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Da il manifesto – Alias

Oltrepassare, come Alice, lo schermo del mondo… Un numero di «Riga» su Giulia Niccolai (1934-2021), singolare artista dalle molte esperienze: fotografa, scrittrice sperimentale, monaca buddista

Se si apre la pagina Wikipedia dedicata alla poetessa, scrittrice, fotografa e traduttrice Giulia Niccolai, la voce Biografia si chiude con una curiosità: la fine della relazione intrattenuta con Adriano Spatola, col quale Niccolai ha convissuto per nove anni nel Mulino di Bazzano, la cosiddetta «Repubblica dei poeti», ispirerebbe il testo di una canzone di Guccini, Scirocco (lo segnala Alessandro Giammei su «Engramma», 145, 2017). La nota è succosa e in linea con il contesto divulgativo in cui è inserita, ma non rischia anche di suggerire, posta com’è a conclusione della (breve) scheda biografica dedicata all’autrice, una marginalizzazione della sua esperienza artistica, da misurarsi magari «in appendice» a quella della Neoavanguardia o, in questo caso, del compagno co-fondatore della rivista «Tam Tam»?

Chi conosce l’opera di Niccolai non ha dubbi riguardo alla sua autonomia e originalità, e sa che la vita della scrittrice potrebbe diventare il canovaccio di una sceneggiatura: italo-americana bilingue, esplora giovanissima il mondo come fotografa (immortalando, fra gli altri, Kennedy, Kubrick, Fidel Castro, Fellini…) per poi abbandonare, delusa, il reportage; a Roma, vive a casa di Giosetta Fioroni e si lega al Gruppo 63, come segretaria di redazione di «Quindici». Nel ’69 l’avanguardia chiude i battenti e Niccolai si trasferisce al Mulino con Spatola – ha stretto amicizia con Corrado Costa e Giorgio Manganelli, il suo «primo lettore» – per poi fuggire nel 1978 a Milano («feci una vigliaccata, […] scrissi una lettera e scappai»).

Ha già all’attivo un romanzo, numerose raccolte sperimentali, il libro d’artista Poema&Oggetto. Poi, l’ictus cerebrale, che la rende momentaneamente afasica (ecco una prima, strana coincidenza: lo stesso era capitato a Baudelaire, col cui nome gli amici pare chiamassero proprio l’ex compagno, Spatola), e la conversione al buddismo, il viaggio in India nel 1989 e la sua ordinazione a monaca. Continua a scrivere, accumulando riconoscimenti (nel 2006, l’onorificenza di Grande Ufficiale della Presidenza della Repubblica Italiana) e, quando viene intervistata da Sara Pagani nel 2018, ha più di ottant’anni e pensa alla morte senza paura, perché «è come decidere di cambiare vestito», «nasco dove voglio io la prossima volta».

Commemorandone la scomparsa, Andrea Cortellessa ricordava sul «manifesto» del 24 giugno 2021 la molteplicità delle vite che Niccolai sembra aver vissuto; si possono ripercorrere, oggi, sfogliando il ricco volume che «Riga 45» ha dedicato a Giulia Niccolai, a cura di Alessandro Giammei, Nunzia Palmieri e Marco Belpoliti (Quodlibet, pp. 495, € 26,00), attraverso interviste, una raccolta antologica e di interventi critici, saggi, scritti autobiografici. La numerosità dei contributi fa sì che queste disparate vite si ricompongano come in un mosaico, e tuttavia permane la sensazione che il ritratto definitivo di Niccolai, l’unico completamente «a fuoco», sia sempre imprendibile e rimanga «sul retro» della composizione, in un negativo pur così ben sviluppato.

Il che è, a ben vedere, una sorta di rovello per la stessa artista, nel corpo a corpo costante con la decifrazione della realtà che la circonda, dalla fotografia alla poesia al romanzo – che si intitola proprio Il grande angolo, rimarcando l’ulteriore prova dello sguardo dell’autrice sul mondo, recensita nel ’66 da Walter Pedullà e commentata per «Riga» da Graziella Pulce.

