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Suscita gioia poter constatare di persona che un filo rosso lega le scoperte nel campo dell’arte degli anni ’70 e le pratiche artistiche di oggi. È ciò che ho provato quando Donatella Franchi e Giorgia Basch hanno introdotto questo numero di Via Dogana 3, L’arte della relazione, in un dialogo a due voci che ho sentito in forte sintonia. Dentro di me hanno trovato un’eco profonda le parole di Donatella quando ha affermato che tutti e tutte hanno un io creativo che devono poter esprimere per stare in un modo sensato nel mondo. Se da un lato le sue parole mi rimandavano a Carla Lonzi, che pensava che non è immaginabile che si accetti una parte dell’umanità tagliata fuori dal fatto creativo, dall’altro lato toccavano un punto centrale nella mia vita: l’esprimersi come atto creativo, come modo di partecipare alla vita comune.

Per parte mia “l’esprimersi” è stato ed è principalmente legato alla scrittura. Devo tuttavia precisare che, da dilettante, mi piace lavorare con le mani e passo del tempo a creare manufatti di vario tipo, come sanno le molte che hanno in casa le mie tovagliette o usano i segnalibri con il nuovo logo della Libreria delle donne di Milano, ricevuti comprando un libro.

La passione per lo scrivere mi accompagna da tutta la vita e sento che le ore passate a cercare le parole sono ore “belle” anche quando sono un tormento… voglio dire con questo che c’è una soddisfazione e un piacere legati all’atto stesso di farlo. Che appaga. Scrivere apparentemente sembra un atto individuale (una lei da sola davanti a un foglio bianco o a un computer) in realtà è profondamente relazionale. Ho sempre cercato una scrittura in cui io fossi compresa, ma che non fosse solo mia. La desidero non solo mia, nel doppio significato di nascere da una interlocuzione e di dare voce a qualcosa in cui altre e altri possano riconoscersi. 

Molte donne della mia generazione – e anche io mi metto tra queste – hanno cercato di riversare nel proprio contesto le scoperte che facevano a partire da sé, ma che erano frutto di tutto il dibattito politico e teorico di quegli anni. Io, allora, mi trovavo a lavorare nella scuola e da insegnante ho pensato che quello che valeva per me, cioè bisogno di esprimersi e scrittura relazionale, potesse valere anche per alunni e alunne. In questo mi sentivo pienamente sostenuta dalle riflessioni di Annamaria Ortese. Per lei l’esprimersi con la scrittura era alla pari con il sopravvivere e in Corpo celeste(1997) afferma che ogni adolescenza ha bisogno di «dare una forma propria, quindi nuova, a ciò che sente» entrando nel mondo. L’Ortese non salva la cultura e le opere letterarie in sé. Infatti dice: «Godere e consumare il bene “prodotto da altri” – l’espressività altrui – sembra buona sorte a chi ha denaro. Non lo è. Necessario non è comprare e godere, ma fare e pensare in proprio. Al ragazzo delle moltitudini come al ragazzo delle minoranze popolari». (p. 93)

Da questo insieme di esperienze personali e pratiche e riflessioni e scambi e ancora pratiche, è nata un’ipotesi di insegnamento della lingua, come ho raccontato in Un’altra possibilità alla vita. La ritengo tuttora capace di operare trasformazioni, perché può orientare ragazze e ragazzi verso bisogni profondi che, per loro natura, sono più veri di quelli di superficie, spesso indotti. Quel testo fa parte di una articolata riflessione sulla lingua e il suo insegnamento, portata avanti nel movimento di autoriforma della scuola sfociata in un convegno e poi in un libro collettivo, Lingua bene comune (2006).

Una concezione dell’arte che abbraccia la vita, offre molti spunti altri di riflessione. Se, infatti, lo scopo dell’arte è «arricchire il vivere insieme» e se creare contesti di relazioni diventa «un atto creativo», questa posizione diventa preziosa per chi porta avanti la politica delle donne. Lonzi ha dilatato l’ambito artistico fino a comprendere anche una «frase trovata», «una serata riuscita» e penso che soffermarsi su questa apertura e metterla in rapporto con la politica delle relazioni, che sostanzialmente è fatta di incontri e di “serate”, possa aprire a spostamenti importanti. 

Considerare una serata un’opera d’arte ci sposta immediatamente dal terreno del potere o della visibilità o della ripetizione: è quasi un antidoto quando le pratiche tendono a contaminarsi con logiche di potere o a essere ripetitive, rischiando di diventare burocratiche. 

Mi è tornato in mente il libro di Wanda Tommasi Ciò che non dipende da me (2016), in cui l’autrice riflette sulla indimenticabile signora Ramsay, protagonista del romanzo di Virginia Woolf Al faro. La considera un punto di equilibrio perché è una figura che tiene insieme un intenso coinvolgimento relazionale e una forte centratura su di sé. Ai due estremi contrapposti sono le protagoniste di altri due romanzi: quella anonima de La Parete di Marlen Haushofer, che rappresenta la totale solitudine e chiusura in sé; e la Monique di Una donna spezzata di Simone de Beauvoir, che rappresenta il dispendio totale di sé nel ruolo di moglie e di madre. 

La signora Ramsay è un personaggio ispirato alla madre di Virginia Woolf e il romanzo è una sorta di omaggio alla sua figura. Quello che qui interessa mettere in luce è che possiede l’arte di tenere insieme in una serata persone molto differenti, di far fluire la conversazione, di offrire cibi ben cucinati. Come padrona di casa, la signora Ramsay conosce l’arte per far sì che una serata sia ben riuscita e ci si può ispirare a lei per riprendere qualcosa da una tradizionale grandezza femminile. 

Tuttavia per la coscienza di oggi questo non basta: perché una serata sia ben riuscita sentiamo l’esigenza di qualcosa di più, avvertiamo il bisogno dell’accendersi di un pensiero che susciti rimandi che fanno luce dentro di sé. Possiamo chiamarla l’arte del “pensare in presenza” per dirlo con le parole di Chiara Zamboni. 

Negli Scritti di Londra (1957) Simone Weil ci dice che il pensiero si nutre di gioia e che lei stessa sente come una asfissia il suo venir meno, che fa spegnere l’intelligenza. La gioia non coincide con i piaceri, i divertimenti oppure con la soddisfazione delle vanità e ci avverte che «non si dà la gioia dal di fuori ad un essere umano o a una collettività, bisogna che nasca dall’interno». Ma poi aggiunge: «tuttavia ci sono delle condizioni che la rendono o non la rendono possibile» (pag. 168). 

Ecco, nell’agire politico ispirarsi alle pratiche artistiche e fare della relazione un’arte apre a una ricerca consapevole per esplorare quali sono le condizioni che rendono possibile la gioia.