Grazie a lei. Ti racconto la mia femminista
Doranna Lupi
25 Novembre 2024
Da Marea
Nel 2017 la rivista Marea ha inaugurato, su proposta di Rossana Piredda, una nuova e originale serie di numeri speciali, “Grazie a lei”. Un esperimento ben riuscito che ha contribuito a preservare la memoria del femminismo, offrendo uno spazio alle autrici per celebrare le donne che le hanno ispirate. Attraverso i loro racconti personali, abbiamo potuto conoscere donne che hanno lasciato un’impronta indelebile nella loro vita e nella società, infondendo forza e autorevolezza. Otto numeri speciali, 76 storie nate dalla gioia della riconoscenza, che rendono omaggio a donne che ci hanno precedute o ancora in vita. Un invito a ringraziarle per il loro contributo, mantenendo viva la loro eredità.
Quante donne dovrei ringraziare per essere quella che sono? Una donna che ama la vita e accetta di attraversarla nella sua complessità.
Primo fra tutti un grazie va a mia madre, Giuseppina Operti, che mi ha messo al mondo a venticinque anni. Desiderava tanto una femmina e sono arrivata io. Negli ultimi anni della sua vita, lasciandosi alle spalle i tratti un po’ severi e riservati della sua piemontesità, mi ha rivelato: «Quando la levatrice ti ha messo tra le mie braccia mi sembrava di sognare!». In quel momento ho percepito quale fosse l’origine del mio amore per me stessa, della mia preferenza per l’amicizia femminile, della fiducia e ammirazione che nutrivo per le maestre. Quando ogni cellula del tuo corpo sprigiona il desiderio e la gioia di tua madre per averti generato, le fate madrine depongono quel brillio nello scrigno del tuo essere, la stanza segreta che è dentro ognuna di noi. E così porto in me una sorgente di desiderio e di amore che illumina i miei passi, orientandomi principalmente verso il mondo delle donne con gratitudine.
Nel femminismo ho ritrovato questo sentimento di valore, ammirazione e fiducia, molto diverso dal fascino provato in gioventù per gli uomini che mi seducevano mettendomi in scacco, come una replicante di mondi estranei oppure silente e alienata in un limbo d’inconsistenza.
Se penso alle donne della mia vita si fa avanti un corteo in cui sfilano, al seguito di mia madre, le nonne e le zie che mi hanno coccolato da bambina, le mie maestre di scuola. E poi Anna Garelli, Pinuccia Corrias, Elena Fogarolo, Aida Ribero, Adriana Sbrogiò che mi hanno introdotto alle pratiche del femminismo fin dagli anni Ottanta; Luisa Muraro che mi ha insegnato l’autorità femminile nell’agire politico; le tante donne dei Gruppi donne delle Comunità cristiane di base e le molte altre con cui ho condiviso il percorso di ricerca di un divino leggero, liberato dalle gabbie patriarcali; le mie migliori amiche Grazia Villa e Carla Galetto, sorelle d’anima; Maura e Simona le mie sorelle di sangue e la bella matrioska creata con le mie figlie Valeria e Francesca da cui è nata Virginia, l’ultima arrivata. Ma in questa occasione desidero dedicare il mio “grazie a lei” alla donna che in ordine di tempo e solo momentaneamente chiude il corteo: Luciana Tavernini.
L’ho incontrata la prima volta l’8 giugno 2014 durante la redazione allargata di Via Dogana, storica rivista della Libreria delle donne di Milano. Carla Galetto e io eravamo state invitate dalla filosofa Luisa Muraro a raccontare la nostra storia nei Gruppi donne delle Comunità cristiane di base, in quelli che non sapevamo ancora sarebbero stati gli ultimi due numeri della rivista nella sua forma cartacea. La redazione si teneva di domenica mattina mentre il sabato sera era dedicato agli incontri in libreria. In quell’occasione tra le donne presenti, per noi ancora in gran parte sconosciute, si fece avanti Luciana, determinata, sguardo attento e concentrato, molto diretta che, con gentilezza, andò subito al sodo: «Ho una casa molto spaziosa e ora che mia madre non c’è più e i figli hanno preso la loro strada, se le prossime volte volete venire il sabato, potete dormire da me». Aveva pronunciato quelle parole con la naturalezza di chi mantiene salda la dimensione umana dell’ospitalità. Ma c’era qualcosa di più. Questa prima mossa di Luciana mi ha toccata a un livello profondo. Esprimeva un grande amore per la pratica politica delle relazioni tra donne, il desiderio di generare insieme qualcosa di bello e di grande e la consapevolezza che il pensiero trae energia dal fare insieme. Perché questo accadesse, sapeva creare agio attraverso la concreta cura dei corpi, degli spazi e dei tempi necessari per l’incontro, mostrando sapienza nell’arte di tessere relazioni.
Non la conoscevo ancora, anche se avevo letto alcuni suoi interventi nelle pubblicazioni dell’associazione Melusine, di cui aveva fatto parte negli anni ’90, e in quelle della Pedagogia della differenza a cui aveva partecipato fin dall’inizio, della Comunità di pratica e riflessione pedagogica e ricerca storica, confluita nella Comunità di storia vivente. Scriveva su alcune riviste come Via Dogana, Duoda, Legendaria e con Marina Santini aveva pubblicato Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova 2015), una narrazione storica e dialogica del femminismo intrecciata a 58 testimonianze delle protagoniste dei fatti narrati e a un centinaio di fotografie.
