L’arte della relazione
Giorgia Basch, Donatella Franchi
9 Novembre 2024
Giorgia Basch: Il titolo che abbiamo scelto per questa redazione aperta è “L’arte della relazione” e il perché lo capirete durante il nostro intervento, mio e di Donatella. Non si tratterà di parlare solo a un pubblico specifico, a chi fa parte del mondo dell’arte contemporanea, ma anche a chi fa uso di pratiche artistiche e creative nella vita di tutti i giorni, qualcosa che il femminismo ha fatto e continua a fare anche nella mia generazione. Vorrei anche fare un’altra precisazione: chi viene spesso agli incontri di Via Dogana sa che siamo solite leggere una sorta di relazione, o comunque lavorare su interventi singoli. Con Donatella però, vista la tematica e quello che andremo a discutere poi con voi, abbiamo scelto di mantenere un dialogo tra di noi e di creare una conversazione in cui cercheremo di portare innanzitutto le nostre esperienze, quindi a partire da noi, e poi di dare anche qualche indicazione storico-culturale che è a noi vicina e che pensiamo possa aiutare a introdurre questo tema. Vedremo anche delle immagini, cosa che accade ogni tanto nei nostri incontri, ma devo dire che in questo caso ne avremo molte, e speriamo che possano sostenere la narrazione. Lascio la parola a Donatella.
Donatella Franchi: Grazie. Dichiaro subito la posizione da cui parlo, che è quella di una femminista degli anni ’70 con una gran passione per l’arte e la politica. Le due passioni per me coincidono.
Il fatto di parlare insieme a Giorgia, una giovane donna, mi fa pensare che il femminismo è un movimento che continua a rinascere e ad essere ricreato da ciascuna. Non è un tempo storico, è una ricerca, un modo di stare nel mondo. Ne è una dimostrazione il rinnovato interesse per la figura di Carla Lonzi. In tutti i suoi scritti la riflessione sull’arte e la creatività occupa un posto centrale. È un pensiero generativo che oggi continua ad essere fertile e a dare nutrimento.
Carla Lonzi oggi viene ripubblicata, riletta e rivissuta anche da studiose di storia dell’arte e da diverse artiste. Segnalo due testi particolarmente efficaci: Carla Lonzi, un’arte della vita di Giovanna Zapperi, 2017, e La storia dell’arte dopo l’autocoscienza a partire dal diario di Carla Lonzi di Carla Subrizi, 2021. Il suo pensiero è un punto di riferimento in mostre sulle pratiche artistiche delle donne dagli anni ’70 in poi come Il soggetto imprevisto (Milano 2019), e Io dico io (Roma 2021).
Nella sua premessa a Sputiamo su Hegel (1970) Carla Lonzi dice: «Il bisogno di esprimersi è stato da noi accolto come sinonimo di liberazione». Esprimersi dunque è una azione politica e fare politica coincide con il desiderio. Questa secondo me è la chiave di volta per capire che cosa è stato il femminismo per una donna della mia generazione. Un urgente desiderio di esprimersi che si traduceva in una sperimentazione a tutto campo, a partire dalle nostre vite, per trovare la nostra voce, parole e immagini proprie, libere dalla tradizione maschile. «Non credere più a una liberazione di riflesso fa uscire la creatività dai rapporti patriarcali» (Assenza della donna dai momenti celebrativi della manifestazione creativa maschile, 1971).
Il pensiero rivoluzionario che Carla Lonzi elabora nel suo gruppo di Rivolta Femminile, e soprattutto attraverso il dialogo con Carla Accardi, libera l’atto creativo dal dominio dell’artista restituendolo al vivere e all’agire creativamente, alla vita.
È necessario smitizzare la figura dell’artista che, sentendosi depositario privilegiato della creatività, accentra su di sé la creatività che tutte e tutti in modi diversi possediamo e che è indispensabile per orientarsi dentro la vita. «[…] tutti devono essere creativi, non è immaginabile che si accetti una parte di umanità tagliata fuori» (Taci. Anzi parla, 6 agosto 1972). Qui mi risuonano anche le parole di Anna Maria Ortese, quando dice che “Il fatto creativo” è entrare nel mondo per il verso giusto e non creare è morire (Corpo celeste, pp.55-60). Mettere a frutto il proprio io creativo è necessario come respirare.
