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Da sempre la guerra mi suscita repulsione e paura. La radice di tale avversione si trova nella mia storia familiare. Da ragazzina ascoltavo i racconti di mio nonno paterno che aveva vissuto la seconda guerra mondiale: osservavo le conseguenze che quell’esperienza aveva avuto nella sua e altrui esistenza; mi pareva che gli effetti “bellici” continuassero a vivere nella genealogia familiare sotto altre forme, imponendo vincoli e generando scelte.

Nonno Biase, padre di mio padre, aveva partecipato alle guerre coloniali di Etiopia ed Eritrea, obbligato dal regime fascista e probabilmente incoraggiato da suo padre, un contadino molto povero con undici figli a carico; fu catturato dalle truppe inglesi e dopo nove anni di prigionia e lavori forzati nelle ferrovie tra Londra e Birmingham, rientrò come reduce nelle campagne del tavoliere delle Puglie, deturpato nel corpo e nell’anima. Sposò mia nonna, giovane vedova, e dalla loro unione nacque mio padre. Lui ricorda che nonno Biase era facile alle sbronze e alla violenza soprattutto nei suoi confronti, un bambino che aveva l’ardire di rinfacciargli, suo malgrado e ingenuamente, la gioia come possibilità di esistenza, e di non obbedirgli quando aveva voglia di giocare a calcio con gli amici invece che andare a pascolare i maiali nell’aia. Alla fine degli anni sessanta, mio padre fece di tutto per evitare la leva obbligatoria: coltivò la sua passione per l’ingegneria meccanica iscrivendosi all’università e quando rimase indietro con gli esami approdò a un impiego pubblico e al matrimonio; dopo che neanche tale sforzo fu sufficiente, decise con mia madre di concepire una creatura: finalmente come padre di famiglia ebbe l’esonero definitivo dal servizio militare. In famiglia, sono ritenuta la figlia del “non servizio militare”, una conseguenza desiderata o un nobile pretesto per ripudiare le armi e le loro dolorose conseguenze. Da adolescente ebbi l’impressione che i racconti di guerra dei nonni e l’analisi storico-politica della Seconda guerra mondiale seguissero due percorsi paralleli nella mia mente generando livelli di conoscenza che faticavano a incontrarsi: spesso era impossibile conciliare in una visione coerente vicende familiari e avvenimenti storici. 

Ho un vissuto simile rispetto ai conflitti recenti, nello specifico la guerra tra Russia e Ucraina e l’aggressione israeliana della striscia di Gaza. Ai fatti riportati dall’informazione cosiddetta mainstream, si contrappone la dolorosa verità dei profughi di guerra, che giunti fino a noi, raccontano di perdite umane e case distrutte. L’esperienza della guerra entra nelle strutture di accoglienza dell’associazione per cui lavoro, con il suo carico di angoscia e spaesamento: assume il volto disperato e smarrito di chi è fuggito dalla propria terra con un bagaglio di fortuna o più spesso senza alcun bene necessario. Nelle case di accoglienza abbiamo accolto dapprima due giovani donne fuggite da Nikolaev che parlavano e comprendevano il russo più che l’ucraino e non potevano capacitarsi dell’invasione dei fratelli russi. T. è arrivata a Parma, senza bagaglio, raccolta in strada da una sua connazionale che faceva la spola tra Reggio Emilia e le zone occupate.  Si era ritrovata in strada dopo un boato che aveva distrutto la casa vicina. Spesso va in Ucraina perché le sue figlie vivono ancora a Kiev ma della guerra non riesce a parlare, ne piange e basta. Qualche mese fa ci ha detto che suo genero è rimasto gravemente ferito. E poi sono arrivate V. e N., figlia e madre, fuggite da Shevchenkove, un villaggio situato a trenta km dal confine con la Crimea, che come racconta N. è stato conquistato in due giorni. Dopo il 24 febbraio 2022 hanno vissuto in un garage per circa 40 giorni, insieme ad altre persone: V. non riusciva a lasciare la mano di sua madre e non dormiva: è lei che l’ha convinta a fuggire verso la Polonia e poi la Germania, sfidando prima un posto di blocco vicino Odessa, poi un tank russo senza munizioni e infine i missili ucraini “amici” lanciati contro l’offensiva russa. Dopo 10 giorni in una palestra di una città tedesca a loro sconosciuta, V. ha inviato la posizione tramite Google Maps a un amico italiano che ha convinto suo padre ad andare a prenderle per portarle in Italia. Dei profughi palestinesi ho poche notizie da colleghi e colleghe: dove vivo non ce ne sono molti e la loro assenza è la misura di una tragedia umana da cui è quasi impossibile fuggire. 

