Condividi

Sono diventata una donna che ha un’idea fissa. È una cosa insolita per me personalmente; ho sempre avuto più di un’idea in testa, e nessuna che rifiutasse a priori di esserne sloggiata per far posto ad una migliore. Ed è una cosa penosa, ho scoperto, come trovarsi in prigione. L’idea fissa non solo tende a legare a sé tutte le altre, ma tende essa stessa a concentrarsi in un punto, diventando così di un’intensità che prelude, temo, al mutismo. È come un chiodo che sta inchiodando il cervello ed è anche il martello che picchia sul chiodo: tum tum tum.

Le ho dato un nome, si chiama “Lo splendore di avere un linguaggio”. L’ho trovato in Clarice Lispector, La passione secondo G.H. (si dovrebbe scrivere GH, ma non importa). Nella sua lingua originale il nome è: O esplendor de se ter um linguagem. Il nome è bello; fa pensare all’alba delle persone insonni o malate, alle icone nel buio delle chiese orientali, alle stelle dei viaggiatori di una volta, perduti nel deserto o, peggio, nel mare aperto. In certi momenti della storia, o della vita personale, un linguaggio può fare una luce grande e piena, tolte, pur sempre, le ombre prescritte dall’ottica (la scienza è scienza). Ma la mia presente povertà me lo mostra come una luce non forte e lontana; non per questo meno cara, anzi.

Ho scoperto infatti che il linguaggio può mancare: non relativamente a uno più potente (Lettera a una professoressa del Sessantotto) o più autentico (Le parole per dirlo del femminismo), ma in assoluto. Ho scoperto che ci si può trovare al di qua del linguaggio necessario, e sono arrivata a pensare che oggi ci troviamo, come prova storica, al di qua o al di sotto del linguaggio necessario. 

Come mi sia venuta una simile idea, non so, ma ricordo le volte in cui essa mi torna in mente. Una volta fu in seguito ai primi arresti di Tangentopoli. C’era, nella città di Milano, una tristezza delle cose mute che “parlava” al posto nostro, che non sapevamo parlare il linguaggio necessario. I linguaggi che poi si sono imposti, della legge, della televisione, della vendetta, della riorganizzazione politica, hanno significato qualcosa ma non rendono il patimento collettivo causato dalla scoperta di tanto scandalo.

Altro esempio, dopo le bombe del 27 luglio 1993, scoppiate a Roma, nei pressi di due edifici cattolici, e a Milano nei pressi del Padiglione di Arte contemporanea, causando distruzioni e morte. I giorni successivi la stampa riportò i commenti della Lega Nord («è contro di noi»), degli ex-referendari («si vuole fermare il nuovo»), del ministro dei Beni Culturali («è un attentato alla cultura»), del capo del governo («nel mirino, il governo»), di opinionisti cattolici («contro la Chiesa e il suo capo»), e cosi via, tutti aggrappati al protagonismo delle bombe per rincalzare il proprio senza lontanamente riuscirci, troppo scarsa essendo la sorpresa innocente e dolorosa, ma anche il gusto detective, l’ironia, la mobilitazione interiore. Non si erano nemmeno sforzati, era evidente, come scolari che svolgono il tema assegnato sapendo in partenza che risulterà insufficiente. Commentare bombe e morti diventa noioso per chi ha perduto la fiducia nel linguaggio.

È a causa dell’abuso che l’abbiamo perduta, io dico. Le bombe sono venute dopo, quasi di conseguenza. Ed è, perciò, la storia dell’abuso linguistico che occorre ricostruire. Quand’è cominciata? Se risalgo i cinque decenni della mia vita non infante, fra i ricordi più antichi c’è una crociata via radio contro il pericolo comunista. Eravamo da poco usciti dalle sofferenze di una guerra e di un’occupazione militare, una più maledetta dell’altra, eppure quel programma radiofonico ci fece (parlo di me, dei miei genitori e degli altri familiari) un male più grave. La fiducia nel proprio giudizio umano e politico, che l’esito della guerra sembrava poter rinsaldare, andò perduta per la paura di un avversario nuovo e strapotente, non individuato in tempo utile; alla soddisfazione per la liberazione e la pace cui tutti avevamo contribuito, anche i più piccoli, subentrò il fantasma di un futuro ben più gravemente minacciato. E tutto questo arrivava non dall’esterno, con bombe e carri armati, ma attraverso la voce della radio che prima ci aveva aiutato a sperare e a resistere.

