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Il Nobel alla giornalista di lingua russa che ha tessuto trame sonore per raccontare la seconda guerra mondiale nell’ottica delle donne, e ha ascoltato le conseguenze dell’invasione dell’Afghanistan: quella inchiesta le valse l’accusa di avere infangato l’onore dell’Armata Rossa

di Valentina Parisi

Nella cele­bre instal­la­zione di Il’ja Kaba­kov La cucina comu­ni­ta­ria, espo­sta per la prima volta nel 1991, fra­gili pez­zet­tini di carta sospesi al sof­fitto insieme a oggetti di uso quo­ti­diano oscil­la­vano insieme al river­bero delle voci regi­strate di per­so­naggi assenti – gli abi­tanti invi­si­bili di un vec­chio appar­ta­mento sovie­tico in con­di­vi­sione, inca­paci di abban­do­nare quello spa­zio a un tempo sot­til­mente poe­tico e clau­stro­fo­bico di cui erano pri­gio­nieri. Una sen­sa­zione ana­loga è quella che si prova immer­gen­dosi nella trama squi­si­ta­mente sonora e rare­fatta delle opere di Sve­tlana Alek­sie­vic, la gior­na­li­sta di lin­gua russa nata nel 1948 a Sta­ni­slav (ora Ivano-Frankovsk, Ucraina), ma cre­sciuta in Bie­lo­rus­sia, cui è andato il Nobel per la let­te­ra­tura, gra­zie alla «sua scrit­tura poli­fo­nica, un monu­mento ele­vato alla sof­fe­renza e al corag­gio nel nostro tempo». Un Nobel indub­bia­mente ispi­rato da con­si­de­ra­zioni poli­ti­che, che pre­mia la capa­cità di arti­co­lare e ren­dere intel­li­gi­bile all’udito del pub­blico occi­den­tale le voci dis­so­nanti di migliaia di ano­nimi ex inqui­lini di quel gigan­te­sco «appar­ta­mento comu­ni­ta­rio» che era l’Unione Sovietica.

Nella sua con­sueta asciut­tezza, la moti­va­zione for­mu­lata dall’Accademia di Sve­zia coglie alcuni aspetti essen­ziali della scrit­tura di Alek­sie­vic: in primo luogo il suo afflato plu­rale e la sua atten­zione pres­so­ché esclu­siva per le sto­rie degli «umi­liati e offesi» tra­volti dal crollo della civiltà sovie­tica che, nel bene e nel male, era diven­tata con il tempo la loro casa. Una poli­fo­nia, quella orche­strata da Alek­sie­vic, che va intesa in senso let­te­rale, pro­prio a causa della pro­fonda fedeltà dimo­strata (per­lo­mento nelle opere tra­dotte in ita­liano da Ser­gio Rapetti prima per e/o e ora per Bom­piani) a un metodo appa­ren­te­mente ben col­lau­dato: ridurre al minimo la pro­pria pre­senza «espli­cita» nel testo, lasciando quasi esclu­si­va­mente spa­zio ai mono­lo­ghi o ai soli­lo­qui delle per­sone da lei ori­gliate die­tro le quinte, più che intervistate.

Il risul­tato è un ori­gi­nale col­lage di voci nar­ranti in prima per­sona che affonda le pro­prie radici nel dibat­tito mai risolto all’interno dell’intelligencija pro­gres­si­sta russa su come vei­co­lare in forma scritta la cosid­detta vox populi. In par­ti­co­lare – e non è sor­pren­dente, data la sua pro­ve­nienza geo­gra­fica – Alek­sie­vic si rial­lac­cia in maniera dichia­rata all’esperienza tanto inno­va­tiva quanto rimossa di Sof’ja Fedor­cenko, una infer­miera di Kiev che nel 1917, di ritorno dal fronte gali­ziano, pub­blicò Il popolo in guerra, ori­gi­na­lis­simo mon­tag­gio di voci di sol­dati senza nome, perse nel fra­gore della Grande guerra. Adot­tando dopo lun­ghe ricer­che sti­li­sti­che quello che defi­ni­sce «il genere let­te­ra­rio delle voci umane», e citando espli­ci­ta­mente il libro di Fedor­cenko tra le fonti da cui ha tratto ispi­ra­zione, Sve­tlana Alek­sie­vic sem­bra chiu­dere ideal­mente il discorso sulla vox populi aperto dalla infer­miera ucraina. A distanza di quasi un secolo l’occultamento con­sa­pe­vole dell’io auto­rale (guarda caso, in entrambi i casi, fem­mi­nile), che arre­tra a un tempo colmo di pudore e sgo­mento di fronte alle testi­mo­nianze rac­colte in prima per­sona, con­ti­nua a essere per­ce­pito come garan­zia di fedeltà al vero.
Que­sto ten­ta­tivo defi­nito da più parti «uma­ni­sta» (ma che forse sarebbe più cor­retto ribat­tez­zare «illu­mi­ni­sta») di riflet­tere una imma­gine ogget­tiva dei cam­bia­menti in corso all’interno della società al di là di ste­reo­tipi e sche­ma­ti­smi ideo­lo­gici, accom­pa­gna l’autrice fin dagli esordi, vale a dire dal primo libro Ja uechal iz dere­vni (Ho lasciato il vil­lag­gio, una rac­colta di mono­lo­ghi dedi­cata al tema dell’inurbamento) che negli anni Ottanta valse alla redat­trice della Sel’skaja gazeta di Minsk (Gior­nale agra­rio) la repri­menda del Par­tito comu­ni­sta bie­lo­russo, cui peral­tro Alek­sie­vic non era iscritta.

