagini dalla collezione Donata Pizzi. Mancavano tre di noi: Adriana Monti perché vive in Canada, Silvia Truppi non è più fra noi, Bundi Alberti aveva altri impegni, Esperanza Núñez ha rotto con il gruppo. Comunque, ancora una volta insieme a raccontarci e a confermare questo filo rosso dell’arte che è riuscito a ricucire i nostri conflitti passati, confermando la forza che l’arte femminista ha nel tenere insieme le relazioni nonostante il tempo che passa. L’arte è la cura della propria mente che si fa ad ogni costo. È accettata dagli altri come gratuita, a parte gli artisti inseriti nel sistema, questi diventano dei maestri/e, dei santoni, delle divinità, perché la loro non è una vera e propria professione, è qualcosa di talmente idealizzato che si avvolge in un’aurea divina. L’Arte è biforme, libertaria e classista insieme. Per fare arte bisogna essere molto generosi. Pensiamo a Vivian Maier, ha passato un’intera vita dividendosi fra il ruolo di governante e di fotografa, la fotografia probabilmente le permetteva di resistere alla solitudine. Non si può nemmeno pensare di fare le artiste senza andare incontro a dei conflitti o anche a delle invidie, la nostra esperienza del mercoledì è stata veramente unica e irripetibile e capisco che sia diventata un campo di studio per altre giovani donne. 

Riproponiamo una riflessione apparsa nel 2019 sulla rivista Alfabeta2

Dicono: l’arte per l’arte. È giusto? A me pare la formula di una malsana purezza. L’arte non vuole stare da sola. Non vuole stare al servizio di niente e di nessuno, d’accordo; l’utile o l’inutile non la riguarda primariamente, d’accordo, dicono che lei è superiore. Ma, dico io, non vuole esserlo da sola. Insieme, dunque; a che cosa, precisamente? 

A questo tipo di domanda le mie studentesse rispondevano: dipende. Da che cosa? E loro: a seconda. Avevano ragione, insegnavo pedagogia, che è come l’estetica, che non sono fatte per dare le risposte. Quelle che ci sono, se ci sono, si presentano di suo, a te tocca farti trovare sulla strada giusta e riconoscerle. Sono incontri che a volte ti cambiano la vita, chi ha una vocazione lo sa. 

Secondo me all’arte non piace nemmeno stare nei musei, così come alla più parte dei bambini non piace stare chiusi nelle aule della scuola né alle galline di mia mamma piaceva restare dietro la rete di recinzione che le separava dall’orto e dal giardino (quando, in questo scrittarello, dico “secondo me”, non è in vista di una qualche teoria, non aspiro a tanto, lo dico relativamente a un guadagno possibile di intimità con l’opera d’arte). 

Non per parlare di me ma per parlare di quello che so: un’idea del bello si è fatta sensibile in me quella volta che entrai in un grande rustico di una villa palladiana in abbandono, abitato da contadini. E vidi, quando gli occhi si abituarono alla penombra, che i pochi mobili e tutto l’arredo erano perfetti e perfetto era lo spazio che li conteneva. Eravamo prima della plastica e del consumismo. 

Sempre sul filo dall’esperienza vissuta, arrivo alla mostra Vetrine di libertà, aperta in questi mesi alla Fabbrica del vapore, Milano, fino al 6 giugno. 

Come forse sapete, la mostra raccoglie le opere di trenta artiste che, mese dopo mese, hanno arredato una delle vetrine della Libreria delle donne, la quarta. A ogni nuova vetrina c’era un incontro lì sul posto, un comodo locale per conferenze e merende, con lo scopo di commentare la nuova opera insieme all’artista di turno e a Francesca Pasini che l’aveva invitata a esporre. 

Non ho mai mancato a quegli incontri, perché in arte contemporanea sono un’analfabeta e volevo almeno vincere la mia ostilità dovuta all’ignoranza, credo. Com’è andata? Bene, ma in un modo diverso da quello che speravo, che avrebbe dovuto essere una specie di nuova competenza. Non l’ho acquisita ma ho capito delle cose. 

È andata più o meno così. Si arrivava da tante parti all’appuntamento mensile in Libreria, via Pietro Calvi 29. Arrivando io guardavo la nuova opera da fuori, cioè dal marciapiede, poi da dentro, così come si presentava nella stanza delle conferenze e delle merende. C’erano delle differenze tra dentro e fuori, le vedevo ma, a parte questo, non sapevo mai bene che cosa avevo visto né che cosa ci fosse da vedere. La mia esperienza archetipica del bello, fatta nella barchessa palladiana, era troppo distante da quello che vedevo, troppo distante era cioè la mia infanzia uscita indenne dalla guerra e non ancora raggiunta dal boom economico. 

All’appuntamento c’erano anche artisti e artiste; era una situazione simile a quella creata da Carla Lonzi con Autoritratto, dove però tutti parlano dell’arte dall’interno, compresa lei che dell’arte era intima per la familiarità con gli artisti da lei convocati. Tra noi invece c’era una varietà di situazioni, c’erano anche persone ignoranti (come me) o silenziose, ma erano molti quelli che si dedicavano a parlare dell’opera messa a fare da vetrina e lo facevano volentieri. Ogni tanto qualche passante si fermava a guardarla dall’altra parte del vetro, sul marciapiede. Così, pian piano, l’opera diventava anche per me qualcosa che voleva dire qualcosa e di cui si poteva parlare; la guardavo e mi suggeriva dei pensieri, diventava una presenza. I pensieri che mi suggeriva non sempre concordavano con quelli già espressi dai presenti, per la mia impreparazione, sicuramente, ma anche per il bisogno che avevo di provocare risposte. Tant’è che quando li esprimevo a voce alta, c’erano spesso delle risate o delle proteste. È stato molto divertente e, per me, istruttivo. 

Ho capito così che l’arte non può stare da sola. Non sarei arrivata nelle sue vicinanze senza gli altri con i loro discorsi di persone esperte e affezionate. Quando poi ci arrivavo, nelle vicinanze, in qualche caso scoprivo che l’opera stessa era già in compagnia, non di cose a me estranee ma, sorpresa, di cose mie. Faccio l’esempio di un’opera che ho soprannominato “Il ripostiglio del Paradiso”, con riferimento alla terza cantica di Dante. È la cantica più difficile da leggere ma, ancor prima e ben più lo fu da scrivere. Lo avevo pensato leggendola l’estate prima. E nell’opera che ornava la quarta vetrina ho cominciato a vedere quella stanza che si chiama anche sgombero, usata da Dante per riporre pezzi in lavorazione e strumenti del suo lavoro poetico, l’ultimo e il più arduo, dal quale si aspettava in premio di essere richiamato a Firenze. Invano. 

In quella mia esperienza estetica non c’entrava solo Dante, cioè la mia cultura classica, c’entrava anche il mio senso strategico di casalinga che sa quanto sia importante disporre di un ripostiglio. Non era come i nostri normali ripostigli, era sì una stanza un po’ disordinata ma era ingombra di oggetti delicati, finissimi, lucenti, celesti… era un’opera troppo delicata per essere riprodotta nella Mostra delle Vetrine, dove la cerchereste invano, anche per questo ve l’ho raccontata. 

Ho capito un’altra cosa, che riguarda proprio la faccenda del farsi trovare sulla strada giusta. Come si fa? Nella vicenda che ha portato alla mostra Vetrine di libertà, le circostanze suggeriscono una risposta. Si trattava della vetrina di una libreria che si dedica a opere scritte da donne. E donne sono le autrici delle opere confluite ora nella Mostra. Qualcuno può legittimamente pensare che si tratti di una convenzione sensata per rimediare a un ingiusto silenzio verso il lavoro artistico delle donne. 

Non io. Per me la preferenza data alle artiste e alle scrittrici è stata e rimane la risposta a una domanda che mi fu posta anni fa da un uomo che merita di essere chiamato filosofo: Luisa, perché vai con le femministe? La domanda mi portò di slancio fuori dal recinto della filosofia imparata a scuola e mi mise sulla strada giusta. Non parlo contro la scuola, ho passato una vita a insegnare. La grandezza di un pensiero teorico è che aiuta a leggere l’esperienza e dà delle buone risposte; penso però che la sua grandezza si mostri pienamente quando ti estromette da sé mettendoti su una pista buona, come fu quella volta per me. Il pensiero filosofico è neutro universale, io vado con le femministe perché sono una donna. Era il taglio della differenza che ha fatto di me una pensante felice. Non posso dilungarmi ma forse già sapete che la vita del pensiero comincia con un taglio. 

La fecondità del pensiero della differenza sessuale non è esaurita, come si può sperimentare dal vivo entrando nell’edificio che ospita la Mostra con la consapevolezza di recarsi a incontrare una compagnia di donne una più sorprendente dell’altra. 

Francesca Pasini e Chitra Cinzia Piloni hanno curato la Mostra e il Catalogo, pubblicato da Andrea Gessner (Nottetempo). Oltre alle trenta artiste della quarta vetrina, ci sono i nomi e qualche opera delle grandi e generose nove che, introdotte da Lea Vergine, hanno finanziato con le loro opere grafiche la nascente Libreria delle donne, tanti anni fa. Nel mio breve contributo sul Catalogo, m’interrogo sull’effetto di vedere in sincronia (in un unico grande spazio, la Fabbrica del vapore) quello che ho accostato mese dopo mese nello spazio della Libreria. Tutto andrà bene, purché sia salva la Sproporzione, ho scritto, ossia la non corrispondenza tra quello che ti aspetti e quello che trovi. Ne dipende, secondo me, l’esperienza di ogni grandezza e di ogni bellezza. Il senso della sproporzione io l’ho imparato da Cristina Campo, che è la maestra di questo sentimento. E l’ho provato allo stato puro arrivando alla immensa Fabbrica del vapore, che non conoscevo, fino allo spazio che ospita Vetrine di libertà. Una volta entrata, la mia antica esperienza del bello ha cessato di essere nostalgia del prima per diventare trasporto nel qui e ora. 