Cominciò così ad offuscarsi per me lo splendore del linguaggio, la luce sacra e aurorale delle parole che, insieme alla forza di mia madre e quasi identificata con essa, mi aveva assistito sul bordo delle fosse anticarro, nella fame e nel freddo, nella contemplazione delle macerie, nell’ascolto di fatti inauditi e tragici, i più tragici di tutta la storia umana conosciuta.

Sto cercando di discolparmi? O attribuisco ad un avvenimento qualsiasi qualcosa che doveva comunque succedere? La colpa sarebbe che poi io stessa cominciai a usare il linguaggio e, soprattutto, a pensare che così si debba fare con le parole e a giustificare che altri lo facessero. Non penso a falsificazioni ottenute con trucchi retorici né a menzogne propagandistiche. Penso agli usi normali, quelli giudicati corretti: c’è infatti una misura che il linguaggio dà a noi e non noi al linguaggio – misura materna la chiamo – ed essa è già perduta quando diciamo “usare” il linguaggio. Uso e abuso in questo senso sono collegati fra loro; non c’è, fra l’uno e l’altro, un salto che ci avverta del passaggio. Denunciamo gli abusi senza notare che discendono dagli usi che noi stessi facciamo del linguaggio. Per marcare il passaggio, dove risulta troppo facile e ha conseguenze troppo gravi, oggi si ricorre a codici deontologici di autoregolamentazione. È un espediente importato dai Paesi riformati, che fa leva sulla capacità umana, forse più sviluppata da loro che da noi, di interiorizzare norme. Ma, anche se ben formulato e rispettato, un codice non può prevenire un abuso micidiale per la vita della lingua, che è l’uso stereotipato. Anzi, i codici lo favoriscono.

Non sono la sola, per fortuna, a criticare la funzione oggi attribuita all’etica nei rapporti umani. L’etica aveva già un suo posto nella civiltà occidentale moderna, e piuttosto grande; ora si vuole dilatarlo, secondo me oltre misura, per farle prendere il posto di un ordine simbolico perduto. Infatti, se passiamo dall’uso all’abuso quasi a nostra insaputa, vuol dire che, nel rapporto con la lingua e gli altri linguaggi, la misura era perduta già da prima. “Prima”, quando?

Ritornando alla mia storia personale, ma comune, una grande perdita di competenza simbolica l’ho patita con l’entrata nella scuola dell’obbligo, a causa del disprezzo scolastico del dialetto, che era la mia lingua materna in senso stretto. L’italiano non mi fu insegnato come una lingua strettamente imparentata con quella che già sapevo, ma come fosse una lingua superiore che doveva prenderne il posto. Da due secoli in Italia, e altrove, si discute dei dialetti e delle minoranze linguistiche, senza arrivare a capo di niente. E questo perché, secondo me, la questione non viene messa sulle sue gambe, intendo il primato della lingua materna letteralmente intesa, lingua che la creatura impara venendo al mondo, quasi sempre dalla madre. Non mi riferisco, sia chiaro, al dialetto veneto o lombardo o alla lingua tedesca nel Sudtirolo: anche questi sono nomi convenzionali, sovrapposti alla lingua materna, la cui finezza è tale da registrare differenze fra un paesino e l’altro (fra un quartiere e l’altro di Palermo, mi informa Maria Schiavo) e oltre, radicandoci in definitiva nel luogo unico della relazione materna.