La condivisione dei vissuti delle donne profughe con cui lavoro e sono in relazione, mi rimanda a un prezioso testo di Luisa Muraro. In Maglia o uncinetto, infatti, si dice che parlare è come fare a maglia e che la trama del linguaggio si articola su due direttrici: quella metaforica e quella metonimica. La direttrice metaforica è la sfera dei rapporti in assenza, che seppure necessaria nella produzione del linguaggio, rischia, se usata in eccesso di astrarre troppo e di allontanare le parole dall’esperienza di chi parla. La metonimia è, invece, la figura retorica del linguaggio che consente la combinazione dei segni in presenza, tramite i quali il vissuto può essere messo in parola e dunque a disposizione delle altre e degli altri, del mondo. Arricchisce il sistema simbolico, vi aggiunge significati e amplia l’ordine di realtà. Essa svolge un lavoro che non è indolore e senza conflitto poiché si contrappone alla direttrice metaforica tagliando la sua pretesa di universalità. 

Leggendo con questa lente la contraddizione e la distanza tra i racconti delle donne ucraine incontrate e i resoconti della stampa mainstream sul conflitto russo/ucraino, ho realizzato ancor di più, che i vissuti di coloro che soccombono alla guerra non entrano nella narrazione della realtà di ciò che accade: essa è spesso occultante ed è anzi costruita volutamente sulla loro negazione e sulle implicazioni che tale omissione produce nell’opinione pubblica (sui temi connessi a questo punto rimando alle relazioni tenute da Ida Dominijanni e Giulia Siviero nel maggio 2024 al circolo della Rosa di Verona). Dunque creare spazi e luoghi in cui l’esperienza soggettiva dei profughi viene condivisa, può mettere in circolo una ricchezza simbolica di matrice metonimica capace di contrapporsi ad un regime discorsivo violento e pervasivo imposto dai poteri forti per creare consenso verso la guerra e le sue ragioni. 

La metonimia che consente di nominare quelle esperienze ha, a mio parere, ulteriori effetti e benefici: un primo effetto è quello di connettere il racconto delle altre all’esperienza soggettiva di ciascuna/o risvegliando la forza simbolica iscritta nelle nostre genealogie e mettendola a disposizione del presente e della sua lettura. Un secondo beneficio è quello di produrre un guadagno di realtà attingibile da tutti e tutte, un di più di esistenza, capace di neutralizzare gli effetti distorsivi e anestetizzanti di una narrazione iper-metaforica del reale in cui si perde l’esperienza singolare e quotidiana del dolore e della perdita. Una risorsa che diviene un antidoto contro l’assuefazione alla guerra e alla normalizzazione della violenza in tutte le sue forme. 

I racconti delle profughe accolte nelle case di accoglienza in cui lavoro, hanno risvegliato la memoria storica iscritta nella mia genealogia, l’hanno resa attuale e simbolicamente attiva: non si tratta di confondere le esperienze che hanno riguardato persone e generazioni diverse, ma di estrarne una similitudine, un comune denominatore capace di rafforzare la relazione, la vicinanza, l’empatia nella differenza. Una condivisione di linguaggio e di spazi emotivi/simbolici che tracciano una terra comune e indicano una direzione. Non ho vissuto quello che i miei nonni e le mie amiche ucraine hanno vissuto, ma il loro racconto mi fornisce un orientamento chiaro nella realtà e mi permette di assumere il rifiuto della guerra come postura radicata in una genealogia e un ordine simbolico che riconosco nella storia che incarno, nel pezzetto di umanità che mi porto dentro e che non riguarda solo me. Spesso accade che la condivisione dell’esperienza generi uno spazio prezioso in cui il vissuto e la verità soggettiva che ad esso si accompagna, diviene dono comune, un luogo di autenticità da cui si possono attingere conoscenze e competenze utili a orientarci nel reale. Pertanto creare contesti di condivisione e racconto diviene una strategia politica che mette in circolo risorse simboliche preziose che concorrono a radicarci nella non violenza, non come mera scelta ideologica, ma come postura generata dal riconoscimento reale di una violenza che ci tocca nelle sue variegate forme, e arriva a interpellare la nostra esistenza e il suo significato. È in questo processo di produzione simbolica collettivo di matrice metonimica che si radica, allora, un dissenso che può smembrare i discorsi iper-metaforici, e dare legittimità alla differenza delle esperienze soggettive. È un processo che non solo consente di riconoscere e decostruire i “frame” della guerra impliciti nei discorsi pubblici sulla guerra (Ida Dominijanni citava a riguardo il testo di Judith Butler Frame of war), ma di mettere in campo un guadagno di conoscenze e realtà. Un terreno da cui si può attingere la forza di interrompere il circuito della violenza (il gesto pacifico di cui anche Ida D. parlava nella relazione prima citata) e il coraggio di opporvisi non mediante un atto personale eroico e isolato, ma attraverso un lavoro simbolico comune che restituisce dignità e centralità all’esperienza soggettiva del lutto, della fragilità e della violenza subita aprendo speranze e nuove prospettive di libertà.