(Alfabeta2, 28 aprile 2019) 

Nelle indagini femministe sulle donne che hanno pensato il femmineo c’è un nome che spesso non trova posto: quello di Lou von Salomé. Forse perché non arruolabile né tra le file delle riflessioni sulle teorie di genere né tra quelle sulla differenza sessuale, la sua vicenda biografica e letteraria si oppone a ogni tentativo di incasellamento.

Di Lou Salomé poco si sa, o forse troppo. Spesso evocata, richiamata e indicata per lo più per le sue vicende biografiche, poco si conosce della sua (cospicua) produzione letteraria.

Molte delle sue opere non sono neppure tradotte non solo in italiano ma neppure in altre lingue. Se il destino delle sue opere singole è quello di essere trascurate, ben peggiore è quello della sua produzione sparsa in riviste e volumi collettanei. Solo recentemente una casa editrice tedesca, la MedienEdition di Ursula Welsch, ha intrapreso la pubblicazione di tutto il materiale raccogliendolo per tematiche. Questa attività, indispensabile e decisamente utile, corre però il rischio di catalogare i vari articoli in maniera univoca impedendo di fatto eventuali possibili altre combinazioni. Un esempio sono gli scritti su donne: a seconda che si tratti di letterate o filosofe sono stati sistemati in volumi differenti rendendo un po’ difficoltosa un’indagine, appunto, sul femmineo in Salomé. E invece, se andiamo a osservare il semplice elenco cronologico, ci rendiamo conto che Salomé si occupò del femminile sin dai suoi primi scritti. Lo scritto sulle figure femminili nei drammi di Hendrik Ibsen Frauengestalten è del 1892 a cui seguono alcuni articoli e contributi su riviste, dedicati a letterate e pensatrici. La sua prima analisi autonoma sul femmineo la troviamo nel 1899 Der Mensch als Weib. Qui Salomé conserva il tradizionale abbinamento maschile-mente e femminile-corpo ma attraverso le lenti filosofiche che ha ereditato dal suo filosofo preferito, Baruch Spinoza (benché questi non venga esplicitamente citato in questo testo, sappiamo che era da lei conosciuto sin da giovane e che non smette di essere richiamato in momenti importanti della sua riflessione filosofica), riesce a proporre una nuova versione emancipatoria del femmineo stesso, versione emancipatoria che lei stessa, nella sua vicenda biografica, mostra e persegue. A partire dalle a lei recenti scoperte in campo biologico, soprattutto relativamente alle cellule riproduttive, e conservando un impianto spinoziano in cui mente e corpo, cioè maschile e femminile, sono espressione di una medesima sostanza, Salomé riesce a leggere la differenza maschile e femminile senza dover ipotizzare alcuna conflittualità. Anzi, proprio la loro differenza permette una reale collaborazione tra le due espressività. E questa differenza, che emerge particolarmente vivida nelle composizioni corporee, è altrettanto presente nelle forme che la mente assume. Ci sono, per Salomé, differenti assetti biologici e, simultaneamente, differenti maniere di pensare e quelli e queste sono egualmente degni e degne di essere analizzati e analizzate poiché sono tutti e tutte espressioni dell’unica sostanza. Lo scritto ebbe così tanto successo che Martin Buber le scrisse chiedendo di elaborare un testo per la collana che lui dirigeva. Lei gli inviò solo nel 1910 il risultato del suo lavoro dal titolo Die Erotik. Qui la riflessione sul femmineo e le sue differenze con il maschile sono immerse in un’indagine più ampia che abbraccia l’essere vivente e che ha nell’eros la sua espressione più eloquente. L’eros, infatti, è il campo privilegiato per indagare gli effetti corporei e quelli mentali dal momento che esso, cha ha le radici nella sessualità del corpo, si espande fino alla mente. Se l’eros è una pulsione primaria di ogni vivente, esso si manifesta nel maschile e nel femminile in forme differenti che sono corporee e mentali al contempo. Maschile e femmineo, quando è questione di eros, manifestano la propria singolarità il primo espandendosi verso sempre nuove conquiste, il secondo ripiegandosi verso un’unità con l’intero vivente. E se questo avviene al livello del funzionamento del corpo, esso è ugualmente riscontrabile nei procedimenti della mente. Maschi e femmine hanno menti diverse perché hanno corpi diversi. Questa diversità, però, giace su una unità di fondo indissolubile. Quindi non due sostanze, non due nature ma un’unica sostanza, un’unica natura che si esprime in modi diversi. L’Eros permette di cogliere tutto questo. Per Salomé, di cui Martin Buber ebbe a dire del suo lavoro quando lo lesse «è platonico e spinozista», prende da Platone il mito del Simposio e da Spinoza la potenza del conatus. Questa impostazione è ripresa dall’intellettuale fino al 1931 nel suo magistrale Mein Dank an Freud.

La riflessione sull’arte di Salomé si innerva nella sua indagine sul femminismo. Anche in questo caso occorre rilevare un interesse di Salomé per l’arte sin dai suoi primi lavori. Ma è con il suo incontro con Freud che la sua riflessione sulla creazione artistica prende forma e consistenza soprattutto attraverso il concetto di narcisismo che Salomé rielabora alla luce del suo pensiero sul femmineo. Nel suo saggio Narzißmus als Doppelrichtung del 1921 il narcisismo, cioè ciò che sta alla base della creazione artistica e che per Freud è sintomo di un regresso e (possiamo dire) è segnale della presenza di una nevrosi, da Salomé è rivisto e proposto non come una tendenza regressiva, ma come espressione della componente femminea dell’essere umano. Femminea che per Salomé vuol dire corporea nella sua massima espressione che nulla deve alla mente. Salomé conobbe da vicino questa natura. Amata da Rilke di cui contraccambiava l’amore, conosce la potenza della creazione artistica che tende a sciogliere l’artista in una sostanza universale. Come il femmineo così l’artista conserva un legame profondo e corporeo con l’unità universale di tutto. Ed è per questo che, per Salomé, non è l’artista che fa della propria vita un’opera d’arte ma è la vita stessa che fa dell’artista, se lui si concede, un’opera d’arte.

L’uomo ha sempre dipinto. Dalla preistoria fino alla contemporaneità. E la donna?

La pittura è un’arte che si è sempre praticata con varie tecniche, che si sono modificate a seconda del contesto storico e culturale. 

L’importanza della rappresentazione prospettica ribalta la concezione gerarchica di grandezza dei corpi, scelta in base al ruolo sociale, preferendo il rispetto naturalistico – secondo l’occhio umano – delle proporzioni. La prospettiva pone una serie di regole che, insieme all’invenzione di Gutenberg del libro stampato, rivoluzionano anche il modo di pensare dell’uomo. Si scrivono trattati, si iniziano ad usare i chiaroscuri e a studiare l’esposizione della luce, si ricerca una volumetria e allo stesso tempo la realtà inizia a diventare più meccanica, raggiungendo l’apice con la teorizzazione della fisica classica, in un progresso ideale che sembra svilupparsi dal Rinascimento fino all’800, prima della scossa dell’impressionismo. Scossa, non a caso, poiché coincide, l’impressionismo, con la rivoluzione elettromagnetica: la prospettiva e la meccanica si disperdono nell’etere indefinito della forza dei fotoni e dei campi magnetici. Dall’impressionismo in poi, in particolare da Cézanne, la pittura non è più mimesis, imitazione della natura, ma questa viene invece interpretata, fino ad arrivare alla vera e propria arte concettuale. 

I più grandi pittori conosciuti sono tutti uomini. I più grandi trattati di pittura sono scritti dagli uomini. Leonardo da Vinci, Gino Piva, Cennino Cennini, Leon Battista Alberti e le Vite del Vasari sono solo alcuni esempi dei classici della teoria pittorica e della storia della pittura. 

Marta Lonzi in È già politica scrive che la cosiddetta arte femminista è un’illusione, poiché si calano motivi extra-estetici «in un sistema che segue norme artistiche più o meno aggiornate», cioè il linguaggio non è “originale” ma “conosciuto”, non è “autentico” ma “corrente”. È necessario per lei che l’autenticità si dia un proprio linguaggio. 

Conclude dicendo che «l’arte femminista quindi è un problema di femminismo e non di arte». 

È possibile quindi essere autentiche in un linguaggio prettamente maschile, storicamente maschile, poco aggiornato come è la pittura?

Eppure la pittura, come la scrittura, linguaggio scelto da Rivolta Femminile, può essere un linguaggio autentico per alcune donne che l’hanno scelto come mezzo d’espressione d’elezione. 

C’è una storia che parte dalle emancipate e arriva fino alle donne che hanno sperimentato con la pittura in un secolo, il Novecento, che gliel’ha permesso. 

Partiamo dalle cosiddette emancipate. Cosa intendo per emancipate? Quelle donne che sono rimaste effettivamente nella storia dell’arte, quelle che sono diventate grandi artiste. Un esempio tra tutte è Artemisia Gentileschi, altre potrebbero essere Élisabeth Vigée Le Brun e Angelika Kauffmann, due ritrattiste nate nella metà del 1700. 