Ma sono passaggi, non barriere. La lingua, di suo, non conosce frontiere, ma solo passaggi, traduzioni. Tra una lingua e l’altra, non ci sono guardie, ma traduttrici e mediatori. Purtroppo le mie maestre di scuola erano preparate a fare le guardie più che le mediatrici fra cultura infantile e cultura scolastica. Non erano preparate alla traduzione di quello che María Zambrano chiama il sentire originario, farlo cioè passare dal luogo della relazione materna ai diversi luoghi di questo mondo. Uso l’imperfetto perché al presente devo mettere il danno di una deportazione culturale attraverso troppe frontiere. Ho letto sullo “Herald Tribune” di un programma formativo rivolto a giovani madri immigrate per convincerle a parlare alle loro creature neonate: non vogliono, perché la loro lingua non è l’inglese, quella utile per il futuro dei figli. Similmente, noi non possiamo ereditare né far ereditare la ricchezza che si trasmette con le parole e gli altri linguaggi. Dal patrimonio ci separa non la geografia né un’invasione di barbari, ma la mancanza del linguaggio necessario. Chi insegna storia conosce la fatica spesso inutile di far imparare la storia: le persone giovani sembrano capaci di assimilare unicamente le conoscenze che si producono nel loro presente. Vi sono musei che, per non restare deserti, si sono organizzati come saloni di video-games. A questo imprigionamento nel presente (o nel futuro?), risponde la comparsa, fra le persone più giovani, di forti vocazioni storiografiche: oggi si parte per il passato come in altri tempi si andava in Africa o in Cina.

Un viaggio di altro tipo, verso le risorse della lingua materna, suggerisce Giovanni Ferrari in un libriccino sorridente e geniale, Homo scientus (Muzzio, Padova 1993). L’autore, uomo di scienza, si interroga, preoccupato, su ciò che avviene nel suo mondo. C’è un morbo pestifero, egli dice, che ha colpito la ricerca scientifica, la “peste del linguaggio”. In che cosa consiste? «La semiotica della peste del linguaggio è riferibile principalmente alla perdita di potere della parola», perdita che riguarda la parola «come elemento strutturale delle costruzioni linguistiche, capaci di realizzare non solo la collezione di informazioni, ma anche una rete di fatti e concetti connessi mediante implicazioni teoriche, confronti dialettici e riferimenti incrociati, le cui interpretazioni possono essere espresse correttamente solo con parole appropriate, capaci di costruire un linguaggio non approssimativo». La perdita in questione si manifesta specialmente nell’assenza di emozioni dalla comunicazione scientifica, con il risultato che questa non è più capace di comunicare: «Due sono gli elementi emotivi che non possono mancare nel discorso scientifico: curiosità e meraviglia», e risultano invece tristemente mancanti. Alla patologia del linguaggio contribuisce il passaggio obbligato attraverso l’inglese: «Espressioni generiche e stereotipate imperversano nei lavori pubblicati in lingua inglese, ma hanno ormai preso possesso dei testi italiani mediante traduzioni che soffocano qualsiasi conato di originalità». L’inglese, naturalmente, non è una causa del male, e in generale l’autore ci invita a non cercare cause, quanto a riconoscere la malattia. E poi, che fare? Seguiamo l’esempio del Decamerone, è la sua risposta, e facciamo il Decamerone della scienza, ossia un ideale congresso scientifico cui partecipano donne e uomini capaci di raccontare la scienza. Dovrebbe essere organizzato in tre livelli, spiega Ferrari. E nella sequenza dei tre livelli che io vedo abbozzato il viaggio di ritorno verso le risorse della lingua materna. Il primo, fatto di comunicazione elettronica in linguaggio specialistico e in lingua inglese, senza uso di carta stampata, è la comunicazione di ricerche e risultati tra specialisti. Il secondo riunisce fisicamente e liberamente, fuori da calcoli di potere, un pubblico di studiosi, non solo specialisti, che ascolta racconti di ricerche, fatti in lingua nazionale, ravvivati da letture, senza escludere «il contributo dell’inconscio». Il terzo livello coinvolge il grande pubblico, con la divulgazione delle nuove conoscenze.

Al terzo livello, prima della divulgazione, io metterei l’insegnamento, sia scolastico sia universitario, scritto e orale.