La creatività è prima di tutto in funzione della vita ed è nutrita dalle relazioni.
Il gruppo di autocoscienza, per tante della mia generazione, è stato uno spazio di relazioni creative e un laboratorio di ricerca dove l’espressione di una trovava echi e risonanze nell’espressione dell’altra. Nell’atto creativo dell’ascolto veniva rotta la fissità dei ruoli tra chi si esprimeva e chi ascoltava. Erano posizioni intercambiabili (Zapperi, p. 215). Era una pratica d’ascolto che portava a un nuovo modo di esprimersi capace di dare voce alla propria esperienza, e alla rottura di specialismi e stereotipi culturali.
Ho vissuto il femminismo degli anni ’70, e continuo in parte a viverlo, come una pratica creativa che si manifesta in un fare. «Fare il femminismo» diceva Carla Lonzi e Carla Accardi diceva «fare arte». Si inventavano e si aprivano nuovi spazi e nuovi contesti di relazioni. Si aprivano le proprie case, dove si incontravano i primi gruppi di autocoscienza, e luoghi come le librerie delle donne, laboratori creativi, spazi espositivi curati dalle stesse artiste.
Nel mio gruppo di autocoscienza ero l’unica che aveva la passione per l’arte e per il fare arte, ma tutte sentivamo l’urgenza di metterci in gioco cercando un modo di esprimerci che non avevamo mai sperimentato. Utilizzavamo la fotografia come pratica di autocoscienza. Erano le fotografie degli album della nostra infanzia, spesso scattate dalle nostre madri e più tardi da amiche e conoscenti, fidanzati, e quelle scattate da noi stesse. Il lavoro che ne è risultato, e che abbiamo chiamato Equilibrismi, consisteva in una riflessione di parole e immagini sui ruoli e i travestimenti che assumevamo nelle nostre vite sotto lo sguardo di chi ci fotografava. Il prendere in mano l’obiettivo significava guardare il mondo dal nostro punto di vista, prendersi la responsabilità del proprio sguardo e creare immagini proprie, fuori dall’imitazione.
La fotografia, come i video, sono tra gli strumenti espressivi più amati dalle femministe tra gli anni ’70 e ’80, come mezzi duttili e immediati che non richiedono una lunga preparazione accademica e possono così rispondere all’urgenza di comunicare liberamente.
Carla Lonzi non amava le artiste sue contemporanee, le vedeva ancora nell’imitazione della tradizione maschile. Incontra quello che non trovava in loro nel mondo delle Preziose della prima metà del ’600. In Armande sono io!conversando con Anna Piva, ci dice chiaramente quello che lei intendeva per arte, proiettandolo nello spazio relazionale delle preziose: La Carte du Pays de Tendre. La carta di Tendre è una mappa dove i paesi e le città portano i nomi di relazioni e sentimenti, sia positivi sia negativi; la città più grande è quella di Nuova Amicizia, e c’è quella della Stima e della Riconoscenza, il fiume che solca il territorio è il Fiume dell’Inclinazione, cioè del desiderio, ma c’è anche il grande Lago dell’Indifferenza. Il territorio è misurato in leghe d’amicizia. Man mano che ci si allontana dal Fiume dell’Inclinazione, si trovano i sentimenti negativi, l’Indifferenza, la Trascuratezza.
Per Carla Lonzi creare un contesto di relazioni è un vero atto creativo, per questo considera delle vere maestre le Preziose, che praticando l’arte della conversazione «portavano sempre più la letteratura (ma si può dire la stessa cosa per l’arte visiva) ad essere in funzione della vita» […] «loro volevano spostare a che il momento più importante fosse questo dell’arricchire il vivere insieme. Arricchirlo, per cui una parola detta, una frase trovata, una serata riuscita era veramente un capolavoro» (Armande sono io! pp. 54-55). Allora, a questo punto, Giorgia, vorrei che tu ci dicessi la tua.
