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Pensiamo al luogo in cui siamo ora, la Libreria delle donne di Milano. È uno spazio pubblico, quattro muri e una porta che segnano il confine rispetto al fuori della città. In questa stanza ci sono tuttavia degli apparati che mettono in connessione tra loro una serie di computer e permettono di avere una rete senza fili: le stanze della Libreria sono attraversate dal wifi. Molto probabilmente anche nelle nostre case c’è il wifi. Questo significa che gli spazi pubblici o privati, che fino a pochi anni fa erano ben definiti e inaccessibili, erano aperti su invito o secondo regole stabilite e condivise, oggi sono modificati dalla rete e resi aperti e pubblici, anche se non si vede.

Ogni apparato connesso a una rete ha la possibilità di essere contattato e raggiunto da altri apparati in rete. Ogni oggetto che si affaccia sulla rete ha un nome e un cognome (si chiama indirizzo IP) e può essere conosciuto da tutti gli altri, ci sono dispositivi predisposti per far conoscere i nomi e i cognomi di computer grandi e piccoli, smartphone, tablet. Cosa diventa quindi questo spazio? Non è più solo fisico ma è anche digitale, spazio informativo. L’organizzazione di questo spazio non dipende più solo dal movimento fisico, ora anche le informazioni lo attraversano e lo modificano. In questo momento, Google sa esattamente dove sono e così tutto il mondo potrebbe sapere le coordinate GPS (il punto esatto) della Libreria. Nelle nostre case entrano sempre più oggetti intelligenti: lampadine che si accendono prima che entriamo, frigoriferi che ci mandano la lista della spesa sullo smartphone, assistenti vocali che rispondono alle nostre domande (di solito hanno nomi e voci femminili: Alexa, Siri…).

In questo momento, quasi tutte noi abbiamo un telefono intelligente, uno smartphone: del telefono ha il nome e la funzione, residuale rispetto a tutto il resto. In realtà è un computer grande un palmo costantemente connesso a Internet, impensabile fino a una decina di anni fa e indispensabile una volta che inizi a usarlo. Nelle nostre case abbiamo un computer che, a differenza di qualche anno fa, basta accendere per andare in Internet: niente più modem da avviare, niente più accesso da fare, operazioni vintage che i ragazzini di oggi non sanno immaginarsi. Usciamo a camminare o a correre con orologi che raccolgono i dati delle pulsazioni, della velocità, il numero dei passi, che possiamo consultare con una app o col computer, costruendoci un obiettivo di allenamento o di salute.

Oggi abitiamo un mondo fatto di informazioni, condividiamo un ambiente globale con altri esseri umani ma anche con artefatti ingegneristici che interagiscono con noi (si pensi al braccialetto che misura le pulsazioni e trasmette i dati nel cloud). In altri termini, non è più così netta la distinzione tra la nostra vita on-line e quella off-line, siamo sempre in un presente connesso e addirittura capita che siamo in un luogo fisico e contemporaneamente altrove, proprio attraverso la connessione. È il presente altrove di chi, in metropolitana, sta lì fisicamente mentre guarda Instagram. Internet quindi non è un semplice strumento, ma il nuovo spazio in cui un numero crescente di persone passa sempre più tempo. Un filosofo che si occupa di questi temi, Luciano Floridi, ha inventato il temine onlife che esprime quanto detto finora, ovvero che le tecnologie dell’informazione e della comunicazione (ICT, nell’acronimo inglese) influenzano radicalmente la condizione umana, modificando la relazione di sé con sé, di sé con gli altri e con il mondo che ci circonda: la crescente pervasività delle ICT sfuma i confini tra reale e virtuale. Floridi ha coordinato un gruppo di ricerca su come le ICT abbiano cambiato persone e società nell’epoca dell’iperconnessione ed è stato pubblicato l’Onlife Manifesto. I punti salienti, anticipati nella prefazione, sono questi: la frontiera netta tra reale e virtuale è sfumata; i confini tra uomo, macchina e Natura sono stati erosi; la quantità di informazioni disponibili è aumentata a dismisura; il primato del soggetto ha lasciato il posto al primato delle interazioni.

