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Questa non è un’intervista recente, ma per quello che viene detto riteniamo si inserisca molto bene nelle riflessioni attuali sulla relazione di differenza. (Redazione del sito)

La cultura di Luce Irigaray, pensatrice della differenza.
La ricerca di una filosofia a due soggetti per un incontro senza dominio. Esiste un’altra logica che si oppone a quella del neutro universale.

Da l’Unità – Bruno Gravagnolo intervista Luce Irigaray

Pensare la “differenza”. E’ dai primordi del pensiero che l’Occidente ci prova. Il problema se lo ponevano i presocratici, che tentavano, con Talete, Anassimandro e Anassimene, di ridurre a un medesimo principio la
varietà degli elementi naturali: terra, acqua, aria, fuoco. E addirittura ricavando una “mente”, con Anassagora, dal molteplice fisico. Anche Parmenide si imbatteva nello scoglio, quando con gesto logico maestoso cancellava il “non-essere”. Ribadendo pero’ in negativo l’”alterità”, proprio nel proclamare l’Essere. Se Eraclito faceva viaggiare il Logos nel fiume del molteplice, Platone, nel celebrare l’Eterno-Tutto, cercava di salvarne le “parti”, magari come sue “ombre dileguanti”. E Aristotele? Lui ci ha dato il principio di “non contraddizione”: A non è B, e quando è B, allora non è A. Tutto risolto? Magari! Perchè dal dilemma non si esce. Infatti da sempre nella storia del pensiero, la relazione, e dunque l’unità, minaccia le “differenze”. Che poi per esser tali vanno paragonate, relazionate. Incantesimi millenari del pensiero, reiterati, riformulati. Oppure rifiutati. Ad esempio da quanti come Nietzsche e Heidegger han
contestato la prigione identitaria della logica, rifiutando il “sillogizzare” che ingabbia il “non-identico”.
Sarà forse per questo che il moderno pensiero femminile sente affine quel “rifiuto”. Perchè ci trova una strada alternativa al “pensiero maschile”. E in base all’assunto che vi è un’altra “logica”. Quella “differenziale” ostile all’”universale neutro” che salva i soggetti diversi: in primo luogo il “soggetto femminile”, nel segno della radicale alterità.

Ma è poi possibile questo “gesto di pensiero”? E che significa? E quale la sua mira finale? E l’enfasi sul “femminile” non e’ un’altra “astrazione”? Per cercare di capirlo non c’è che da sentire una pensatrice storica della “differenza”. Una tra le prime a teorizzare quel “gesto”: Luce Irigaray, francese. Autrice di “Speculum”, “Etica della differenza sessuale”, “Amo a te” e altri scritti segnavia del femminismo radicale. E’ in Italia per una serie di conferenze che la porteranno da Firenze a Pordenone: a cominciare da quella di oggi pomeriggio – a cura del Gramsci – nella Sala fiorentina del Montepaschi Siena. Intitolata: “La lotta delle donne: dall’eguaglianza alla differenza”.

Bruno Gravagnuolo: Signora Irigaray, il concetto di “differenza” in sé e per sé, è qualcosa di molto logico e astratto. Nel pensiero femminista vuole essere qualcosa di molto concreto. Un rovesciamento del pensare e del fare. Ma, esattamente, cosa vuol dire pensare “a partire dalla differenza”?
Luce Irigaray: Rispondo a nome mio, non posso parlare a nome delle altre. Per me la differenza presuppone un mutamento radicale di cultura. Per questo è così difficile intendersi. Per secoli abbiamo vissuto in una cultura a soggetto unico, e, non a due soggetti. A questo soggetto unico corrispondono oggetti e costruzioni logiche che privilegiano la logica dell’”identità” e del “medesimo”. Passare all’epoca della differenza significa passare a un soggetto doppio. Ed entrare in una cultura coerente con questa
duplicità di fondo. Accordata a valori inseparabili dalla dualità di genere.

B. G.: Lei dice: la cultura fin qui è stata solo maschile. Ciò può valere per il costume, le leggi e la mentalità. Ma io e lei comunichiamo, usando meccanismi universali. Dunque, c’è qualcosa di universale che permane. Non le pare?
L. I.: Cerco di comunicare con lei, ma ciò non elimina la differenza di genere. Che affiora sempre. Lavoro da anni sul linguaggio. Con campionature eseguite su lingue e culture diverse. Quel che emerge è che uomini e donne non parlano affatto allo stesso modo. Se chiedo a ragazzi e ragazze di comporre frasi per esprimere relazioni, usando ‘io/tu”, “condividere”, “amare”, “lei/lui”, viene fuori una reale diversità tra i sessi. I ragazzi privilegiano il rapporto soggetto-oggetto, l’uno-molteplice, la relazione con lo stesso o il medesimo. E poi la verticalità, cioe’ la genealogia e la gerarchia. Le ragazze privilegiano invece la relazione tra soggetti. La relazione a due, la relazione nella differenza, e orizzontale…

B. G.: Lei vuoi dire che le donne privilegiano l’emotività, l’immaginario, l’intuitività concreta?
L. I.: No. Questo è il suo modo – e con le sue categorie – di intendere il mio discorso. Non è quel che io dico. Nella filosofia occidentale, quando si affronta il tema della relazione con altri, al centro c’è quasi
sempre il rapporto tra soggetto e oggetto, oppure il predominio logico del legame uno-molteplice. Non è in gioco la maggiore emotività della donna o l’immediatezza del “femminile”. A livello logico – da un punto di vista femminile – quel che viene privilegiato è invece l’intersoggettività.
La relazione a due, con l’altro. Contro l’idea di un individuo isolato, autosufficiente e astratto. E a favore di una soggettività che si relaziona all’altro orizzontalmente.