Giorgia: Mi vorrei ricollegare alle Preziose, che tu hai citato, ma con una premessa: ci tenevo a far emergere la pratica relazionale che abbiamo messo in atto io e Donatella per preparare questo incontro. È per me espressione di quella genealogia femminile di cui qui parliamo molto spesso e che credo sia molto importante, soprattutto all’interno delle pratiche creative. Nella mia tesi Conversazione come pratica. Dialoghi tra arte e curatela dagli anni Settanta a oggi ho scritto del rapporto – a volte anche difficile ma spesso fruttuoso – che c’è oggi tra artiste e curatrici, critiche d’arte e pubblico. Se non fosse stato però per quello che voi femministe siete riuscite a creare negli anni ’70, inclusi gli spazi come questo che ancora sono qui fortunatamente, non sarebbe stato possibile per la mia generazione leggere la pratica artistica nel modo in cui sono in grado di leggerla oggi, io come molte altre. Io non sono un’artista, però ci sono molte artiste, e anche curatrici, critiche, editrici contemporanee che ne hanno fatto un uso proprio e ve ne farò vedere degli esempi. Quindi credo che sia assolutamente fondamentale ricordarci della storia che ci ha condotte fino a qui e di come queste pratiche continuino a rivivere e a rinnovarsi anche sulla base di una serie di problematiche sociali, economiche e politiche che ci troviamo ad affrontare nella quotidianità.
Tornando alle Preziose, anch’io sono stata curiosa di capire che cosa le Preziose rappresentassero per Carla Lonzi, ma anche per altre donne che hanno lavorato sulla pratica di relazione. Una di loro è qui presente, è Lia Cigarini – qualche mese fa abbiamo avuto una conversazione sul suo interesse per le Preziose, di cui ha anche scritto, e questo testimonia l’importanza di un movimento apparentemente molto lontano da noi (siamo nel ’600). Le Preziose hanno fatto un lavoro straordinario, assolutamente rivoluzionario rispetto al contesto in cui erano calate, ovvero tra le altre cose creare questi salotti in cui si discuteva di un vero e proprio programma culturale, tra donne ma anche tra donne e uomini. Credo che questo modello in qualche misura ce lo portiamo ancora dietro – c’è ad esempio una teorica viennese con cui ho avuto modo di confrontarmi lo scorso inverno, Elke Krasny, che ha scritto un saggio molto interessante al riguardo, The Salon Model: The Conversational Complex (purtroppo ad oggi solo in inglese) che parla proprio di come la pratica relazionale, il dialogo, la conversazione si possano riportare al centro di una pratica curatoriale, a partire dai salotti delle Preziose. Questo fa proprio parte della creazione e del nutrimento di una genealogia femminile. Non è un caso: credo che anche Lonzi sia ripartita da lì, ne parla molto in Armande sono io, un libro molto interessante anche per com’è costruito, in forma di conversazione. E parlando di conversazione, è un tema che anch’io ho avuto modo di affrontare e mi interessa anche perché molto spesso la conversazione viene vista solo sotto l’aspetto della parola – come dicevi anche tu, Donatella. Tuttavia a volte anche attraverso il linguaggio visivo è possibile creare delle forme di conversazione. Questo mi interessa moltissimo, e ne ho scritto di recente non solo per il mio legame con la fotografia, il video e tutti i mezzi legati alla creazione dell’immagine (lens-based si direbbe in lingua inglese), ma anche perché noi viviamo in una società che è completamente assorbita dal flusso delle immagini – lo scrivevano Guy Debord e Susan Sontag a dieci anni di distanza (rispettivamente nel ’67 e ’77) già mezzo secolo fa, e la loro intuizione si è rivelata essere uno studio importantissimo sul passaggio alla società dell’immagine. Per questo motivo mi interessa come possiamo ripensare quello che è stato scritto e studiato fino ad ora rispetto alla produzione dell’immagine, da un punto di vista di donne e anche di femministe. Il motivo per cui abbiamo scelto di far vedere anche noi delle immagini oggi testimonia di alcuni casi di fotografe che sono riuscite a creare un dialogo attraverso l’utilizzo della fotografia non solo con il pubblico, ma anche all’interno dell’opera stessa. Un esempio che a me piace molto è un lavoro dell’artista britannica Gillian Wearing degli anni ’90, Signs that Say What You Want Them To Say and Not Signs that Say What Someone Else Wants You To Say. Sostanzialmente Wearing andava in giro per Londra, per strada, e chiedeva alle passanti e ai passanti di scrivere su un cartello un loro messaggio, uno stato d’animo; quindi un lavoro fatto nella contingenza. I messaggi erano tra i più disparati, molto spesso anche abbastanza disperati devo dire, e questo le permetteva di entrare in conversazione con i soggetti attraverso l’immagine e il processo fotografico. Quando ho cominciato a ragionare su cosa rappresentasse per lei entrare in relazione con queste persone nel giro di pochissimi minuti, l’ho trovato straordinario. Ed è straordinario anche che ci arrivi un riflesso di quello che lei ha prodotto lì, oggi, con le sue opere. Noi che siamo all’esterno, molti anni dopo, possiamo ancora relazionarci con queste persone leggendo i loro messaggi, però attraverso una fotografia. Tanto per dire che si sono molti modi possibili per entrare in conversazione e che questo potrebbe essere uno.