Seppur si disquisisca molto della pittura delle citate, si nota che esse sono emancipate in quanto ormai pienamente accettate nella storia dell’arte maschile. Si ricerca infatti in queste uno «stile peculiare e riconoscibile, diverso da quello maschile sia a livello formale che espressivo, e in grado di trasmettere il carattere unico della condizione e dell’esperienza delle donne», per dirlo con le parole di Linda Nochlin, ma ci si rende conto che lo stile delle artiste in realtà non evoca niente di “femminile” o “femminista”, ma è perfettamente integrato con quello degli uomini del tempo. Le artiste, cioè, hanno molto più in comune con i colleghi maschi della loro stessa epoca e corrente di pensiero che non tra di loro. 

Questo è perfettamente normale in un mondo a misura maschile, e anzi molto poco normale che in epoche e culture decisamente patriarcali alcune donne ce l’abbiano fatta a spiccare e affermarsi come artiste. Certo non c’è l’equivalente di un Michelangelo o di un Caravaggio (seppur la Gentileschi si avvicini, è pur vero che il Caravaggio è il Caravaggio e non a caso lei è una caravaggesca, e non viceversa), ma se così non fosse non ci sarebbe probabilmente bisogno del femminismo, perché le cose andrebbero bene così come stanno.

E via così fino al Novecento, passando per l’impressionista Berthe Morisot, fino alle futuriste come Barbara e Benedetta Cappa e alla dadaista Sophie Taeuber-Arp.

Si inizia a parlare di arte specificatamente femminista a fine degli anni ’60, quando appunto esplode il femminismo. Le artiste cercano così una nuova storia da raccontare, la propria storia, cercando di influenzare gli atteggiamenti culturali, creare spazi e possibilità nel mondo dell’arte anche per le donne. L’arte femminista è tipicamente ricollegata ai nuovi media o a materiali usati solitamente nell’universo femminile come le stoffe e i ricami, ma la maggior parte delle pratiche artistiche femministe si rifanno alla performance e alla body art. La performance è tutt’ora molto usata per la sua caratteristica di fisicità che permette di comunicare in maniera potente e diretta. Un altro medium molto usato è stato la fotografia, assieme alla videoarte. 

E la pittura? 

C’è un caso esemplare, secondo me, dove la pittura femminile e proto-femminista inizia a distinguersi e a distaccarsi da quella dei colleghi maschi: è il caso delle surrealiste. 

Le pittrici surrealiste hanno esplorato temi affascinanti e complessi attraverso le loro opere d’arte. Nei dipinti di artiste come Frida Kahlo, Leonora Carrington e Remedios Varo si trovano riflessioni profonde sulla psiche umana, il sogno e la realtà, l’identità e la condizione femminile.

Frida Kahlo ha utilizzato il surrealismo per esplorare la sua sofferenza personale e le esperienze di vita, mescolando elementi autobiografici con la mitologia e il simbolismo. Leonora Carrington, d’altra parte, si è immersa nel mondo dell’inconscio, creando opere oniriche che sfidano la logica e celebrano la libertà dell’immaginazione. Remedios Varo ha intrecciato scienza e magia, esplorando il potere della creatività e dell’auto-trascendenza. Il legame con la stregoneria è molto profondo, spesso rappresentante il proprio alter-ego, così come la figura del gatto e altri animali, inseriti in un discorso che possiamo definire proto-antispecista ed ecofemminista, evidente nelle opere di Varo ma anche di Leonor Fini e Lise Deharme. 

Questi temi non sono solo meraviglie estetiche, ma spingono anche i limiti della percezione e invitano a una riflessione più profonda sulla nostra esistenza. 

Spesso usano l’autoritratto, a differenza dei surrealisti che ri-costruiscono la figura femminile in maniere stereotipate e influenzate dalle teorie freudiane, nelle immagini si autorappresentano e si moltiplicano – non solo pittoricamente, spesso anche nei numerosi scritti autobiografici.  

Il corpo è l’elemento centrale della poetica delle surrealiste, in cui le figure femminili sembrano consapevoli in mezzo alle creature magiche e personaggi leggendari. Scivolano tra fecondità e sterilità, caos ed isolamento, interiorità ed esteriorità. C’è un’implosione della riflessione. Non c’è uno smembramento del corpo come nelle opere dei surrealisti, ma l’integrità di esso rappresenta anche l’integrità delle artiste. La differenza sostanziale, per dirla con le parole di Katharine Conley, è l’immagine maschile della “donna automatica” e l’immagine femminile della “donna autonoma”

La differenza è anche formale: i surrealisti si rifanno alla pittura rinascimentale. Questa, tramite le parole di numerosi studiosi come il Leon Battista Alberti, insieme al nuovo umanesimo riscoperto, pone la donna in una condizione di inferiorità ben diversa da quella del Medioevo. Inizia nel Rinascimento, riprendendo la classicità, la patrilinearità giustificata dalla teoria per il quale la donna è solo un utero, un contenitore, mentre è il padre che dà l’anima e di conseguenza il cognome ai propri figli e alle proprie figlie. 

Non è un caso secondo me che le surrealiste si rifacciano invece a uno stile pre-rinascimentale, quasi gotico, riecheggiando non solo tempi di streghe, ma ponendosi in opposizione a una classicità maschilista e patriarcale.

Ma veniamo al giorno d’oggi: ho scelto tre artiste che, benché utilizzino un mezzo tradizionale come la pittura, hanno uno sguardo a mio parere femminile sul mondo, hanno cioè attuato un tabula rasa della concezione maschile della cultura. 

Prudence Flint è una pittrice di Melbourne. Ritrae solo donne, spesso in interni di case, luoghi soffusi. Non c’è una narrazione specifica ma sono pieni di uno sguardo interiore sulla propria femminilità, non intesa come genere ma come specifica condizione dell’essere donna. Le figure sono spesso solitarie, anche se in coppia sembrano assorte nei propri pensieri, circondate da oggetti di uso quotidiano che fungono da metafore per il mondo interiore. Sembra voler ribaltare il tipico stilema della rappresentazione delle donne nella storia dell’arte, seppur tecnicamente ricordi le imponenti figure del ritorno all’ordine degli anni ’20 del ’900. 

Emma Talbot è un’artista inglese. Spesso dipinge su seta, usando un materiale che richiama le vesti femminili, la pittrice si rifà alla teoria dell’écriture féminine degli anni ’70 della francese Hélène Cixous. Segnati dall’influenza del pensiero post-antropocentrico e postumano, i dipinti su larga scala di Talbot incorporano figurazioni semplificate, motivi mitologici, modelli ritmici, colori vivaci e testi calligrafici per esprimere aspetti delle esperienze personali e interiori dell’autrice, mentre si estendono ad argomenti che vanno dalla tecnologia, natura, urbanistica ed ecopolitica alla pandemia e all’invecchiamento. Le scritte che spesso inserisce nei suoi dipinti cercano una relazione con lo spettatore o la spettatrice invitandola a riflettere sul significato delle sue opere. 

L’ultima artista che chiamo in causa è la giovanissima Laetitia Ky, più famosa per le fotografie dove ritrae le sue acconciature, essendo ivoriana i capelli afro hanno una forte connotazione simbolica, ma anche pittrice. Non nasconde il suo essere femminista e con la sua pittura naïf esprime forti messaggi che riguardano il corpo delle donne, come le mestruazioni, i peli, l’anzianità e la sessualità. Non usa filtri nei suoi dipinti ed elementi come sangue, sesso e parti del corpo sono sempre molto espliciti.

Oggi la nuova ondata pop di femminismo è un’arma a doppio taglio: può essere la commercializzazione e la liberalizzazione delle istanze femministe, ma può aiutarci a scoprire anche modi di vivere – e di dipingere – femminili e femministi. 

Mili Romano, Servabo, 2011 (foto Marco Mensa), con Mona Lisa Tina e i gruppi di aggregazione giovanile

Invitata da Donatella Franchi a intervenire alla mattinata di studio su arte e relazione, il mio racconto non poteva non concentrarsi sull’esperienza di Cuore di pietra, un progetto di arte pubblica, partecipativa e relazionale, che ho ideato e realizzato, come curatrice e artista, a Pianoro, paese dell’area metropolitana bolognese.

Attivo dal 2005 al 2020, Cuore di pietra è nato inizialmente come una mia azione poetico-politica a partire da un’emergenza: un piano di riqualificazione urbanistica che si avviava a stravolgere con abbattimenti e ricostruzioni il vecchio centro del paese portando a dei mutamenti, anche antropologici, molto profondi, di abitudini e rituali di vita quotidiana. Da subito, visto il coinvolgimento immediato ed emotivamente partecipe degli abitanti, è iniziata la costruzione di una tessitura continua di relazioni fra me, i moltissimi artisti di volta in volta invitati (per non citarne che alcuni MP5, Andreco, Alessandra Andrini, Emanuela Ascari, Eva Marisaldi, ZimmerFrei, Annalisa Cattani, Mona Lisa Tina) e un tessuto umano, sociale e generazionale diversificato: gli abitanti delle vecchie case (per la maggior parte donne, che abitavano le case dal dopoguerra e che costituivano un po’ la memoria del paese), i bambini delle scuole locali, le loro famiglie, gli abitanti tutti e, col tempo, anche studenti universitari e dell’Accademia di Belle arti di Bologna interessati a un percorso di formazione alla progettazione di arte negli spazi pubblici non finalizzata alla monumentalità né alle opere troppo “egocentrate” ma “portatrici di senso” non solo per l’artista che le crea ma per la comunità. I linguaggi artistici che negli anni abbiamo utilizzato sono stati i più diversi: dal video e la fotografia, nel nostro caso continui “pungoli relazionali”, strumenti di sollecitazione a un dialogo in divenire, alle installazioni effimere o permanenti, le performance. L’obiettivo di tutti i lavori è stato attivare una memoria il più possibile vitale, non retorica né strumentale ma capace, nel suo muoversi con levità e restituendo dignità di racconto ad ogni singola piccola o grande voce, di costruire insieme un’identità rinnovata e far sì che ciò che stava per essere cancellato rimanesse come un racconto “caldo” e “profondo” di tutto ciò e di chi sarebbe inevitabilmente scivolato nell’oblio. Ne è nato così un racconto corale le cui tracce si trovano ancora, dal centro alle aree verdi e alla zona industriale, in un percorso visitabile anche attraverso periodiche passeggiate guidate. 

