Condividi

da il manifesto

Intervista – La scrittrice e giurista israeloamericana Sari Bashi parla del suo libro (e della sua vita): «Maqluba» per Voland. «Le persone lontane dal conflitto tendono a diventare ideologiche, quelle che lo vivono dall’interno hanno principi altrettanto saldi ma sanno essere più pragmatiche»

Maqluba è un piatto tradizionale palestinese di pollo, riso e verdure che ha la caratteristica di mangiarsi capovolto rispetto alla modalità di cottura. «Maqluba» è il titolo di un file condiviso da Sari e Osama che per anni, ognuno dal suo lato della frontiera e della vita, hanno scritto in Israele-Palestina di quanto accadeva al mondo che condividevano e che li circondava, alla loro relazione che cresceva attraversando e inciampando in eserciti e confini, politici ma anche culturali, religiosi, identitari, linguistici.

Maqluba – Amore capovolto è anche il titolo del libro di Sari Bashi, giurista israeloamericana, edito da Voland (tradotto da Olga Dalia Padoa, pp. 353, euro 20), che racconta del suo «amore rovesciato» con Osama, un nome probabilmente fittizio per tutelarne la sicurezza, palestinese di Gaza, costretto a vivere a Ramallah. Un libro che però non è solo una storia di amore tra due persone: è soprattutto l’intrecciarsi di una relazione nel conflitto dentro il quale la loro vita è immersa.

Con Sari Bashi (ex direttrice presso Human Rights Watch, di recente alcuni suoi articoli sono apparsi sul New York Times) abbiamo parlato delle motivazioni che spingono a scrivere un romanzo come Maqluba.

«In Israele c’è un pubblico ristretto disposto a leggere un libro come questo, ma sono contenta di come è stato accolto – afferma Bashi –. Ho vinto un premio conferito da una giuria indipendente del Ministero della cultura israeliano, oggi non sarebbe possibile (il libro è uscito in Israele nel 2021 per la casa editrice Asia) a causa delle interferenze politiche in queste commissioni. Uno dei feedback più preziosi che ho ricevuto è arrivato da un’email di una persona sconosciuta, che ha specificato di essere un ufficiale riservista dell’esercito israeliano. Mi ha detto di essere in disaccordo su molto di ciò che avevo scritto, che alcune parti lo avevano fatto arrabbiare, ma che al tempo stesso gli avevo mostrato un lato della vita che non conosceva. Questo è esattamente ciò spero di fare: mostrare agli israeliani qualcosa che gli è familiare ma al tempo stesso ignoto, uno squarcio della realtà dall’altra parte del muro di separazione».

Sari e Osama si conoscono quando Gisha, l’associazione che lei ha fondato e che offre assistenza legale alle persone soggette a restrizioni della libertà nei territori occupati palestinesi si imbatte nel caso di lui, intrappolato nella città di Ramallah, in Cisgiordania.

Come vive il fatto di essere una persona privilegiata, in quanto israeliana ed ebrea?

Non siamo noi a scegliere di avere privilegi: sono categorizzata come appartenente alla classe superiore, non è una mia decisione, non mi sento colpevole per questo, però me ne sento responsabile. Lo siamo tutti: non ci è dato scegliere dove siamo incasellati, quale sia il nostro livello gerarchico eppure dobbiamo prenderci le nostre responsabilità.

Lei scrive sempre «Israele-Palestina» come fosse un binomio indissolubile eppure alcuni slogan nelle manifestazioni che, non solo in Italia, inneggiano alla pace e alla fine del conflitto recitano «Palestine will be free from the river to the sea»: dove è Israele? È davvero possibile un futuro con Israele e Palestina l’uno accanto all’altra?

Non lo so, ma credo che la situazione in questo senso sia peggiore in Europa. Le persone che sono lontane dal conflitto tendono a diventare ideologiche, mentre quelle che lo vivono dall’interno hanno principi altrettanto saldi ma sanno essere più pragmatiche. La gente sente di dover prendere posizione in maniera forte, ma così facendo, a volte, non si confronta con le sfumature. Io lo chiamo Israele-Palestina perché per me è un territorio unico, non saprei dove metterei il confine, la linea di separazione.

C’è una risoluzione legale-politica, secondo cui Israele è il territorio che si trova all’interno della green-line, i confini del 1948, mentre Gaza e la Cisgiordania si troverebbero in Palestina; eppure nella realtà non è così. In Cisgiordania i confini sono stati completamente cancellati: città e villaggi palestinesi sono sempre più costretti da blocchi di cemento e cancelli, che possono venire aperti o chiusi. Bisogna attraversarli per recarsi in un’altra città: nella West Bank puoi spostarti a seconda della carta d’identità che possiedi.

Non so come questa situazione possa essere risolta. All’interno di Israele ci sono i villaggi e città palestinesi che sono stati svuotati dei loro abitanti, quindi anche lì non è chiaro cosa sia Israele e cosa no. Mi riferisco ai luoghi che sono stati evacuati nel 1948. Di questi villaggi e città si possono vedere le rovine nei parchi nazionali o si possono notare case arabe a Gerusalemme o Beer Sheva. Gli abitanti ci sono ancora, ma non gli è consentito tornare.