B. G.: Non c’è a suo avviso una sintassi cognitiva comune a uomini donne?
L. I.: No, e lo riscontriamo grazie all’esistenza di lingue con sintassi diverse da quella occidentale. Lingue che non privilegiano la costruzione soggetto-predicato o soggetto-oggetto. Bensì il nesso
soggetto-soggetto. Non esiste una unica sintassi universale, come quella ipotizzata da Chomsky.

B. G.: Per lei il femminile è addirittura un principio logico a sé, e non una specifica indole esistenziale o biologica dell’umano?
L. I.: La differenza di genere non è, come si è creduto nel passato, solo biologica. E neanche, come si crede spesso oggi, fatta soltanto di stereotipi sociali. E’ anzitutto una differenza di identità relazionale. Verificata, come già detto, dalle analisi sul linguaggio.

B. G.: Che cosa comporta questa visione, sul piano del sentire e del pensare? Essa riguarda solo le donne, o anche gli uomini?
L. I.: Nel mio lavoro ci sono tre tappe. La prima riguarda la critica di una cultura a soggetto unico. La seconda, la definizione di mediazioni per la costruzione di un’identità femminile autonoma. La terza tappa, quella che mi interessa di più, è la ricerca di un cammino per la convivenza a due. Tra uomini e donne.

B. G.: Immagina questa convivenza come alleanza, o come ineliminabile conflitto?
L. I.: Immaginare un’alternativa secca tra le due dimensioni sarebbe ingenuo. Non si tratta di restare in una conflittualità semplice e senza fine. Piuttosto occorre pensare a un’alleanza fondata sul riconoscimento di uno spazio negativo e insuperabile tra i sessi. Che custodisca la differenza. Significa: “Io non sarò mai te, né tua”, e viceversa…

B. G.: Non crede che questo discorso valga in generale per il rapporto fra tutti gli individui, uomini o donne che siano?
L. I.: No. Non allo stesso livello. Una vera cultura della differenza, all’altezza del tempo, deve includere la dialettica di relazione tipica del soggetto maschile. Quella tipica del soggetto femminile. E infine una
terza dialettica. Quella che include la relazione tra soggetti maschili e soggetti femminili. Nella differenza.

B. G.: Ma, se una relazione tra differenze è pur sempre possibile, non riemerge così un legame neutro e universale, anche se piu’ ricco?
L. I.: Attenzione, perchè nel caso di una cultura della differenza non c’è più un individuo universale e neutro. La base dell’universalità si trova nella relazione tra due soggetti diversi. E abbiamo bisogno di tale
relazione tra diversi. Non solo in vista della liberazione femminile, ma anche nel quadro più ampio della civiltà multiculturale e multietnica. Anche se poi la relazione tra diversi, quella più universale e
fondamentale, rimane pur sempre la relazione uomo-donna.

B. G.: Lei ritiene quindi, che maschile e femminile siano due mondi radicalmente differenti, ciascuno con il suo mondo simbolico e il suo linguaggio specifico?
L. I.: Sì, ed è una ricchezza dell’umanità. E’ ciò che caratterizza l’umanità. E’ solo a livello dei bisogni che si può pensare a un mondo neutrale. A livello del desiderio, che possiamo pensare come caratteristica dell’umano, la differenza uomo-donna sussiste sempre. E richiede una negatività che marca il limite di ciascuno, e che consente l’incontro. Senza dominio o consumo dell’altro. Per giungere ad una nuova maniera di relazionarsi. Non ancora raggiunta dalla nostra civiltà.

B. G.: Che cos’è per lei il “maschile”, guardato dall’angolo visuale del pensiero della differenza?
L. I.: Cerco di non farmi troppe idee a riguardo. Per non cadere di nuovo nell’ideologia. Quale sia l’identità maschile ho cercato in qualche modo di dirlo prima. In base all’analisi del linguaggio. Per il resto, mi
aspetto dagli uomini che loro stessi ripensino la loro soggettività, fuori dall’universale neutro. Ciò che posso auspicare è che la differenza tra sessi sussista. Perche’ è la fonte del pensiero e della creativita’…

B. G.: Entrare nel pensiero della differenza sarebbe come travalicare il pensiero logico occidentale?
L. I.: Andare oltre la metafisica occidentale è un gesto già richiesto da Nietzsche e Heidegger. Spero sia possibile, grazie a una filosofia a due soggetti, rispettosi delle reciproche differenze. Una filosofia che non
cancelli la singolarità. E dove il “Noi” sia, ciascuna volta, una relazione nella diversità. Per raggiungere questo, occorre ripensare la relazione genealogica. La donna non può cancellare la genealogia materna, e
neanche limitarsi a fare come la madre, o all’opposto di essa. L’uomo non può rimuovere la sua nascita materiale, a favore di un’origine soltanto culturalmente costruita.

B. G.: E il padre, che fine fa in questo percorso che non rimuove la madre?
L. I.: Invece di rimuovere la madre, creando una cultura scissa dalla corporeità, perchè l’uomo non ha assunto la sua identità maschile? Meglio essere in due. Per generare cultura e bambini fatti da due. Senza
scissioni tra natura femminile e cultura maschile. Non è meglio essere in due?