Mi ha colpito la parola d’ordine che gli/le studenti si sono dati l’autunno scorso, “Jurassic School”; mi pare il sintomo di un’afasia tecnologica, non smentita dai servizi giornalistici né dalle testimonianze di insegnanti di scuola: «non dicono perché occupano, non hanno niente contro la scuola, dicono solo che vogliono ritrovarsi fra loro». Testimonianze a loro volta afasiche; esattamente come i paper scientifici, anche i rapporti degli adulti con le persone giovani sono o sembrano privi di emozioni. Le emozioni ci sono, ma non arrivano alla comunicazione. Sto pensando al volto di una studentessa che, dal primo giorno di lezione, mi guardava con una concentrazione sempre uguale, senza rapporto apparente con le mie prestazioni, finché, durante un ripasso notturno della giornata, ho capito che quello era lo sguardo delle creaturine davanti al televisore acceso. Nello specchio muto e immobile di quello sguardo, ho potuto misurare la mia perdita. Mia, nostra. In filosofia, da un secolo, non facciamo che ragionare del linguaggio; nello sguardo della studentessa io, come una balena arenata, ho trovato la terra ferma di un sicuro fallimento. Quando qualcuno mi dice: ma hai provato a leggere l’ultimo Habermas, per dirne uno, rispondo come negli slogan: no, grazie. Credo nel lavoro intellettuale, è la mia professione, e apprezzo la tenacia di quel vecchio pensatore, ma ci sono scacchi che domandano di essere registrati.

Un giorno ho trovato le studenti del mio corso fuori dall’aula: c’è dentro una lezione, mi dicono. Non era esattamente così; c’era dentro un personaggio di cui non ho potuto stabilire l’identità, che parlava con cinque o sei studenti, ma sarebbe più esatto dire che li faceva parlare. Un venditore di computer? un assicuratore? un rappresentante di Dio?

La questione è che, rovesciando il punto di vista, non avrei saputo stabilire, sebbene portasse il mio nome e fossi proprio io, chi era e che cosa faceva lì la donna che si affacciò alla porta per invitare il personaggio ad uscire con la sua piccola corte, dicendogli che a quell’ora in quell’aula “c’era lezione”. In effetti, mi muovo nell’università da anni senza essere arrivata a costituirmi, non dico un’identità, ma un’immagine di me per me, dotata di coerenza, e senza riuscire ad orientarmi, se non mi tenessi attaccata a un’aula e a un orario; non bastano infatti i rapporti buoni e la passione di cercare e insegnare, che pure è grande. Faccio spesso un sogno: sono in viaggio, distante, e improvvisamente, con angoscia, mi rendo conto che dovrei andare a scuola, a insegnare, ma ho dimenticato le date, i luoghi, gli orari. In passato mi sono sforzata di pensare che doveva trattarsi di un mio male, come una forma di disadattamento accademico. Dopo di che ho dovuto capire che non c’è un mondo al quale io non saprei adattarmi, perché senza linguaggio non c’è mondo. E ho capito che il male di cui soffro è comune; tutti lo mascheriamo in qualche modo, come una famiglia dove tutti soffrono dello stesso disturbo ma si finge, tacitamente, di essere normali.

C’è nella vita dell’università, e altrove, forse ovunque, una frammentazione e una casualità di accostamenti così estese che le persone, le cose, i nomi, i discorsi non arrivano mai a formare un contesto sensato e duraturo. Come descrivere la natura di questa perdizione? Essa si manifesta nel disordine notorio dell’istituzione accademica: c’è incoerenza e casualità nei soldi, nelle gerarchie, nelle carriere, nella divisione del lavoro, nelle discipline, negli ordinamenti, e via, via. Ma la cosa di cui parla, il morbo di cui soffriamo, non si identifica con i problemi della giustizia, della buona amministrazione o dell’efficienza. È un disordine più elementare, ed è sbagliato, secondo me, ritenerlo esclusivo dell’università. Ascoltando le operaie di un’azienda grande e moderna, ho riconosciuto la stessa cosa insensata che sta avanzando anche in quella diversa realtà. Dicevano: non si capisce più niente, a furia di voler organizzare tutto, è tutto disorganizzato, c’è uno spreco che non riusciamo a impedire, non riusciamo a lavorare bene, ma nessuno ci ascolta. La perdita dell’ascolto, ecco il sintomo, perché infatti, nel linguaggio, prima della parola viene l’ascolto. Pare che cominciamo ad ascoltare ancor prima di venire al mondo; certo, l’ascolto è la pratica simbolica di chi ha il senso dell’autorità della parola. Anche questo è un punto di rispondenza con l’autore di Homo scientus che segnala la sordità che domina nella società scientifica: per il troppo peso che si dà ai rapporti di potere, io suggerisco. Ho notato infatti che chi si concentra sulla questione del potere, si regola benissimo in base a certi segnali e diventa sordo al significato delle parole. Ma la sordità sembra estendersi, sta diventando sordità reciproca fra persone di poco o nessun potere, sui tram, in mensa, fra vicini, fra studenti, fra colleghi.