Mag­giore for­tuna si gua­da­gnò il «romanzo di voci» U vojny ne zhen­skoe lico (La guerra non ha un volto fem­mi­nile, tut­tora ine­dito in ita­liano) che, dopo essere rima­sto a lungo «con­ge­lato» in casa edi­trice, uscì prima su rivi­sta e poi in volume, gra­zie al «disgelo» cul­tu­rale pro­mosso da Michail Gor­ba­chev. Affiora qui per la prima volta un tema cui Alek­sie­vic tor­nerà di fre­quente nel corso degli anni, vale a dire la guerra osser­vata da una pro­spet­tiva stra­niata, o quan­to­meno assai lon­tana da quella della reto­rica patriot­tarda. Nel caso in que­stione – di nuovo, in sin­go­lare filia­zione con Fedor­cenko – si tratta del con­tri­buto fem­mi­nile al secondo con­flitto mon­diale (o Grande Guerra Patriot­tica, secondo la dizione russa) e del para­dos­sale destino di migliaia di donne sovie­ti­che, car­ri­ste, avia­trici o sna­j­perki (tira­trici scelte), le quali nell’immediato dopo­guerra fini­rono per scon­trarsi dolo­ro­sa­mente con le aspet­ta­tive della società patriar­cale, che dopo aver sfrut­tato il loro sacri­fi­cio, pre­ten­deva che tor­nas­sero ex abrupto a ruoli più tra­di­zio­nal­mente «fem­mi­nili»: «Non ci sape­vamo vestire, truc­care, né muo­vere, la nostra gio­vi­nezza era tra­scorsa al fronte, e le altre ci davano delle pro­sti­tute, per­ché ave­vamo com­bat­tuto fianco a fianco con gli uomini».

Lodato da scrittori-reduci come Bulat Oku­d­z­hava, La guerra non ha un volto fem­mi­nile aprì una nuova pagina nella per­ce­zione del secondo con­flitto mon­diale in Unione Sovie­tica ed ebbe una straor­di­na­ria riso­nanza anche nelle sue ridu­zioni teatral-cinematografiche – il tea­tro Na Taganke, ad esem­pio, cele­bre per il suo orien­ta­mento pro­gres­si­sta, decise di cele­brare il qua­ran­ten­nale della fine della Seconda Guerra Mon­diale pro­prio con una messa in scena dell’omonima pièce. Meno for­tu­nato fu Ragazzi di zinco (1989), pub­bli­cato da e/o nel 2003 e cen­trato sulla «guerra sporca» in Afgha­ni­stan. Per scri­verlo Alek­sie­vic si recò al fronte e viag­giò per cin­que anni per l’Unione Sovie­tica, rac­co­gliendo le voci di madri e sorelle di caduti (non­ché dei reduci stessi), e ripor­tando alla luce sto­rie agghiac­cianti di alie­na­zione ed esclu­sione sociale, che sto­na­vano deci­sa­mente con la vul­gata cor­rente. Al punto che la gior­na­li­sta fu accu­sata di aver infan­gato l’onore dell’Armata Rossa e venne pro­ces­sata a Minsk nel 1992.

L’anno suc­ces­sivo uscì Incan­tati dalla morte (e/o, 2005), prima opera post-sovietica, dedi­cata all’ondata di sui­cidi che accom­pa­gna­rono la caduta dell’Unione Sovie­tica. Un tema che riaf­fiora anche nella parte cen­trale di Tempo di seconda mano (tra­du­zione di Nadia Cico­gnini e Ser­gio Rapetti, Bom­piani, 2014), testo lie­ve­mente più sfi­lac­ciato dei pre­ce­denti, in cui l’autrice rinun­cia in parte alla sua invi­si­bi­lità, e rende più espli­cito il desi­de­rio – messo in luce anche dagli acca­de­mici di Sve­zia – di eri­gere una sorta di «monu­mento a una civiltà per­duta» (que­sto il titolo di un’altra instal­la­zione di Kaba­kov). Civiltà, quella sovie­tica, che aveva ini­ziato ad andare in pezzi la notte del 26 aprile 1986 con l’esplosione del reat­tore della cen­trale elet­tro­nu­cleare di Cernobyl’.

In Pre­ghiera per Cer­no­byl (1997, il testo che le per­mise di affac­ciarsi per la prima volta in Ita­lia, allor­ché e/o lo pub­blicò nel 2002) Alek­sie­vic docu­menta gli effetti spa­ven­tosi che la più grande cata­strofe tec­no­lo­gica del XX secolo ha avuto nel lungo periodo sulla popo­la­zione locale, tra il silen­zio col­pe­vole delle auto­rità, la rimo­zione siste­ma­tica del disa­stro e il col­lasso, da lì a breve, di qual­siasi forma di tutela sani­ta­ria o sociale.

Baste­rebbe pas­sare in ras­se­gna i temi affron­tati da Sve­tlana Alek­sie­vic nei suoi libri per capire che il Nobel a lei attri­buito è un sasso lan­ciato con per­fi­dia nella sta­gno della poli­tica cul­tu­rale di Putin. A giu­di­care da una fugace incur­sione nel web russo, non è affatto da esclu­dersi una stru­men­tale quanto para­dos­sale appro­pria­zione in chiave nazional-popolare della sua figura: molto tempo è pas­sato da quando, con meriti tutti diversi, l’ultimo autore di lin­gua russa, Iosif Brod­skij, rice­veva il pre­mio, nell’ormai lon­ta­nis­simo (e sovie­tico) 1987.