Un’altra tematica è quella della rigenerazione delle pratiche, della riattivazione di alcune delle pratiche femministe che sono nate negli anni ’70, come quella dell’autocoscienza, oppure la pratica dell’inconscio che è una pratica femminista prettamente italiana, milanese. Ci sono diverse artiste che hanno deciso di riattivare delle pratiche già esistenti. Una di queste è un’artista americana, Carmen Winant, che ha pubblicato nel 2019 con Printed Matter Notes on Fundamental Joy: ha deciso di riattivare un archivio fotografico prodotto in Ohio negli anni ’80 facendone un libro, ora già introvabile, in cui troviamo una serie di immagini che non ha scattato lei benché sia anche fotografa, ma che sono state prodotte durante una serie di workshop chiamati Ovulars e che raccontano l’esperienza di una comune femminista di donne lesbiche separatiste, che hanno vissuto tra donne per molto tempo – avevano rapporti di amicizia, relazioni e si scattavano foto. È un libro molto denso che racconta le loro storie con un testo che scorre lungo tutto il libro, una sorta di testo-poesia, il pensiero dell’autrice sul lavorare a questo archivio da vicino.
Un’altra artista che vorrei citare e che è stata qui in Libreria per sviluppare un suo lavoro video è Alex Martinis Roe, con cui alcune di noi hanno collaborato a stretto contatto, per esempio Laura Minguzzi qui presente. Alex Martinis Roe lavora con il video, l’audio e la performance, e qui come potete vedere abbiamo una foto di lei mentre sviluppa una sua performance a Berlino, Encounters: Conversation in Practice, del 2010. Martinis Roe ha fatto un lungo lavoro sulle pratiche del femminismo e sulle genealogie femminili, tra cui quelle della Libreria delle donne, e ha voluto ridare nuova vita, in un certo senso, al lavoro di pratica politica e relazionale che era stato fatto qui, a partire dall’opera A Story of Circolo della rosa del 2014. Quello che lei fa il più delle volte nelle sue performance è far sedere qualcuno con lei, trascorrerci del tempo e registrare queste conversazioni o prendere nota di quello che succede – e quello è l’atto creativo, quella è l’opera. Questo pone un’altra questione, di cui discussi con lei, quella dell’opera dematerializzata e quindi difficilmente vendibile. Si crea un mercato dell’arte delle donne in alcuni casi, o se vogliamo dell’arte femminista, che è molto, molto lontano dalle logiche di mercato tradizionali, e questo ovviamente pone la sfida dell’essere artista nel neoliberismo, nel mondo contemporaneo.
Passo la parola a Donatella per parlare di alcune scelte radicali rispetto allo stare nell’arte.
Donatella: C’è un andirivieni tra la creatività che è indispensabile per vivere ogni giorno e quella che diventa pratica artistica, la soglia è molto labile. Ho sperimentato questo nella mia vita e nella mia pratica artistica. Preferisco parlare di pratiche artistiche più che di arte.
Nelle pratiche artistiche che trovo più significative, in gioco non c’è l’identificazione in un prodotto ma il processo del ricercare, il lavoro artistico come un divenire che sostituisce l’opera chiusa e definita, dove lo scopo è creare degli spostamenti, anche piccoli che aiutano a mettere in circolo energie e pensiero aprendo vie di trasformazione. Le opere esistono in quanto relazioni, nel loro farsi e divenire più che come oggetti. «Il mio lavoro è una sorta di esca, di richiamo per interrogarsi sulla realtà», dice l’artista americana Martha Rosler.