Un impiegato della mia università, coraggiosamente, ha fatto girare una lettera documento intitolata Contro l’ingiustizia un atto di giustizia. Comincia denunciando che «alcuni alti dirigenti dell’Università usufruiranno di benefici economici arretrati di un centinaio di milioni, in quanto è stato loro riconosciuto il ruolo di dirigenti ab ovo»Questo fatto, dice la lettera, «ha suscitato tra il personale sentimenti che vanno dal disgusto alla rabbia, soprattutto in considerazione delle disuguaglianze economiche esistenti e dei sacrifici che lo Stato ci obbliga a sostenere in nome dell’emergenza economica». Finisce invitando a firmare il documento e a «devolvere l’equivalente di un’ora del proprio stipendio a favore dei disoccupati o per qualche analoga iniziativa di solidarietà». L’autore non intende denunciare illegalità; al contrario, egli sottolinea che le cose da lui denunciate sono legali, ma proprio questo è «l’aspetto più sconvolgente». Come dargli torto? Segue tutto un elenco di sconvolgimenti della giustizia ad opera della legge, un paio dei quali, suppongo, riguarda anche me: «ci sono leggi che consentono ai docenti universitari di avere un orario ridicolo e senza controlli, di insegnare in una sede pur vivendo a centinaia di chilometri di distanza». Dico “suppongo”, perché, a parte i non so quanti chilometri che separano Milano da Verona senza separare il mio vivere dal mio lavorare, c’è la questione di quell’“orario ridicolo”, forse inteso come orario d’insegnamento, e non di lavoro. Ma il “senza controlli” non mi lascia scampo. È dalla prima, elementare che gioco d’astuzia per riuscire a lavorare senza controlli: l’amante del lavoro, esattamente come l’amante-amante, odia i controlli.

Chi ha risposto alla lettera documento di quell’uomo?, mi sono chiesta. Forse nessuno, io gli rispondo qui e mi tengo la sua lettera come documento del vicolo cieco in cui è finita la ricerca di giustizia. Forse la sua sorte sarà di approdare, per una sera, in uno di quei programmi televisivi che confezionano e servono al pubblico la sua voce inascoltata.

La televisione, di nuovo. Come la lingua inglese, neanche la televisione è una causa. Ma in essa, più che in altre situazioni, risalta la mancanza del linguaggio necessario. A differenza di altre situazioni, infatti, la televisione appare schiacciata fra la potenza del mezzo tecnologico e la pochezza della parola che esprime. In realtà, è capitato che una straordinaria esplosione di potenza tecnica nelle comunicazioni umane, sia caduta in un’epoca di mancanza di parola. Quando guardo Mike Buongiorno nella Ruota della fortuna o Donatella Raffai in Chi l’ha visto?, non posso non ammirare la continuità delle loro prestazioni, segno di, come chiamarlo? rigore professionale? docilità? con cui fanno la loro parte, non una parte, ma la Parte umana di un mezzo strapotente. Al paragone, di Buongiorno e della Raffai, io credo che noi, nella situazione che si chiama insegnamento e ricerca, stiamo facendo piuttosto male la nostra parte. Abbiamo privilegi che non ci è difficile difendere grazie ad altri privilegi, ma, alla lunga, niente ci difenderà dalla pochezza della nostra comunicazione. Di che cosa parlano i professori universitari quando si parlano? Non di studenti né di studi né di ricerca, non di amori, progetti o sogni, non di lotte, non di passioni, non di piaceri. Ma di concorsi, quasi unicamente. La conversazione fra accademici è noiosissima; al confronto, i minatori sardi sembrano il nipote di Rameau. Sappiamo parlare come chi non è misurato dalle necessità del vivere né dall’urgenza delle altrui aspettative. Cioè meno bene di un venditore di computer o di un rappresentante di Dio, per non fare paragoni sleali con chi offre droga e conduce programmi televisivi.