Per me si tratta di una sola area che va dal mare Mediterraneo al fiume Giordano, attualmente controllata unicamente da Israele che esercita la sovranità su tutta questa superficie e che tratta in modo diverso i 7 milioni e mezzo di palestinesi e i 7 milioni e mezzo di ebrei che vivono nell’area. Per me quest’entità, Israele-Palestina, è anche parte della soluzione. Non so come si chiamerà, qualcuno dovrebbe inventare un nome, ma dovrebbe essere un luogo in cui tutti possano vivere in libertà, dignità e uguaglianza, compresi i profughi palestinesi.

C’è qualcosa di possibile da fare per delle donne che scelgano di mettersi in dialogo?

Molte delle dinamiche violente che avvengono in Israele-Palestina sono imbevute di una tossicità maschile: militarismo, abuso di potere, uomini armati che commettono abusi su moltissima gente. Quindi sì, le donne, sia qui che nel resto del mondo, dovrebbero avere un ruolo più forte, in modo tale da interferire in queste dinamiche, arrestarle. Credo che questo faccia parte del discorso sull’introduzione delle sfumature, penso che a volte le persone confondano le sfumature e il pragmatismo con la mancanza di saldi principi. Se credi nel cambiamento, devi compiere dei passi affinché accada, anziché startene a declamare principi che vorresti vedere apparire magicamente nel mondo. Puoi anche fare così, buona fortuna, ma non aiuterai nessuno. Le donne hanno l’opportunità di riconoscere le sfumature ed essere davvero pragmatiche: cosa posso fare io? Come posso migliorare le cose? In Europa c’è moltissimo che si può fare, la situazione è così polarizzata, penso ci sia l’opportunità di avere delle conversazioni coraggiose, cercando di riconoscere e incarnare l’umanità di tutti e tutte. Il tipo di solidarietà che cancella l’altro non è di grande aiuto, e così non lo è la propaganda che cancella l’altra parte. Esiste l’opportunità di abitare una sorta di spazio di umanità.

Osama è docente universitario e ha continuato a insegnare anche quando le lezioni sono state spostate online, la vostra famiglia vive a Ramallah. Qual è la vostra routine?

A casa nostra ci sono tre lingue: io parlo ai nostri figli in ebraico, Osama in arabo e io ed Osama usiamo l’inglese tra di noi. I bambini rispondono in inglese oppure in arabo. Mia figlia parlava in ebraico ma ora ha quasi smesso. È molto bello che queste tre lingue siano vive e presenti, mi dà la sensazione di un porto sicuro, un luogo in cui si possa coesistere in modo molto naturale. Siamo stati fortunati perché la scuola dei bambini è rimasta quasi sempre aperta durante la guerra, così abbiamo potuto mantenere una routine anche se ci sono stati anche qui diversi attacchi missilistici dall’Iran, dal Libano, dallo Yemen. I bambini sono consapevoli di quello che sta succedendo a Gaza. Mia figlia, che è la maggiore, ha undici anni, credo che senta una maggiore spinta ad autodefinirsi rispetto alla società in cui vive, non mi stupisce che stia scegliendo di definirsi palestinese e musulmana. Evidentemente, è ciò di cui ha bisogno in questo momento. L’adolescenza segna la necessità di differenziarsi dai propri genitori, lei è in questa fase, chissà dove ci porterà.

Esiste ancora una società civile a Gaza, in Cisgiordania e in Israele?

A Gaza è diverso, lì la popolazione è concentrata sulla sopravvivenza, molto del lavoro è svolto per le organizzazioni internazionali: per esempio, i gazawi fanno da autisti per un’organizzazione dell’Onu; ci sono dottori, operatori sanitari, addetti ai soccorsi che stanno compiendo un lavoro incredibile. A volte guardo i giornalisti e i medici, che da due anni affrontano orrori inenarrabili, un giorno dopo l’altro, eppure continuano a dare aiuto.

Cosa potrebbe succedere in un tempo prossimo?

Purtroppo il cambiamento non avverrà dall’interno: sono pochi gli israeliani che sceglierebbero di rinunciare ai propri privilegi. Potrà succedere con l’arrivo di una nuova leadership palestinese e una pressione internazionale più forte. La mia preoccupazione è cosa rimarrà. Non si tratta di qualcosa che accadrà domani o l’anno prossimo. Ogni giorno che passa ci sono delle perdite terribili: molte persone vengono uccise, altre traumatizzate; stiamo distruggendo le infrastrutture, le persone si estremizzano, diventano più intolleranti, più religiose in modo tribale, sia i musulmani che gli ebrei. Mi preoccupa cosa sarà rimasto della società quando arriverà il momento di raccogliere i pezzi. Ma non ho dubbi che quel momento verrà e dobbiamo fare in modo che sia il prima possibile.

Si ringrazia per la preziosa collaborazione Olga Dalia Padoa, traduttrice di «Maqluba – Amore capovolto».

(il manifesto, 7 agosto 2025)