Anna Ferraro, 20 cartelli stradali. Segnali di vita per cuore di pietra. Area pettegolezzo, 2007-2008.

In questa fitta trama di relazioni il tempo e la durata hanno acquisito una funzione fondamentale: niente eventi spettacolari e a spot, ma un’arte che ha lavorato nelle pieghe del quotidiano e nel tempo lungo necessario per entrare in contatto con il territorio, con i suoi abitanti in uno scambio di racconti alla pari fra generazioni e in una cura che voleva essere  training alla consapevolezza e responsabilità in progress: cura dell’artista nel momento della fase progettuale e nel suo rapporto (fondamentale) con la comunità, cura nella realizzazione dei diversi progetti che, facendo entrare l’altro dovevano aprirsi a una elasticità e agli imprevisti, cura e attenzione nella manutenzione, contro l’indifferenza, l’invisibilità e l’incuria nelle quali il più delle volte gli interventi di arte negli spazi pubblici scivolano inevitabilmente. Quest’ultimo punto è argomento di una mia battaglia dura, un po’ sconfortante e tutt’ora aperta, perché non è così assodato che tutto ciò che è stato faticosamente creato e con un discreto successo in un certo momento, si sedimenti come cambiamento culturale e di mentalità in chi, soprattutto le istituzioni, ha dovuto e dovrà, nel tempo, e soprattutto in nostra futura assenza, gestire e prendersi cura di un bene divenuto comune. Molto, in questo modo di intervenire con l’arte, ha a che fare con il dono, uno scambio in cui energie e risorse non potranno, men che meno in Italia, essere equiparate alle energie e alle forze e alle risorse spese.

Questa mia pratica e metodologia, sicuramente complesse, che necessitano di presenza, sguardo e ascolto sempre vivi, penso, e me ne rendo conto solo negli ultimi tempi, nascano sia dal non avere avuto una formazione artistica tout courtma avere fatto degli studi trasversali sullo spazio metropolitano moderno in chiave letteraria, artistica e antropologica, sia dall’impegno politico e dalle pratiche femministe della fine degli anni ’70, a Firenze, quando frequentavo il collettivo femminista che si riuniva nella sede del Manifesto, oltre che dalle strade invase dai sogni dell’utopia creativa del ’77 bolognese.

Qualcuna di voi diceva, citando Carla Lonzi, che le artiste hanno reso l’arte uno strumento di azione nella loro vita, io aggiungerei che l’arte è stata per me oltre che un potente strumento di azione nella mia vita anche uno strumento di incontro e azione nella vita degli altri. Essa in Cuore di pietra ha avuto un valore sociale, umano e affettivo, catartico e terapeutico per un’intera comunità.

Cuore di pietra è nato da un’emergenza urbanistica dicevo prima. Ma l’incontro con varie emergenze nel corso del tempo ha fatto sì che, quasi naturalmente, il nostro lavoro proseguisse malgrado difficoltà e intoppi, in un’azione cocciuta e necessaria di Resistenza e resilienza. Nel 2011, di fronte a una crisi economica che imponeva tagli alla cultura, all’arte e all’istruzione e che, anche dai racconti dei bambini di Pianoro, toccava pesantemente le famiglie, abbiamo deciso di proseguire concentrandoci sulle memorie del territorio produttivo entrando con gli artisti nelle fabbriche e nelle aziende, anche e soprattutto in orario di lavoro e cercando di creare una rete di scambio fra le zone della produzione e la vita del paese, spesso rigorosamente separate.

Dal 2016, seguendo gli sviluppi nazionali e locali delle politiche di accoglienza e integrazione dei migranti abbiamo lavorato, attraverso dei laboratori focalizzati sulle narrazioni e le esperienze dei loro viaggi e sulla loro identità nei paesi d’origine e in Italia, con le famiglie ospiti di una struttura gestita da Mondo donna Onlus e con un gruppo di giovani maschi. Onde dorate/Golden waves, nel 2019, con un mio intervento che dalla piazza del municipio di Pianoro si è diffuso ad una partecipazione più allargata a varie città, e con due interventi artistici di Tina Besoni Pesoni e di Valeria Notarangeli, realizzati con i migranti all’esterno della scuola media e in una sala della biblioteca comunale, è stato il risultato di quegli ultimi anni di impegno febbrile e coinvolgente dal quale è nato anche un toccante libretto di racconti di viaggi migranti: Io sarò la tua voce, scritto da Clement I. Thomas, un giovane nigeriano.

Ciò che di Cuore di pietra è rimasto, ed è visibile, oltre ad un percorso di arte contemporanea partecipativa fra i primi in Italia e che segna alcuni spazi pubblici all’aperto e al chiuso, sono alcune pubblicazioni e molti film e video, alcuni fruibili sul web e dei quali vi riporto qui il link qualora voleste approfondire il tema.

Un’ultimissima riflessione, con la quale concluderò, mi è stata sollecitata dalla citazione della secentesca Carte de Tendre che aveva illustrato il romanzo Clélie di Mademoiselle de Scudéry, fatta da Donatella all’inizio di questo nostro incontro. Quella mappa ha molto influenzato periodicamente l’arte e la letteratura, non soltanto femminile, soprattutto dal ’900 in poi: dai surrealisti francesi alle mappe psico-geografiche dei situazionisti. E la public art delle nostre pratiche altro non è, anche, che un tentativo di mappatura emotiva e affettiva degli spazi pubblici e di un territorio che, proprio in virtù dell’emersione di questa affettività riesce a trasformarsi in “paesaggio”, caldo e umano.

www.cuoredipietra.it

https://www.facebook.com/CuoreDiPietra.PublicArt

Cuore di pietra. Un paese si racconta con l’arte, film di Marco Mensa, Elisa Mereghetti e Mili Romano: https://www.youtube.com/watch?v=7yN4ipJFMm8

Trailer del film Lavoro ad arte: https://www.youtube.com/watch?v=YBGxlkbCnMM

Video Onde dorate/Golden waves: https://www.youtube.com/watch?v=VxqZ0-LgXrcVideo Onde dorate/Golden waves. Let’s save them… Let’s save ourselves: https://www.youtube.com/watch?app=desktop&v=LxoqJ1WxiG8

I contributi di Giorgia Basch e di Donatella Franchi sulle pratiche artistiche femministe che diventano pratiche relazionali e aprono spazi di sperimentazione nuovi, insieme alle riflessioni riportate di Carla Lonzi sull’arte, mi hanno richiamato alla mente il fiorire negli anni settanta all’interno dei collettivi femministi di gruppi di donne che si occupavano in particolare di cinema, girando film, documentari e video artistici.

Un’esperienza intensa e fruttuosa che voleva documentare non solo le lotte, ma la politica di presa di coscienza, la ricerca di nuovi linguaggi di rappresentazione delle donne come soggetto e il desiderio di sovvertire l’ordine patriarcale. La pratica dell’autocoscienza, che è una pratica di relazione per eccellenza, ha qui avuto un ruolo fondamentale.

In quella fase le sperimentazioni filmiche e le teorie sulla creazione di un nuovo immaginario femminile andavano di pari passo. 

Una raccolta di questi video fu presentata all’interno della mostra che si tenne a Milano tra aprile e maggio 2019 dal titolo Il Soggetto Imprevisto. 1978 Arte e femminismo in Italia*.

La grande Agnès Varda è un esempio. Fin dal suo debutto con il film La Pointe Courte, la regista pone in primo piano la forza delle relazioni, non solo nelle trame dei suoi film ma nella loro realizzazione, sia con le persone con cui lavorava sia con i soggetti che filmava: i suoi vicini di casa, i commercianti della sua via, le donne che animavano i cortei o il suo girovagare incinta fra gli abitanti del quartiere.

Il cinema anni settanta definito Feminist Avantgarde nasceva dall’autocoscienza, dalle teorie femministe e dalle pratiche di relazione e sviluppò una lunga ricerca e un acceso dibattito su come decostruire l’immaginario maschile. Da qui i film e le analisi della regista e critica Laura Mulvey che con il suo saggio Visual Pleisure and Narrative Cinema(Piacere visivo e cinema narrativo, 1975) intendeva mettere in discussione e modificare la rappresentazione del corpo femminile nel cinema e nella pubblicità. Sosteneva che in una società costruita sul dominio sessuale maschile il piacere di guardare era stato diviso tra l’attivo/maschile e il passivo/femminile. Di conseguenza lo sguardo maschile sulla figura femminile la modellava. Divenuto un testo di riferimento per le teorie del “male and female gaze” (sguardo maschile e sguardo femminile), il dibattito critico è arrivato fino ai giorni nostri.

Perché cambiare lo sguardo significa mettere in atto una relazione differente tra spettatrici e spettatori, tra chi guarda e chi è guardato, e non è reso oggetto.