Basti prendere gli esperimenti prospettici di Facsimile, che giocano deformando, tramite rappresentazione, la realtà – una lattina e la fotografia di un barattolo, ritratti frontalmente, sembrano solidi e tridimensionali, ma spostando l’angolo dello scatto si svela la verità, ché «un oggetto fotografato si trasforma in un oggetto fotografato, e tale rimane» (si contempla, insomma, «la differenza tra apparenze fenomenologiche e stati ontologici», Taylor Yoonji Kang). O ancora, si pensi allo scavo linguistico della poetessa, al «lavoro di costruzione e decostruzione su significante […] e significato» di Greenwich – «Riga» ne accoglie l’introduzione di Manganelli, del ’71 – e al suo celebre calembour topografico «Como è trieste Venezia…», che ricerca una nuova correspondance tra senso e nonsenso nella deformazione del significante, un po’ come accadeva nei Facsimile.

Ciò significa che gli strumenti dell’indagine derivano dalla neoavanguardia, ma il loro impiego è orientato in una direzione privata, ironica e giocosa, non politicizzata (l’allontanamento da Roma è dovuto alla sensazione che «lì era impossibile fare una rivista di poesia perché tutti erano concentrati su altri scenari», afferma Niccolai nell’intervista di Massimo Rizza). La sua ricerca ruota, piuttosto, intorno alla discrasia fra le cose «come appaiono» e le cose come «effettivamente sono» (Beppe Sebaste), in una specie di tentativo di superare, come Alice attraverso lo specchio, lo schermo del mondo come rappresentazione. Non è un caso che Carroll rappresenti il feticcio della poetessa esordiente in Humpty Dumpty (1969), un «vampirico omaggio» di giochi di parole «trasgressivi» (Belpoliti), descritto qui da Milli Graffi, che prepara il terreno alle acrobazie verbali successive, da Substitution (’75) alle varie declinazioni dei famosi Frisbees, le «poesie da lanciare», alle ballate composte come «un’insalata russa» di lingue delle Russky Salad Ballads – fra cui la celebre Harry’s Bar Ballad, in cui l’autrice dichiara, come imprimendo un marchio a fuoco sul testo, la propria identità: «voglio del gin perché sono G. N. / Giulia Niccolai»; a mancare, nell’acrostico, è la I inglese di «io» prestata però, sub specie di passaporto identitario, alla chiusa della prima raccolta, «And Lewis I Carrol End», also known as A.L.I.C.E.

Emerge sempre, anche a partire dalle interviste a Giulia e dai contributi critici (Raffaele Manica, Rossana Campo, Cecilia Bello Minciacchi, Roberto Galaverni e molti altri) questo refrain della ricerca della corrispondenza fra la «parola» e la «cosa», la rappresentazione e la realtà, indagata facendo deflagrare le apparenze, semantiche o dell’oggetto, scrutate come attraverso un obiettivo fotografico mai dismesso. Ecco allora la seconda e ultima coincidenza: è proprio il testo che si citava all’inizio, Scirocco, che sembra inquadrare questa predisposizione, descrivendo non solo (o non tanto) la fine di una storia d’amore ma anzi suggerendo l’inizio di un altro rapporto, quello di Niccolai col mondo, per la propensione dell’artista a spingersi «a guardare dietro alla faccia abusata delle cose, / […], dietro allo specchio segreto d’ogni viso».

Se i tentativi – condotti tramite il medium fotografico e, poi, poetico – di attraversare lo specchio e incidere il velo schopenhaueriano finiscono per coincidere, è comunque la fede buddista a dare a Niccolai una risposta, perché è grazie a quest’ultima che la tensione irrisolta a ricomporre la realtà si placa e la poesia si rende inessenziale: «quando si riesce a squarciare anche solo momentaneamente il velo di Maya il senso di compiutezza è tale che la scrittura e la necessità di esprimersi per dare un senso alla vita non sussistono più».

E «adesso», si chiede Niccolai nel Diario del 2009, «come mi sento? Libera». A renderla inafferrabile è la libertà che ne contraddistingue l’esperienza artistica, nella capacità di cambiare percorso, di rileggersi – e personale – di donna che negli anni cinquanta brucia il motore della 600 «guidando in una sola notte da Milano a Lagonegro» (Palmieri). È forse proprio per questo che Silvia Mazzucchelli, che negli ultimi anni ha lavorato con Niccolai al suo archivio fotografico, immagina che l’amica si sarebbe stupita di questa pubblicazione: «Chi l’avrebbe mai detto che un giorno qualcuno mi avrebbe messo in Riga?».