Credo sia importante conoscere questo testo (scaricabile liberamente sotto licenza Creative Commons), organizzato in sezioni e punti come un manifesto deve essere, perché non abbiamo strumenti concettuali per comprendere le questioni relative alle ICT, che tuttavia sono la nostra realtà. Non avere strumenti per comprendere la realtà porta a paura e senso di inadeguatezza, se non al rifiuto per mancanza di conoscenza e mancanza di senso. È importante anche per un altro motivo: il pensiero delle donne ha già riflettuto su molti dei punti che la realtà iperconnessa pone (fine della modernità, fine del primato del soggetto, organizzazioni gerarchiche e di potere versus relazioni reticolari basate sulla fiducia, controllo/sorveglianza/sicurezza, confine tra pubblico e privato, responsabilità individuale e collettiva, libertà). Ancora, in questa realtà, dove non mancano insidie, ci sono molte possibilità per le donne.

Come abbiamo visto, la rete non è uno strumento, come una bicicletta che uso e ripongo. È la realtà e offre una possibilità di ampliare la relazione. In rete “esserci” significa “essere-con” e la presenza richiede la partecipazione e la condivisione: da un evento ludico, come un concerto o una manifestazione sportiva, a un evento politico come una manifestazione di protesta, persino nei momenti collettivi religiosi, la scena è illuminata da schermi di smartphone e tablet, che servono certamente per documentare “io c’ero” ma anche per condividere con altri, cui offriamo quel presente altrove di cui parlavo poco fa. Questa forma “aumentata” di presenza è vissuta in modo molto efficace dalle donne. In vista di questo incontro, parlavo con Sara Filippelli della Collettiva Femminista Sassari, che nell’ultimo anno ha seguito una influencer in ambito food. Ha verificato che la presenza in rete di questa donna prende il suo senso dalla relazione, poiché mette sé stessa e il racconto dei pezzi della sua vita nei social, avendo in mente una interlocutrice, come se stesse parlando a ciascuna delle sue follower. La relazione che si stabilisce è di fiducia, chi segue una o un influencer riconosce autorità. Naturalmente la consapevolezza che esserci oggi significa condividere, diventa uno slogan facilone se tagliamo via la dimensione mediatica e quella economico-commerciale. Pensiamo al fenomeno Chiara Ferragni, milioni di followers sparsi sui vari social network. Con un ottimo lavoro di squadra e una profonda conoscenza dei social, ha creato un impero e un giro di soldi notevole. La verità che esserci significa condividere diventa uno slogan superficiale se non riflettiamo anche sulla parte in ombra: da dove viene e dove porta l’esibizione di sé? Cosa succede se la condivisione diventa un bisogno ossessivo? Cosa diventa la presenza aumentata, di cui parlavo poco fa, se sono sempre in un presente-altrove? Lo dico a partire da me e dalla mia esperienza con Instagram: ora, ogni foto che faccio col telefonino, ha dietro l’idea che potrei postarla, che potrei mostrare quella parte a chi mi segue, creando un mio personaggio, offrendo a chi mi segue una narrazione particolare di me. Ho in mente anche donne che diventano totalmente altro sui social, che sono sul limite della mistificazione presentandosi come madri perfette, dentro una famiglia perfetta, con un lavoro importante e perfetto (anche gli scacchi nella relazione con figlie, mariti e colleghe diventano un tassello di questa perfezione). Mi chiedo che ne è di quella che Carla Lonzi definiva autenticità, che cosa diventa la propria verità soggettiva.

Ho in mente anche le recenti vicende del gruppo Facebook della Libreria, nato proprio sulla scorta di questo concetto di condivisione: offrire uno spazio di presenza politica e discussione sensata per donne e uomini che fisicamente sono lontani da Milano, o chi è vicino ma trova congeniale lo spazio dei social. Non frequento Facebook, che comunque è parte della realtà, come dicevo, quindi tocca anche me, un po’ come il fatto di non guidare non mi pone fuori da un mondo in cui le auto ci sono e hanno impatti su tutti. Cosa succede se lo spazio di condivisione diventa terreno di conflitti? Come si trasformano i conflitti agiti senza la mediazione dei corpi? Quanto e come gioca l’autorità nell’amministrazione di un gruppo, che ha in mano il potere di ammettere o respingere, bannare partecipanti, dare una direzione alla discussione, seguendo o meno una proposta?