A questo proposito una lezione raffinata e illuminante sul tema ci viene da Céline Sciamma nel suo film Ritratto della giovane in fiamme che a questo proposito in un’intervista a Emily Van Der Werff su Vox (rivista on line, 19/02/20) afferma: «Vedo il film come un manifesto sullo sguardo femminile. Vedo questo come una forte opportunità per creare nuove cose, nuove immagini, nuove narrazioni».

Come sempre anticipatrice, Agnès Varda, a proposito dello sguardo femminile, dà una sua originale interpretazione in Cléo dalle 5 alle 7 dove la protagonista in un gioco di sguardi, di specchi e di rispecchiamenti, confronta la percezione di sé e quella attribuitale dallo sguardo maschile fino a rompere, non solo simbolicamente, con questi continui rimandi a sé come oggetto, per incominciare a percepire se stessa come soggetto.

(*) Un importante archivio di quelle pratiche è il Centre Audiovisuel Simone de Beauvoir di Parigi che, creato nel 1982 da Carole Roussopoulos, Delphine Seyrig e Ioana Wieder, ha come scopo «la conservazione e la creazione di documenti audiovisivi sulla storia delle donne, i loro diritti, le loro lotte, le loro creazioni».

Da alcuni anni curo mostre di mail art organizzate dal circolo La Merlettaia di Foggia a cui si è poi unita la rete delle Città vicine e quest’anno, con la mostra, anche le artiste dell’Alveare di Lecce.

Nello scenario della società contemporanea l’arte assume un rilievo fondamentale come strumento critico e politico. In particolare negli ultimi anni è cresciuto l’impegno di artiste e artisti sulle questioni che riguardano l’attualità attraverso le loro opere, facilitato dall’uso di strumenti digitali, che hanno consentito loro di raggiungere un pubblico molto vasto e di diffondere in modo rapido ed efficace i loro messaggi. Anche le città sono investite da nuove forme d’arte che mirano all’occupazione dello spazio pubblico e diventano teatro di nuove sperimentazioni culturali, in cui artisti/e agiscono su territori non deputati generando spazi di socialità, occasioni di incontri, attraverso forme d’arte e performance agite anche in modo illegale.

In particolare la pratica della mail art, che non ha scopo di lucro, si serve delle tecniche più disparate, con la sua lunga tradizione di carattere politico e di resistenza a ogni forma di potere, è particolarmente adatta a veicolare pensieri, parole, messaggi che hanno stretti legami con l’attualità e profondi significati sociali e politici. È, infatti, lontana dai condizionamenti, dalle mode del cosiddetto sistema dell’arte ed è anche un atto politico, che crea relazioni tra i partecipanti e tra mittente, destinatario, spettatore. La comunicazione mailartistica, la più grande espressione artistica fuori dal mercato, si avvale di reti che coprono l’intero pianeta. Non c’è paese, infatti, in cui non ci siano artisti/e che si servono di questa pratica per comunicare e scambiarsi idee, anche a costo di subire persecuzioni, come accade nei paesi a regime totalitario. Questa forma d’arte si diffuse all’inizio degli anni Sessantanelle due Americhe con la caratteristica di opporsi all’establishment culturale e politico.

Mentre i nordamericani si ribellarono al formalismo, alla fama, alla moda, ai musei, ai critici delle gallerie e alle istituzioni, i latinoamericani invece si opposero ai propri regimi repressivi. Anche nell’Europa dell’Est gli artisti si servirono della mail art per criticare i regimi da cui furono perseguitati.

In Giappone si è diffusa con un particolare interesse per la pace. Famoso il Progetto Ombra di Ruggero Maggi che culminò a Hiroshima il 6 agosto 1988 con un grande “Mail art meeting”.

La mail art ha interessato molto le artiste che volevano intrecciare l’arte con la vita ed esprimersi creativamente al di fuori del mercato. 

All’inizio del 1975 fino al ’79 un gruppo di donne in tutto il mondo, a partire dall’Inghilterra, iniziarono a inviarsi reciprocamente piccole opere d’arte attraverso il mezzo postale con l’intento di unire aspetti apparentemente disparati: il privato, domestico e personale con il politico e sociale. Avendo poche risorse, molte di loro usavano vecchi imballaggi, pezzi di stoffe ricavate dall’abbigliamento, cose di uso comune. Nel 1977 ci fu un grande evento di arte postale femminile, FeministoRitratto dell’artista come casalinga, presso ICA di Londra.

Dalle sue origini la mail art rappresenta, dunque, un linguaggio che evidenzia l’importanza delle differenze a partire da quella uomo donna ed è espressione del multiculturalismo e delle varie identità e personalità artistiche che coesistono e si confrontano. I mailartisti hanno sempre lottato per la giustizia sociale e hanno creato progetti che esaltano la diversità culturale, etnie e classi sociali.

Il tema che proponiamo per le mostre di mail art del circolo La Merlettaia è scelto tra quelli al centro di riflessione e discussione di donne e uomini delle associazioni interessate e spesso riguarda l’attualità. Dallo scambio di pensieri, dal racconto delle proprie esperienze e a partire dal proprio sentire emergono spunti che proponiamo nella lettera di invito rivolta ad artiste e artisti, e non, con cui siamo in relazione e che a loro volta invitano altre e altri. Si crea così una ampia rete che comprende varie città italiane e anche straniere. Abbiamo cominciato nel 2013 con Immagina che il lavoro, che riprendeva il titolo della pubblicazione del Sottosopra, poi nel 2015 Kintsugi, ispirata alla tecnica artistica giapponese che consiste nel riparare una ceramica rotta con l’oro o l’argento. Questa modalità può aiutare ad affrontare e riparare senza cancellarli ferite e dolori in casi di un forte conflitto, come capita quando c’è uno scambio reale tra persone.

In cielo, in terra e… in mare del 2016 allude alla libertà femminile, l’imprevisto della storia che non stava né in cielo né in terra, ma che le donne sono riuscite a conquistare. 

Nel 2017 Concepire l’infinito, tema dettato da una riflessione e una serie di letture in cui eravamo impegnate da alcuni mesi in incontri presso La Merlettaia. Nel 2018 Ci deve essere un luogo in comune, tratto da un passo del libro di Antonietta Potente Come un pesce che sta nel mare, che recita: «Ci deve essere un luogo in comune, uno spazio, un cuore dove viviamo, nella verità della differenza, questa bellissima appartenenza gli uni dagli altri, le une alle altre».

La mail art del 2022 Rigenerazione nasce dall’ispirazione dell’opera di Shamsia Hassani, Donna che vola sopra il Covid 19 e la guerra. Ci chiedevamo: come, in che cosa ci sentiamo trasformate e trasformati? Come è cambiata nel sentimento di ognuna/o la città? E l’ambiente naturale? È possibile creare un nuovo rapporto tra tecnologia e natura? Che cosa abbiamo scoperto di diverso sulla nostra percezione del corpo, la vecchiaia, la cura, la fragilità? Nel 2023Donna Vita Libertà esprimeva solidarietà alle donne iraniane e sottolineava la continuità fra le parole donna, vita e libertà. Nel 2024 la scelta del tema Trame di vita – Trame di pace è stata inevitabile in un periodo buio dell’umanità, ma nello stesso tempo illuminato da sprazzi di luce e di speranza per le azioni di tante donne e uomini in ogni parte del mondo tese al cambio di civiltà.

Giorgia Basch: Il titolo che abbiamo scelto per questa redazione aperta è “L’arte della relazione” e il perché lo capirete durante il nostro intervento, mio e di Donatella. Non si tratterà di parlare solo a un pubblico specifico, a chi fa parte del mondo dell’arte contemporanea, ma anche a chi fa uso di pratiche artistiche e creative nella vita di tutti i giorni, qualcosa che il femminismo ha fatto e continua a fare anche nella mia generazione. Vorrei anche fare un’altra precisazione: chi viene spesso agli incontri di Via Dogana sa che siamo solite leggere una sorta di relazione, o comunque lavorare su interventi singoli. Con Donatella però, vista la tematica e quello che andremo a discutere poi con voi, abbiamo scelto di mantenere un dialogo tra di noi e di creare una conversazione in cui cercheremo di portare innanzitutto le nostre esperienze, quindi a partire da noi, e poi di dare anche qualche indicazione storico-culturale che è a noi vicina e che pensiamo possa aiutare a introdurre questo tema. Vedremo anche delle immagini, cosa che accade ogni tanto nei nostri incontri, ma devo dire che in questo caso ne avremo molte, e speriamo che possano sostenere la narrazione. Lascio la parola a Donatella. 