Oggi si riconosce che il femminismo è il movimento del Novecento che ha più influenzato l’arte visiva. Molte artiste hanno reso l’arte uno strumento di azione nelle loro vite, e oggi assistiamo al fiorire di pratiche artistiche come pratiche sociali e relazionali, e pratiche di resistenza.
Ad esempio, sabato 21 settembre a Bologna c’è stata la “Festa delle strade strette”. Un’iniziativa organizzata da un gruppo di giovani di un laboratorio di serigrafia nella zona universitaria, dove abito. Le strade secondarie della zona, “le strade strette”, sono degradate, soprattutto a causa dello spaccio di droga, che le rende insicure. Il progetto partito dal laboratorio, che ha coinvolto anche una legatoria di tesi di laurea e una piccola galleria d’arte, ha fatto leva sul desiderio di relazioni gioiose e di scambio degli abitanti, di tutte le generazioni. In una delle strade è stata allestita una tavolata lunga molti metri, per un pranzo collettivo con il contributo delle e degli abitanti. Sono stati preparati dei laboratori, frequentatissimi, di stampa, di collage, di rilegatura, colori e carte a disposizione dei bambini/e, musica dal vivo. Il desiderio di convivialità, di mettersi in relazione e la vitalità gioiosa che questa festa mi ha comunicato mi ha fatto pensare che i giovani e le giovani che l’avevano preparata avevano creato un vero capolavoro. Dei giovani e delle giovani che lavorano con l’arte avevano trasformato le pratiche relazionali in pratiche artistiche, in azioni creative di politiche di resistenza. Invece di fermarsi alla protesta per la scarsa presenza delle istituzioni in quella zona degradata hanno creato un esempio di convivenza dove far convergere le energie creative e il desiderio di tutti/e. Una vera azione politica dal basso.
Fare arte è mettere a fuoco il tessuto di relazioni che sorreggono la vita e le permettono di continuare. Questo è il tema centrale del lavoro di molte artiste.
Un’artista che ha creato una vera rivoluzione nel modo di vivere la pratica artistica è la statunitense Mierle Laderman Ukeles. Dopo aver avuto un figlio si sente divisa in due, non riesce a conciliare la cura per il figlio e la sua attività artistica finché, per poter sopravvivere a questa angoscia, prende una decisione: se lei è l’artista sarà lei a decidere che cosa è arte. Qui sento risuonare l’«io dico io» del secondo manifesto di Rivolta Femminile. E infatti nel 1969 Ukeles scrive proprio un manifesto, il suo progetto artistico e politico, il Manifesto dell’Arte della Manutenzione, Maintenance Art, in cui dichiara che è arte prendersi cura della vita e delle relazioni, e l’atto concreto di mantenere curato un luogo. Nel manifesto contrappone l’istinto di morte delle avanguardie artistiche all’istinto di vita che si radica nella quotidianità.
Nelle sue performance vuole mettere a fuoco tutto il lavoro quotidiano che sta alle spalle delle opere d’arte (back half of life) e che permette loro di esistere, rovescia il privato nella dimensione pubblica, intreccia arte e vita in un modo del tutto imprevisto. Nel 1974 in un importante museo statunitense (Wadsworth Atheneum di Hartford) crea una performance dove spolvera gli ambienti, pulisce il pavimento e le scale. Lavorerà poi nella sede degli operatori ecologici di New York ideando una serie di performance dove nell’arco di undici mesi stringe la mano a 8500 spazzini dicendo loro «Grazie di mantenere viva New York».
Giorgia: Questo è un esempio assolutamente geniale, anche se la sua opera purtroppo non è molto conosciuta. Vorrei sottolineare la sua scelta di fotografarsi – è interessante che sia attraverso la fotografia che ci arriva oggi questa performance. Anche questo fa parte di un vero e proprio processo in cui la documentazione ha giocato e gioca un ruolo molto importante per le artiste. Ci sarebbe ancora molto da dire, ad ogni modo spero che nel tempo a disposizione siamo riuscite a dare un’idea di cosa il femminismo ha rappresentato e continua a rappresentare per le pratiche artistiche, e di come poi queste possano diventare anche altro, anche pratiche legate al tessuto sociale e politico. E di come il dialogo, manifesto o meno, sia imprescindibile.