Portare la creatività al lavoro: un pezzo dell’incommensurabilità
Lola Santos Fernández
10 Novembre 2024
Arte, relazioni, creatività, lingua materna, lavoro… sono alcune delle parole che mi hanno interpellata nell’incontro di domenica 6 ottobre.
Durante il dibattito, come questione problematica messa in gioco da Giordana Masotto è venuta fuori la contraddizione che esiste tra trovare uno spazio di creatività nel proprio lavoro e avere una stabilità e una retribuzione adeguata. Sembra quasi che sia necessario scegliere tra l’una o l’altra: o creatività o retribuzione. Come si può provare a negoziare la creatività nel lavoro? Era la domanda che si poneva nella conclusione del suo intervento. Poco dopo è intervenuta Elisabetta Cibelli facendo riferimento alla dimensione incommensurabile della creazione e dell’arte, per poi constatare, appunto, le difficoltà di portarla al mondo del lavoro.
Allora ho pensato che, in realtà forse, può essere proprio attraverso l’arte della relazione e della mediazione che si possono mettere insieme le due cose, prendendo, volta per volta, quella parte della mia creatività che riesco a far entrare nel mio lavoro, qualsiasi esso sia. Certo, ci vuole quell’arte della cura che ci guida nel discernere come rendere efficace ma anche bella la mossa precisa che mette in dialogo le due dimensioni. Quale pezzo della mia creatività può andare bene in quel pezzo del mio lavoro? con quale modalità far incontrare i due mondi? Venendo poi fuori un’opera diversa, nuova, ma forse ugualmente bella. La cura o l’arte delle relazioni, in questo caso, mi permette di scegliere l’aspetto che vorrei accentuare e, che forse proprio quel tipo di lavoro, con quel gruppo di persone e in quel preciso momento, mi permette di veicolare senza rinunce o laceranti alternative.
Se parlo del mio lavoro vi posso dire che, per esempio, l’arte della giustizia di Simone Weil, l’incommensurabile purezza del suo pensiero mi porta sempre più spesso a parlare di lei al lavoro, insegnando alle studentesse e agli studenti delle mie facoltà di scienze politiche e di giurisprudenza, frammenti della sua opera. Mi sono autorizzata a saltare la barriera simbolica del diritto (Clara Jourdan): la barriera di un programma universitario basato sull’ordine normativo del lavoro. Ho voluto tracciare un percorso di genealogia femminile nel diritto che, facendo dialogare i due mondi, mettesse sempre più da parte quello normativo. Sono stata facilitata dalla critica ai diritti di Simone Weil e dal libro, a lei ispirato, Non credere di avere diritti. Trovare con grazia ed efficacia il pezzo dell’incommensurabilità da portare al lavoro è stato un mio momento creativo.
La scommessa più recente è far diventare la scrittura giuridica una scrittura creativa. Per farlo ho voluto cogliere quell’attimo – personale, materiale, relazionale e temporale – in cui posso dirlo con la lingua materna, spostando il linguaggio specialistico o mettendolo da parte, per collocare al centro la lingua materna di Simone Weil e creare insieme a lei la strada di un altro ordine, l’ordine del bene e dell’essere umano. La creazione sta nello spostamento verso «la contemplazione delle opere d’arte autentiche, e ancor di più quella della bellezza del mondo, e ancor più quella del bene sconosciuto al quale aspiriamo, per sostenerci nello sforzo di pensare continuamente all’ordine umano che deve essere il nostro primo oggetto» (Simone Weil, La prima radice, SE, Milano, 1990, p. 20).