Donatella Franchi: Grazie. Dichiaro subito la posizione da cui parlo, che è quella di una femminista degli anni ’70 con una gran passione per l’arte e la politica. Le due passioni per me coincidono.
Il fatto di parlare insieme a Giorgia, una giovane donna, mi fa pensare che il femminismo è un movimento che continua a rinascere e ad essere ricreato da ciascuna. Non è un tempo storico, è una ricerca, un modo di stare nel mondo. Ne è una dimostrazione il rinnovato interesse per la figura di Carla Lonzi. In tutti i suoi scritti la riflessione sull’arte e la creatività occupa un posto centrale. È un pensiero generativo che oggi continua ad essere fertile e a dare nutrimento. 
Carla Lonzi oggi viene ripubblicata, riletta e rivissuta anche da studiose di storia dell’arte e da diverse artiste. Segnalo due testi particolarmente efficaci: Carla Lonzi, un’arte della vita di Giovanna Zapperi2017, e La storia dell’arte dopo l’autocoscienza a partire dal diario di Carla Lonzi di Carla Subrizi, 2021. Il suo pensiero è un punto di riferimento in mostre sulle pratiche artistiche delle donne dagli anni ’70 in poi come Il soggetto imprevisto (Milano 2019), e Io dico io (Roma 2021). 
Nella sua premessa a Sputiamo su Hegel (1970) Carla Lonzi dice: «Il bisogno di esprimersi è stato da noi accolto come sinonimo di liberazione». Esprimersi dunque è una azione politica e fare politica coincide con il desiderio. Questa secondo me è la chiave di volta per capire che cosa è stato il femminismo per una donna della mia generazione. Un urgente desiderio di esprimersi che si traduceva in una sperimentazione a tutto campo, a partire dalle nostre vite, per trovare la nostra voce, parole e immagini proprie, libere dalla tradizione maschile. «Non credere più a una liberazione di riflesso fa uscire la creatività dai rapporti patriarcali» (Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile, 1971).
Il pensiero rivoluzionario che Carla Lonzi elabora nel suo gruppo di Rivolta Femminile, e soprattutto attraverso il dialogo con Carla Accardi, libera l’atto creativo dal dominio dell’artista restituendolo al vivere e all’agire creativamente, alla vita.
È necessario smitizzare la figura dell’artista che, sentendosi depositario privilegiato della creatività, accentra su di sé la creatività che tutte e tutti in modi diversi possediamo e che è indispensabile per orientarsi dentro la vita. «[…] tutti devono essere creativi, non è immaginabile che si accetti una parte di umanità tagliata fuori» (Taci. Anzi parla, 6 agosto 1972). Qui mi risuonano anche le parole di Anna Maria Ortese, quando dice che “Il fatto creativo” è entrare nel mondo per il verso giusto e non creare è morire (Corpo celeste, pp.55-60). Mettere a frutto il proprio io creativo è necessario come respirare.
La creatività è prima di tutto in funzione della vita ed è nutrita dalle relazioni. 

Il gruppo di autocoscienza, per tante della mia generazione, è stato uno spazio di relazioni creative e un laboratorio di ricerca dove l’espressione di una trovava echi e risonanze nell’espressione dell’altra. Nell’atto creativo dell’ascolto veniva rotta la fissità dei ruoli tra chi si esprimeva e chi ascoltava. Erano posizioni intercambiabili (Zapperi, p. 215). Era una pratica d’ascolto che portava a un nuovo modo di esprimersi capace di dare voce alla propria esperienza, e alla rottura di specialismi e stereotipi culturali.

Ho vissuto il femminismo degli anni ’70, e continuo in parte a viverlo, come una pratica creativa che si manifesta in un fare. «Fare il femminismo» diceva Carla Lonzi e Carla Accardi diceva «fare arte». Si inventavano e si aprivano nuovi spazi e nuovi contesti di relazioni. Si aprivano le proprie case, dove si incontravano i primi gruppi di autocoscienza, e luoghi come le librerie delle donne, laboratori creativi, spazi espositivi curati dalle stesse artiste. 
Nel mio gruppo di autocoscienza ero l’unica che aveva la passione per l’arte e per il fare arte, ma tutte sentivamo l’urgenza di metterci in gioco cercando un modo di esprimerci che non avevamo mai sperimentato. Utilizzavamo la fotografia come pratica di autocoscienza. Erano le fotografie degli album della nostra infanzia, spesso scattate dalle nostre madri e più tardi da amiche e conoscenti, fidanzati, e quelle scattate da noi stesse. Il lavoro che ne è risultato, e che abbiamo chiamato Equilibrismi, consisteva in una riflessione di parole e immagini sui ruoli e i travestimenti che assumevamo nelle nostre vite sotto lo sguardo di chi ci fotografava. Il prendere in mano l’obiettivo significava guardare il mondo dal nostro punto di vista, prendersi la responsabilità del proprio sguardo e creare immagini proprie, fuori dall’imitazione. 
La fotografia, come i video, sono tra gli strumenti espressivi più amati dalle femministe tra gli anni ’70 e ’80, come mezzi duttili e immediati che non richiedono una lunga preparazione accademica e possono così rispondere all’urgenza di comunicare liberamente.

Carla Lonzi non amava le artiste sue contemporanee, le vedeva ancora nell’imitazione della tradizione maschile. Incontra quello che non trovava in loro nel mondo delle Preziose della prima metà del ’600. In Armande sono io!conversando con Anna Piva, ci dice chiaramente quello che lei intendeva per arte, proiettandolo nello spazio relazionale delle preziose: La Carte du Pays de Tendre. La carta di Tendre è una mappa dove i paesi e le città portano i nomi di relazioni e sentimenti, sia positivi sia negativi; la città più grande è quella di Nuova Amicizia, e c’è quella della Stima e della Riconoscenza, il fiume che solca il territorio è il Fiume dell’Inclinazione, cioè del desiderio, ma c’è anche il grande Lago dell’Indifferenza. Il territorio è misurato in leghe d’amicizia. Man mano che ci si allontana dal Fiume dell’Inclinazione, si trovano i sentimenti negativi, l’Indifferenza, la Trascuratezza.

Madeleine de Scudéry, Carte de Tendre, 1653-1654.

Per Carla Lonzi creare un contesto di relazioni è un vero atto creativo, per questo considera delle vere maestre le Preziose, che praticando l’arte della conversazione «portavano sempre più la letteratura (ma si può dire la stessa cosa per l’arte visiva) ad essere in funzione della vita» […] «loro volevano spostare a che il momento più importante fosse questo dell’arricchire il vivere insieme. Arricchirlo, per cui una parola detta, una frase trovata, una serata riuscita era veramente un capolavoro» (Armande sono io! pp. 54-55). Allora, a questo punto, Giorgia, vorrei che tu ci dicessi la tua.

Giorgia: Mi vorrei ricollegare alle Preziose, che tu hai citato, ma con una premessa: ci tenevo a far emergere la pratica relazionale che abbiamo messo in atto io e Donatella per preparare questo incontro. È per me espressione di quella genealogia femminile di cui qui parliamo molto spesso e che credo sia molto importante, soprattutto all’interno delle pratiche creative. Nella mia tesi Conversazione come pratica. Dialoghi tra arte e curatela dagli anni Settanta a oggi ho scritto del rapporto – a volte anche difficile ma spesso fruttuoso – che c’è oggi tra artiste e curatrici, critiche d’arte e pubblico. Se non fosse stato però per quello che voi femministe siete riuscite a creare negli anni ’70, inclusi gli spazi come questo che ancora sono qui fortunatamente, non sarebbe stato possibile per la mia generazione leggere la pratica artistica nel modo in cui sono in grado di leggerla oggi, io come molte altre. Io non sono un’artista, però ci sono molte artiste, e anche curatrici, critiche, editrici contemporanee che ne hanno fatto un uso proprio e ve ne farò vedere degli esempi. Quindi credo che sia assolutamente fondamentale ricordarci della storia che ci ha condotte fino a qui e di come queste pratiche continuino a rivivere e a rinnovarsi anche sulla base di una serie di problematiche sociali, economiche e politiche che ci troviamo ad affrontare nella quotidianità.

Gillian Wearing, Signs that Say What You Want Them To Say, 1992-3.

Tornando alle Preziose, anch’io sono stata curiosa di capire che cosa le Preziose rappresentassero per Carla Lonzi, ma anche per altre donne che hanno lavorato sulla pratica di relazione. Una di loro è qui presente, è Lia Cigarini – qualche mese fa abbiamo avuto una conversazione sul suo interesse per le Preziose, di cui ha anche scritto, e questo testimonia l’importanza di un movimento apparentemente molto lontano da noi (siamo nel ’600). Le Preziose hanno fatto un lavoro straordinario, assolutamente rivoluzionario rispetto al contesto in cui erano calate, ovvero tra le altre cose creare questi salotti in cui si discuteva di un vero e proprio programma culturale, tra donne ma anche tra donne e uomini. Credo che questo modello in qualche misura ce lo portiamo ancora dietro – c’è ad esempio una teorica viennese con cui ho avuto modo di confrontarmi lo scorso inverno, Elke Krasny, che ha scritto un saggio molto interessante al riguardo, The Salon Model: The Conversational Complex (purtroppo ad oggi solo in inglese) che parla proprio di come la pratica relazionale, il dialogo, la conversazione si possano riportare al centro di una pratica curatoriale, a partire dai salotti delle Preziose. Questo fa proprio parte della creazione e del nutrimento di una genealogia femminile. Non è un caso: credo che anche Lonzi sia ripartita da lì, ne parla molto in Armande sono io, un libro molto interessante anche per com’è costruito, in forma di conversazione. E parlando di conversazione, è un tema che anch’io ho avuto modo di affrontare e mi interessa anche perché molto spesso la conversazione viene vista solo sotto l’aspetto della parola – come dicevi anche tu, Donatella. Tuttavia a volte anche attraverso il linguaggio visivo è possibile creare delle forme di conversazione. Questo mi interessa moltissimo, e ne ho scritto di recente non solo per il mio legame con la fotografia, il video e tutti i mezzi legati alla creazione dell’immagine (lens-based si direbbe in lingua inglese), ma anche perché noi viviamo in una società che è completamente assorbita dal flusso delle immagini – lo scrivevano Guy Debord e Susan Sontag a dieci anni di distanza (rispettivamente nel ’67 e ’77) già mezzo secolo fa, e la loro intuizione si è rivelata essere uno studio importantissimo sul passaggio alla società dell’immagine. Per questo motivo mi interessa come possiamo ripensare quello che è stato scritto e studiato fino ad ora rispetto alla produzione dell’immagine, da un punto di vista di donne e anche di femministe. Il motivo per cui abbiamo scelto di far vedere anche noi delle immagini oggi testimonia di alcuni casi di fotografe che sono riuscite a creare un dialogo attraverso l’utilizzo della fotografia non solo con il pubblico, ma anche all’interno dell’opera stessa. Un esempio che a me piace molto è un lavoro dell’artista britannica Gillian Wearing degli anni ’90, Signs that Say What You Want Them To Say and Not Signs that Say What Someone Else Wants You To Say. Sostanzialmente Wearing andava in giro per Londra, per strada, e chiedeva alle passanti e ai passanti di scrivere su un cartello un loro messaggio, uno stato d’animo; quindi un lavoro fatto nella contingenza. I messaggi erano tra i più disparati, molto spesso anche abbastanza disperati devo dire, e questo le permetteva di entrare in conversazione con i soggetti attraverso l’immagine e il processo fotografico. Quando ho cominciato a ragionare su cosa rappresentasse per lei entrare in relazione con queste persone nel giro di pochissimi minuti, l’ho trovato straordinario. Ed è straordinario anche che ci arrivi un riflesso di quello che lei ha prodotto lì, oggi, con le sue opere. Noi che siamo all’esterno, molti anni dopo, possiamo ancora relazionarci con queste persone leggendo i loro messaggi, però attraverso una fotografia. Tanto per dire che si sono molti modi possibili per entrare in conversazione e che questo potrebbe essere uno.

