Altre esperienze e nuovi modi di pensare al corpo
Ilaria Sirito
8 Marzo 2022
Iniziare o, nel caso delle donne della Libreria, ricominciare una riflessione sul corpo è stato più facile a dirsi che a farsi. Come sappiamo, dagli anni Settanta il corpo femminile, nascosto e negato tranne che nell’esperienza della maternità, ha fatto irruzione nella politica per prendersi finalmente voce e spazio.
Eppure, l’espressione essere corpo, utilizzata dalle donne della Redazione a sintetizzare il significato di quella lotta che guardiamo con tanta ammirazione, ci ha lasciate inizialmente interdette, quasi intimorite. Perché?
Siamo nate nella seconda metà degli anni Novanta, cresciute in una società in cui il corpo femminile appariva tutt’altro che tabù: lo vedevamo in programmi tv, di qualsiasi fascia oraria, in lingerie e paillettes, vendere prodotti o rimarcare la presenza di uomini in giacca e cravatta; veniva mostrato senza pietà, era perfino oggetto di battute di alcuni politici.
Non sono tardati i campanelli d’allarme, come il boom di disturbi alimentari dei primi anni Duemila, sintomo di quell’ossessione che gli uomini non hanno mai smesso di avere nei confronti del corpo delle donne: prima negandolo, poi ipersessualizzandolo.
Si è cominciato così a parlare di body positivity, il movimento nato con lo scopo di arginare i disturbi alimentari tra le ragazze più giovani proponendo rappresentazioni di corpi normopeso o sovrappeso nei media tradizionali e nei social media. Un movimento che ha finito per promuovere l’immagine sessualizzata delle donne di ogni peso e misura, né più né meno di quanto avveniva fino a poco prima esclusivamente con le donne snelle e slanciate. Sembra che il messaggio della body positivity sia: “Il tuo corpo è sempre valido, purché sia sessualizzato”.
Forse perché è diventato sempre più difficile immaginare i nostri corpi diversamente.
C’è un altro aspetto inedito nel modo in cui le ragazze della nostra generazione e quelle più giovani vivono il corpo: i social media mettono in atto uno “sdoppiamento” di chi li utilizza, che diventa al tempo stesso attore e spettatore. E così, diversamente da quanto accadeva con la tv degli anni Duemila, le donne sono al tempo stesso le veline e le spettatrici: mostrano il loro corpo e lo guardano da fuori, come lo guarderebbe un uomo.
È interessante come questa stessa dissociazione si ritrovi anche nella sessualità: citando Naomi Wolf in Il mito della bellezza, «Le donne mi dicono che sono gelose degli uomini che traggono molto piacere dal corpo femminile; che immaginano di essere dentro il corpo maschile che è dentro di loro per poter provare che cos’è il desiderio, sia pure di seconda mano».
Noi stesse siamo tentate da questa dissociazione: in fondo, se tutta l’importanza del corpo risiede nella sua bellezza, perché dovremmo riconoscerla? Se il corpo è questo, essere corpo ci spaventa. Non è più liberatorio pensare al corpo come strumento che ci permette di vivere, amare, fare ciò che ci piace?
Siamo state però molto colpite da una provocazione delle donne della Redazione durante uno dei nostri scambi: il nostro gruppo, nato come gruppo di studio di testi femministi, diventato una fonte di scambio essenziale per ognuna di noi, è volutamente separatista. Su che cosa abbiamo basato questa scelta, se non dal presupposto che ad accomunarci, nelle nostre differenze, è proprio il corpo? Da questo punto di vista, considerarlo strumento ci appare riduttivo.
Allora è da qui che vogliamo ricominciare, dalle esperienze che ci ricordano che il corpo è nostro, non di chi lo guarda, che i vissuti del nostro corpo ci permettono di riconoscerci e di costruire insieme: in questo senso, siamo corpo.
Alla luce dei mutamenti del patriarcato e delle false concessioni con le quali tenta di ingannarci, individuare altre esperienze che permettano di inventare nuovi modi di pensare al corpo è la sfida dalla quale ricominciare.
Introduzione alla Redazione aperta di Via Dogana 3 “Ricominciamo dal corpo”, 6 marzo 2022.
Immagine di Giorgia Basch, BilderAtlas