Sono domande che ci portano dritte alla politica delle donne in rete, che è anche la scommessa pionieristica che ha fatto nascere il sito della Libreria delle donne di Milano, diventato maggiorenne quest’anno (ed è diventata una ragazza stupenda, profonda, matura e interessante, si regge sulle sue gambe, senza bisogno delle sue madri, come ogni creatura dovrebbe fare). Il sito si è affacciato per la prima volta in rete il 6 febbraio del 2001, in una notte di passione politica tra due donne, eravamo io e Sara Gandini, chine davanti a un computer, immerse nel codice html (era il web 1.0!). Pionieristico per la sperimentazione del linguaggio, il gioco e l’invenzione: per esempio site amiche e mappamonda sono termini che oggi fanno parte di noi, suonano familiari, sono usati anche da altri. Allora ha voluto dire trovarsi, pensare, progettare, inventare insieme, cercare le mosse politiche giuste per dare alla rete una misura che fosse nostra. Questa è la politica delle donne, trovare il modo per stare con agio lì dove si è, portare lì dove si è la dirompenza di un pensiero e una pratica.

Altre realtà sono state pionieristiche e importanti per il femminismo in rete, per esempio a Bologna il Server Donne e la rete Lilith, con una ricerca importantissima e condivisa anche a livello internazionale che ha portato alla creazione di basi-dati bibliografiche e archivistiche dei documenti delle donne. Sì, perché classificare in internet documenti e dati secondo categorie pensate dalle donne per donne e uomini non è banale né scontato, e soprattutto ce n’è ancora un gran bisogno. Le bolognesi sono state davvero delle pioniere, sono partite all’inizio degli anni ’90 a riflettere su questi temi e mettere in campo alternative. Sto pensando al loro lavoro rispetto ai risultati delle ricerche del motore Google, che allora più di ora nascondeva le donne, letteralmente, non uscivano risultati con le parole declinate al femminile. Hanno quindi messo in linea la macchina femminista “Cercatrici di rete”, un motore di ricerca che aveva l’ambizione di “sputare su Google” come pratica tecno-femminista (è stata Marzia Vaccari a parlarne in questi termini).

Abbiamo appena pubblicato nel sito della Libreria delle donne di Milano un articolo tratto dal Sole 24 ore Dove sono le donne su Wikipedia? Il gender gap della più grande enciclopedia virtuale: sono passati vent’anni e il lavoro da fare è ancora tanto. La voce della rete Lilith è finalmente in wikipedia, quella della Libreria delle donne è incompleta e ogni volta che sottomettiamo revisioni le respingono.

Oggi la tecnologia è andata avanti e il tema grosso non è più quello dei motori di ricerca ma dell’intelligenza artificiale e dei dati. Sto leggendo un libro molto bello, Armi di distruzione matematica di Cathy O’Neil (Giunti, 2017), matematica ed esperta finanziaria. Gli algoritmi sono «armi pericolose, giudicano insegnanti e studenti, vagliano curricula, stabiliscono se concedere o negare prestiti, valutano l’operato dei lavoratori, influenzano gli elettori, monitorano la nostra salute». Sono temi complessi, con implicazioni economiche e di potere.

Il punto è che le ICT sono pervasive e hanno un potenziale enorme. Le imprese e la politica ne vedono le opportunità, anche quelle economiche, tanto che l’Unione Europea ha predisposto qualche anno fa un piano per la crescita con obiettivi da raggiungere entro il 2020. Uno dei punti è l’Agenda Digitale che vuole sfruttare il potenziale delle ICT per la crescita dei paesi membri. Concretamente significa investimenti per le infrastrutture di rete, sviluppo di piattaforme per la fatturazione e il pagamento elettronico, possibilità che dati e programmi della Pubblica Amministrazione si possano parlare (pensiamo al fascicolo sanitario, che raccoglie gli esami, le visite, le prenotazioni, tutte informazioni consultabili anche dal medico di base, accessibili ovunque perché in formato elettronico). C’è anche un tema culturale, di aumento dell’alfabetizzazione, delle competenze e dell’inclusione nel mondo digitale per arrivare a un aumento dell’impegno pubblico dei cittadini, proprio attraverso le piattaforme e i programmi digitali.