Un’altra tematica è quella della rigenerazione delle pratiche, della riattivazione di alcune delle pratiche femministe che sono nate negli anni ’70, come quella dell’autocoscienza, oppure la pratica dell’inconscio che è una pratica femminista prettamente italiana, milanese. Ci sono diverse artiste che hanno deciso di riattivare delle pratiche già esistenti. Una di queste è un’artista americana, Carmen Winant, che ha pubblicato nel 2019 con Printed Matter Notes on Fundamental Joy: ha deciso di riattivare un archivio fotografico prodotto in Ohio negli anni ’80 facendone un libro, ora già introvabile, in cui troviamo una serie di immagini che non ha scattato lei benché sia anche fotografa, ma che sono state prodotte durante una serie di workshop chiamati Ovulars e che raccontano l’esperienza di una comune femminista di donne lesbiche separatiste, che hanno vissuto tra donne per molto tempo – avevano rapporti di amicizia, relazioni e si scattavano foto. È un libro molto denso che racconta le loro storie con un testo che scorre lungo tutto il libro, una sorta di testo-poesia, il pensiero dell’autrice sul lavorare a questo archivio da vicino. 

Un’altra artista che vorrei citare e che è stata qui in Libreria per sviluppare un suo lavoro video è Alex Martinis Roe, con cui alcune di noi hanno collaborato a stretto contatto, per esempio Laura Minguzzi qui presente1. Alex Martinis Roe lavora con il video, l’audio e la performance, e qui come potete vedere abbiamo una foto di lei mentre sviluppa una sua performance a Berlino, Encounters: Conversation in Practice, del 2010. Martinis Roe ha fatto un lungo lavoro sulle pratiche del femminismo e sulle genealogie femminili, tra cui quelle della Libreria delle donne, e ha voluto ridare nuova vita, in un certo senso, al lavoro di pratica politica e relazionale che era stato fatto qui, a partire dall’opera A Story of Circolo della rosa del 2014. Quello che lei fa il più delle volte nelle sue performance è far sedere qualcuno con lei, trascorrerci del tempo e registrare queste conversazioni o prendere nota di quello che succede – e quello è l’atto creativo, quella è l’opera. Questo pone un’altra questione, di cui discussi con lei, quella dell’opera dematerializzata e quindi difficilmente vendibile. Si crea un mercato dell’arte delle donne in alcuni casi, o se vogliamo dell’arte femminista, che è molto, molto lontano dalle logiche di mercato tradizionali, e questo ovviamente pone la sfida dell’essere artista nel neoliberismo, nel mondo contemporaneo.
Passo la parola a Donatella per parlare di alcune scelte radicali rispetto allo stare nell’arte.

Alex Martinis Roe, Encounters: Conversation in Practice, performance still, 2010.

Donatella: C’è un andirivieni tra la creatività che è indispensabile per vivere ogni giorno e quella che diventa pratica artistica, la soglia è molto labile. Ho sperimentato questo nella mia vita e nella mia pratica artistica. Preferisco parlare di pratiche artistiche più che di arte. 

Nelle pratiche artistiche che trovo più significative, in gioco non c’è l’identificazione in un prodotto ma il processo del ricercare, il lavoro artistico come un divenire che sostituisce l’opera chiusa e definita, dove lo scopo è creare degli spostamenti, anche piccoli che aiutano a mettere in circolo energie e pensiero aprendo vie di trasformazione. Le opere esistono in quanto relazioni, nel loro farsi e divenire più che come oggetti. «Il mio lavoro è una sorta di esca, di richiamo per interrogarsi sulla realtà», dice l’artista americana Martha Rosler.

Oggi si riconosce che il femminismo è il movimento del Novecento che ha più influenzato l’arte visiva. Molte artiste hanno reso l’arte uno strumento di azione nelle loro vite, e oggi assistiamo al fiorire di pratiche artistiche come pratiche sociali e relazionali, e pratiche di resistenza. 
Ad esempio, sabato 21 settembre a Bologna c’è stata la “Festa delle strade strette”. Un’iniziativa organizzata da un gruppo di giovani di un laboratorio di serigrafia nella zona universitaria, dove abito. Le strade secondarie della zona, “le strade strette”, sono degradate, soprattutto a causa dello spaccio di droga, che le rende insicure. Il progetto partito dal laboratorio, che ha coinvolto anche una legatoria di tesi di laurea e una piccola galleria d’arte, ha fatto leva sul desiderio di relazioni gioiose e di scambio degli abitanti, di tutte le generazioni. In una delle strade è stata allestita una tavolata lunga molti metri, per un pranzo collettivo con il contributo delle e degli abitanti. Sono stati preparati dei laboratori, frequentatissimi, di stampa, di collage, di rilegatura, colori e carte a disposizione dei bambini/e, musica dal vivo. Il desiderio di convivialità, di mettersi in relazione e la vitalità gioiosa che questa festa mi ha comunicato mi ha fatto pensare che i giovani e le giovani che l’avevano preparata avevano creato un vero capolavoro. Dei giovani e delle giovani che lavorano con l’arte avevano trasformato le pratiche relazionali in pratiche artistiche, in azioni creative di politiche di resistenza. Invece di fermarsi alla protesta per la scarsa presenza delle istituzioni in quella zona degradata hanno creato un esempio di convivenza dove far convergere le energie creative e il desiderio di tutti/e. Una vera azione politica dal basso.

Fare arte è mettere a fuoco il tessuto di relazioni che sorreggono la vita e le permettono di continuare. Questo è il tema centrale del lavoro di molte artiste. 

Un’artista che ha creato una vera rivoluzione nel modo di vivere la pratica artistica è la statunitense Mierle Laderman Ukeles. Dopo aver avuto un figlio si sente divisa in due, non riesce a conciliare la cura per il figlio e la sua attività artistica finché, per poter sopravvivere a questa angoscia, prende una decisione: se lei è l’artista sarà lei a decidere che cosa è arte. Qui sento risuonare l’«io dico io» del secondo manifesto di Rivolta Femminile. E infatti nel 1969 Ukeles scrive proprio un manifesto, il suo progetto artistico e politico, il Manifesto dell’Arte della Manutenzione, Maintenance Art, in cui dichiara che è arte prendersi cura della vita e delle relazioni, e l’atto concreto di mantenere curato un luogo. Nel manifesto contrappone l’istinto di morte delle avanguardie artistiche all’istinto di vita che si radica nella quotidianità. 
Nelle sue performance vuole mettere a fuoco tutto il lavoro quotidiano che sta alle spalle delle opere d’arte (back half of life) e che permette loro di esistere, rovescia il privato nella dimensione pubblica, intreccia arte e vita in un modo del tutto imprevisto. Nel 1974 in un importante museo statunitense (Wadsworth Atheneum di Hartford) crea una performance dove spolvera gli ambienti, pulisce il pavimento e le scale. Lavorerà poi nella sede degli operatori ecologici di New York ideando una serie di performance dove nell’arco di undici mesi stringe la mano a 8500 spazzini dicendo loro «Grazie di mantenere viva New York».

Mierle Laderman Ukeles, Hartford Wash: Washing, Tracks, Maintenance, 1973. 

Giorgia: Questo è un esempio assolutamente geniale, anche se la sua opera purtroppo non è molto conosciuta. Vorrei sottolineare la sua scelta di fotografarsi – è interessante che sia attraverso la fotografia che ci arriva oggi questa performance. Anche questo fa parte di un vero e proprio processo in cui la documentazione ha giocato e gioca un ruolo molto importante per le artiste. Ci sarebbe ancora molto da dire, ad ogni modo spero che nel tempo a disposizione siamo riuscite a dare un’idea di cosa il femminismo ha rappresentato e continua a rappresentare per le pratiche artistiche, e di come poi queste possano diventare anche altro, anche pratiche legate al tessuto sociale e politico. E di come il dialogo, manifesto o meno, sia imprescindibile. 