Ho capito, leggendo il suo primo racconto di storia vivente, Gli oscuri grumi del disordine simbolico (La pratica della storia vivente DWF n. 3, 2012, pp. 35-45), da dove venisse la sua munificenza. Come lei scrive è «la capacità di capire cosa far circolare in un’abbondanza sotterranea che lega le vite e le rende degne di essere vissute». È un’eredità ricevuta dalla sua genealogia materna. Sua nonna e sua madre che, nonostante le ristrettezze economiche, «avevano sempre qualcosa da offrire a chiunque passasse da casa» e sapevano anche vedere le situazioni difficili inventando modi per «tendere la mano senza farsi travolgere e riuscendo a riportare a galla chi stava per essere sommerso». Anche Luciana sa donare ciò che è necessario e offrirlo generosamente, non per aver qualcosa in cambio ma per nutrire e far crescere «in una circolarità di attenzione, di gratuità e di parola».
L’occasione per iniziare a fare amicizia si presentò più avanti quando Carla Galetto e io le rivolgemmo una richiesta specifica. Nel Collegamento dei gruppi donne delle Comunità cristiane di base italiane e delle molte altre era nata l’esigenza di raccontare il nostro percorso trentennale fatto di ricerca teologica, politica, riappropriazione di espressioni liturgiche, coinvolgimento dei corpi, avendo come punto fermo la coscienza dell’essere sessuate e il partire da sé. Volevamo raccontare l’intreccio tra la storia personale di ciascuna nel proprio contesto e l’eccezionale esperienza comune nata da quelle singole storie.
Alcune di noi avevano sentito vicina alla propria ricerca la pratica sperimentata dalla Comunità di storia vivente di Milano, nata da un’invenzione di Marirì Martinengo. Una pratica di donne in relazione che si erano autorizzate a narrare la storia, partendo dal loro sentire profondo per indagare nella loro vita i nodi che non avevano ancora trovato parole corrispondenti alla propria verità soggettiva e rendere così visibile nel mondo l’esperienza femminile. Luciana era una delle iniziatrici di questa esperienza. Accettò subito la nostra richiesta e iniziò con noi un proficuo confronto, sfociato in un incontro alla Libreria delle donne di Milano tra una parte del Collegamento donne CDB e le molte altre e la Comunità di storia vivente di Milano, e successivamente nella nascita della nostra Comunità di storia vivente in faccia al Monviso. Ci ha accompagnate mentre muovevamo i primi passi, assicurandoci con Marina Santini una presenza costante.
Ho ancora in mente i mantra delle sue esortazioni, delle sue domande incalzanti per approfondire i nostri racconti. «Non stare in un recinto! Tieni sempre tutto aperto finché arrivi a un nucleo. Domandati se ciò che fai è un atto di libertà o ti incatena. Quanto gioca il voler essere perfetta e rassicurante? Dove va la libertà femminile? Dove è il tuo godimento? Ciò che fai non diventa in qualche modo un rafforzamento del patriarcato? Stai ai limiti che ti vengono imposti o li forzi?»
Per Luciana districare i nodi del nostro vissuto significa liberare soggettività femminile e mostrare altre possibilità di leggere il mondo. In questo impegno di creare simbolico femminile inventava pratiche in cui far circolare in abbondanza la valorizzazione di ciascuna e far nascere scoperte impreviste, rendendo vive le pratiche politiche del femminismo.
Uno dei doni racchiusi nel mio scrigno segreto è lo stupore che provo di fronte alla bellezza e alla grazia che mi vengono incontro nel presente, nel qui e ora. La “meraviglia” che genera gratitudine e fiducia, dando origine a potenti alchimie relazionali.
Così è nato il mio desiderio di affidarmi a lei per un pezzo di strada.
Con Luciana ho sperimentato la “pratica di scrittura relazionale generativa”, come lei la nomina, una pratica in cui una donna elabora il suo scritto in una relazione duale con un’altra a cui riconosce autorità che l’aiuta a chiarire il suo pensiero e dargli forma. «Una relazione simile a quella della partoriente e della levatrice, che permette di dare alla luce qualcosa di nuovo per entrambe». Una pratica che non crea dipendenza ma crescita e libertà.
Tra noi due ci sono stati incontri, anche virtuali, mail, lunghe telefonate, in un confronto serrato sui miei testi da lei discussi e rivisti più e più volte e da me riscritti più e più volte, e un coinvolgimento in azioni pubbliche su temi politici condivisi, per esempio l’abolizione della prostituzione, raccontata dalle sopravvissute al mercato del sesso, come stupro a pagamento.
Le sue parole, i suoi pensieri mi hanno aperto spazi inediti, mi hanno dato fiducia. Con lei ho imparato che è importante andare oltre il linguaggio ideologico, che può essere anche femminista, cercando parole più chiare per dire ciò che illumina la mia esperienza; ho approfondito il valore simbolico del linguaggio e l’effetto liberante che possono avere le parole quando riesco a esprimere pubblicamente la mia verità.
Per tutto questo desidero ringraziarla.
Cara Luciana, mi hai aiutato a ritrovare le parole in lingua materna, che volano alto restando ancorate all’esperienza concreta. Sono ammirata dalla tua generosità, dall’efficacia del tuo fare che realizza idee e progetti, trovando però sempre il tempo e il modo per far crescere le relazioni. Più passa il tempo e più la nostra amicizia mi appare come un dono prezioso.