Tutto ciò fa capire che quando si parla di ICT si muovono enormi investimenti, di soldi e non solo, e succede su sfera globale: l’Agenda Digitale è stata concepita dopo la grande crisi economica del 2008, come una leva per risollevare l’economia e come possibilità di competere con le grandi potenze occidentali, USA e Giappone, nel digitale.

Se penso a quando ho iniziato io a lavorare nell’informatica, le cose sono cambiate radicalmente. L’ambito di cui mi occupo è ancora molto segnato dalla presenza maschile, ma in generale la situazione è decisamente favorevole per le donne. Non si tratta solo di numeri, di presenza. Si lega tutto alla trasformazione radicale della realtà fatta dal digitale. Se pensiamo al lavoro, il tema delle competenze assume un ruolo centrale: alcuni studi (sempre commissionati dall’Europa) stimano che nei prossimi anni le competenze digitali saranno prerequisito di accesso per l’85/90% delle professioni. Le ragazze studiano di più e meglio e risultano quindi avvantaggiate. Il nuovo spazio pubblico creato dalla rete, di dibattito, di aggregazione, di opinione, è anche spazio economico, che abbatte molte barriere all’imprenditoria e al commercio, anche nei paesi non occidentali. Sono meccanismi del mondo digitale che agiscono sulle donne in modo diverso rispetto agli uomini, come rileva brand eins, una rivista tedesca di business innovativo, ripresa da Internazionale (12/4/2019), diventano nuove opportunità imprenditoriali perché abbassano le barriere di accesso a molti business, che di solito penalizzano le donne. Come sappiamo bene dalla ricerca del Gruppo lavoro della Libreria, cambiare le cose nel “vecchio” mercato del lavoro è complesso e richiede molto tempo, perché si devono scardinare meccanismi antichi. Adesso si è aperto un nuovo mondo, costituito dall’economia digitale, e le donne ne possono essere protagoniste. Nel 2017 l’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo economico (Ocse) ha svolto un’analisi per capire se la trasformazione digitale rafforzerà o indebolirà la posizione delle donne nel mercato del lavoro (Going digital: the future of work for women) prendendo in considerazione principalmente due variabili proprie della digitalizzazione: l’automazione e la maggiore flessibilità nelle modalità e negli orari di lavoro. Come sappiamo, la flessibilità è amica delle donne, innanzi tutto per quello che il gruppo lavoro ha chiamato il doppio sì, la possibilità di tenere insieme lavoro produttivo e maternità, cura affetti. La ricerca ha anche rilevato che dove c’è più flessibilità, diminuisce il divario retributivo tra donne e uomini.

Quali risposte politiche e culturali, è una delle domande su cui la redazione di Via Dogana 3 ci chiede di riflettere oggi. Vedo una possibile risposta nello sviluppo delle competenze nell’ambito ICT, accompagnato da un pensiero sessuato. Cultura umanistica messa al lavoro con la cultura scientifica e pensiero che tiene in conto la differenza sessuale, vedo qui una chiave politica. Per le bambine e le ragazze è importante non solo fruire la tecnologia ma mettersi in un atteggiamento attivo. Per esempio, mia figlia da qualche anno sperimenta il “coding”, ovvero le basi della programmazione informatica, che insegna a “dialogare” con il computer, a dare alla macchina comandi in modo semplice e intuitivo. È un linguaggio, da imparare al pari di altri, perché è la conoscenza e la multidisciplinarietà che possono darci una strada. Ho in mente Eleonora Gargiulo, giovane fondatrice di Wher, l’app che permette alle donne di muoversi in città in maniera più consapevole, premiata alla recente Digital Week milanese. Alla domanda cos’è per te una città a misura di donna, la sua risposta è politica nel senso femminista del termine, consapevole e attivo, non vittimistico, visionario senza essere lontano dalla realtà: «È un sogno, è la visione di Wher, ciò verso cui tendiamo ogni giorno. Una città a misura di donna è una città che tiene in considerazione i modi e i tempi in cui le donne usufruiscono della città, è una città in cui il benessere percepito e la gentilezza – intesa come bellezza dei rapporti umani – vengono valorizzati e realizzati concretamente. Diciamo sempre che se una città è a misura di donna, è a misura di tutti.»


Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3 Fare di necessità libertà, in rete, del 2 giugno 2019