  1. Alex Martinis Roe, Marirì Martinengo, Laura Minguzzi. Una storia dal Circolo della rosa. Libreria delle donne, 2015. ↩︎

Da sempre la guerra mi suscita repulsione e paura. La radice di tale avversione si trova nella mia storia familiare. Da ragazzina ascoltavo i racconti di mio nonno paterno che aveva vissuto la seconda guerra mondiale: osservavo le conseguenze che quell’esperienza aveva avuto nella sua e altrui esistenza; mi pareva che gli effetti “bellici” continuassero a vivere nella genealogia familiare sotto altre forme, imponendo vincoli e generando scelte.

Nonno Biase, padre di mio padre, aveva partecipato alle guerre coloniali di Etiopia ed Eritrea, obbligato dal regime fascista e probabilmente incoraggiato da suo padre, un contadino molto povero con undici figli a carico; fu catturato dalle truppe inglesi e dopo nove anni di prigionia e lavori forzati nelle ferrovie tra Londra e Birmingham, rientrò come reduce nelle campagne del tavoliere delle Puglie, deturpato nel corpo e nell’anima. Sposò mia nonna, giovane vedova, e dalla loro unione nacque mio padre. Lui ricorda che nonno Biase era facile alle sbronze e alla violenza soprattutto nei suoi confronti, un bambino che aveva l’ardire di rinfacciargli, suo malgrado e ingenuamente, la gioia come possibilità di esistenza, e di non obbedirgli quando aveva voglia di giocare a calcio con gli amici invece che andare a pascolare i maiali nell’aia. Alla fine degli anni sessanta, mio padre fece di tutto per evitare la leva obbligatoria: coltivò la sua passione per l’ingegneria meccanica iscrivendosi all’università e quando rimase indietro con gli esami approdò a un impiego pubblico e al matrimonio; dopo che neanche tale sforzo fu sufficiente, decise con mia madre di concepire una creatura: finalmente come padre di famiglia ebbe l’esonero definitivo dal servizio militare. In famiglia, sono ritenuta la figlia del “non servizio militare”, una conseguenza desiderata o un nobile pretesto per ripudiare le armi e le loro dolorose conseguenze. Da adolescente ebbi l’impressione che i racconti di guerra dei nonni e l’analisi storico-politica della Seconda guerra mondiale seguissero due percorsi paralleli nella mia mente generando livelli di conoscenza che faticavano a incontrarsi: spesso era impossibile conciliare in una visione coerente vicende familiari e avvenimenti storici. 

Ho un vissuto simile rispetto ai conflitti recenti, nello specifico la guerra tra Russia e Ucraina e l’aggressione israeliana della striscia di Gaza. Ai fatti riportati dall’informazione cosiddetta mainstream, si contrappone la dolorosa verità dei profughi di guerra, che giunti fino a noi, raccontano di perdite umane e case distrutte. L’esperienza della guerra entra nelle strutture di accoglienza dell’associazione per cui lavoro, con il suo carico di angoscia e spaesamento: assume il volto disperato e smarrito di chi è fuggito dalla propria terra con un bagaglio di fortuna o più spesso senza alcun bene necessario. Nelle case di accoglienza abbiamo accolto dapprima due giovani donne fuggite da Nikolaev che parlavano e comprendevano il russo più che l’ucraino e non potevano capacitarsi dell’invasione dei fratelli russi. T. è arrivata a Parma, senza bagaglio, raccolta in strada da una sua connazionale che faceva la spola tra Reggio Emilia e le zone occupate.  Si era ritrovata in strada dopo un boato che aveva distrutto la casa vicina. Spesso va in Ucraina perché le sue figlie vivono ancora a Kiev ma della guerra non riesce a parlare, ne piange e basta. Qualche mese fa ci ha detto che suo genero è rimasto gravemente ferito. E poi sono arrivate V. e N., figlia e madre, fuggite da Shevchenkove, un villaggio situato a trenta km dal confine con la Crimea, che come racconta N. è stato conquistato in due giorni. Dopo il 24 febbraio 2022 hanno vissuto in un garage per circa 40 giorni, insieme ad altre persone: V. non riusciva a lasciare la mano di sua madre e non dormiva: è lei che l’ha convinta a fuggire verso la Polonia e poi la Germania, sfidando prima un posto di blocco vicino Odessa, poi un tank russo senza munizioni e infine i missili ucraini “amici” lanciati contro l’offensiva russa. Dopo 10 giorni in una palestra di una città tedesca a loro sconosciuta, V. ha inviato la posizione tramite Google Maps a un amico italiano che ha convinto suo padre ad andare a prenderle per portarle in Italia. Dei profughi palestinesi ho poche notizie da colleghi e colleghe: dove vivo non ce ne sono molti e la loro assenza è la misura di una tragedia umana da cui è quasi impossibile fuggire. 

La condivisione dei vissuti delle donne profughe con cui lavoro e sono in relazione, mi rimanda a un prezioso testo di Luisa Muraro. In Maglia o uncinetto, infatti, si dice che parlare è come fare a maglia e che la trama del linguaggio si articola su due direttrici: quella metaforica e quella metonimica. La direttrice metaforica è la sfera dei rapporti in assenza, che seppure necessaria nella produzione del linguaggio, rischia, se usata in eccesso di astrarre troppo e di allontanare le parole dall’esperienza di chi parla. La metonimia è, invece, la figura retorica del linguaggio che consente la combinazione dei segni in presenza, tramite i quali il vissuto può essere messo in parola e dunque a disposizione delle altre e degli altri, del mondo. Arricchisce il sistema simbolico, vi aggiunge significati e amplia l’ordine di realtà. Essa svolge un lavoro che non è indolore e senza conflitto poiché si contrappone alla direttrice metaforica tagliando la sua pretesa di universalità. 

Leggendo con questa lente la contraddizione e la distanza tra i racconti delle donne ucraine incontrate e i resoconti della stampa mainstream sul conflitto russo/ucraino, ho realizzato ancor di più, che i vissuti di coloro che soccombono alla guerra non entrano nella narrazione della realtà di ciò che accade: essa è spesso occultante ed è anzi costruita volutamente sulla loro negazione e sulle implicazioni che tale omissione produce nell’opinione pubblica (sui temi connessi a questo punto rimando alle relazioni tenute da Ida Dominijanni e Giulia Siviero nel maggio 2024 al circolo della Rosa di Verona). Dunque creare spazi e luoghi in cui l’esperienza soggettiva dei profughi viene condivisa, può mettere in circolo una ricchezza simbolica di matrice metonimica capace di contrapporsi ad un regime discorsivo violento e pervasivo imposto dai poteri forti per creare consenso verso la guerra e le sue ragioni. 

La metonimia che consente di nominare quelle esperienze ha, a mio parere, ulteriori effetti e benefici: un primo effetto è quello di connettere il racconto delle altre all’esperienza soggettiva di ciascuna/o risvegliando la forza simbolica iscritta nelle nostre genealogie e mettendola a disposizione del presente e della sua lettura. Un secondo beneficio è quello di produrre un guadagno di realtà attingibile da tutti e tutte, un di più di esistenza, capace di neutralizzare gli effetti distorsivi e anestetizzanti di una narrazione iper-metaforica del reale in cui si perde l’esperienza singolare e quotidiana del dolore e della perdita. Una risorsa che diviene un antidoto contro l’assuefazione alla guerra e alla normalizzazione della violenza in tutte le sue forme. 

I racconti delle profughe accolte nelle case di accoglienza in cui lavoro, hanno risvegliato la memoria storica iscritta nella mia genealogia, l’hanno resa attuale e simbolicamente attiva: non si tratta di confondere le esperienze che hanno riguardato persone e generazioni diverse, ma di estrarne una similitudine, un comune denominatore capace di rafforzare la relazione, la vicinanza, l’empatia nella differenza. Una condivisione di linguaggio e di spazi emotivi/simbolici che tracciano una terra comune e indicano una direzione. Non ho vissuto quello che i miei nonni e le mie amiche ucraine hanno vissuto, ma il loro racconto mi fornisce un orientamento chiaro nella realtà e mi permette di assumere il rifiuto della guerra come postura radicata in una genealogia e un ordine simbolico che riconosco nella storia che incarno, nel pezzetto di umanità che mi porto dentro e che non riguarda solo me. Spesso accade che la condivisione dell’esperienza generi uno spazio prezioso in cui il vissuto e la verità soggettiva che ad esso si accompagna, diviene dono comune, un luogo di autenticità da cui si possono attingere conoscenze e competenze utili a orientarci nel reale. Pertanto creare contesti di condivisione e racconto diviene una strategia politica che mette in circolo risorse simboliche preziose che concorrono a radicarci nella non violenza, non come mera scelta ideologica, ma come postura generata dal riconoscimento reale di una violenza che ci tocca nelle sue variegate forme, e arriva a interpellare la nostra esistenza e il suo significato. È in questo processo di produzione simbolica collettivo di matrice metonimica che si radica, allora, un dissenso che può smembrare i discorsi iper-metaforici, e dare legittimità alla differenza delle esperienze soggettive. È un processo che non solo consente di riconoscere e decostruire i “frame” della guerra impliciti nei discorsi pubblici sulla guerra (Ida Dominijanni citava a riguardo il testo di Judith Butler Frame of war), ma di mettere in campo un guadagno di conoscenze e realtà. Un terreno da cui si può attingere la forza di interrompere il circuito della violenza (il gesto pacifico di cui anche Ida D. parlava nella relazione prima citata) e il coraggio di opporvisi non mediante un atto personale eroico e isolato, ma attraverso un lavoro simbolico comune che restituisce dignità e centralità all’esperienza soggettiva del lutto, della fragilità e della violenza subita aprendo speranze e nuove prospettive di libertà.