Sono così tornata sulla porta dell’aula alla quale un certo giorno mi affacciai per dire ad uno sconosciuto intrattenitore di studenti che doveva uscire perché, a quell’ora in quell’aula, c’era “lezione”. Ma non è di un copione migliore che siamo alla ricerca. Serve una cosa ben più semplice e difficile, addirittura un linguaggio, cosa che nessuno può darsi da sé né imporre ad altri, ma solo trovare e praticare. Perciò non possiamo che partire da quello che c’è e dal suo nome, se per avventura lo ha. E infatti un nome, per nostra fortuna, c’è. Sulla porta dell’aula c’è una donna: non una vergine, non una sposa, non una madre, ma semplicemente una donna. Ricalco, come qualcuno avrà riconosciuto, Maestro Eckhart, Sermo 2, cioè un testo allegorico esposto ad essere malinteso per più versi, fra cui quello della sua significanza storica. Un testo allegorico, voglio dire, non è mai solo allegorico; l’allegorismo ruota sempre intorno al perno di una letteralità. Che va scoperta, di volta in volta, poiché la letteralità è una faccenda di contesto. Una donna, non un professore, una disciplina, un esame, una scuola. Io, personalmente, potrei provare a identificarmi con queste categorie, ma di me resterebbe senza nome quello che esse lasciano fuori come un loro di meno e un loro di più, il genere femminile, significante di una dignità umana in forse e di una libertà minacciata, da cui la Costituzione dice che si deve prescindere: “senza distinzione dl sesso”.

Solo diventando donna l’essere umano esce dalla sua sterile verginità, disse il Maestro citato sopra. Invece, il mio caro maestro Bontadini mi diceva ogni tanto: «Luisa, perché vai con le femministe? che problemi ci sono? Ricordati che tu sei homo»finché un giorno gli diedi questa risposta «Prof, dalla filosofia di questo secolo abbiamo imparato che l’essere parla la lingua di un essere situato nello spaziotempo; io sto imparando e ti insegno che parla la lingua di un essere corpo vivente sessuato: donna, uomo». La risposta fu giudicata soddisfacente.

Ma che cosa dice? Che cosa vuol dire, per esempio, che io sono una donna? Niente di niente, se non che prendo su di me la mediazione di tutto quello che è a cominciare dal mio essere corpo. Differenza sessuale: significanza dell’essere a cominciare dall’essere corpo. Avere un nome per questo niente di niente, vuoi dire mettersi nella condizione d’imparare a fare in prima persona il lavoro del linguaggio senza il quale il senso delle cose è perduto. Mediazione vivente io chiamo questo lavoro di mettersi in carne ed ossa sul filo dei linguaggi e imparare a tenerci in equilibrio il mondo. Una volta l’esempio lo davano i poeti e le poete: Emily Dickinson è la mia preferita, ma anche Ezra Pound e Leopardi. Adesso, l’esempio lo danno le sportive e gli sportivi, giovanissimi, che gareggiano in corse mortali per farci gustare le condizioni di un vivere significativo. Non sono in gara fra loro, ma con la nostra crescente povertà simbolica. Dopo la morte sulla neve di Ulrike Maier, «troppo rischio, troppa velocità» ha commentato il padre di un ragazzo morto in circostanze simili. Che cos’è lo sport? «Un male necessario» ha risposto lo stesso; dunque, quelli che si usa chiamare incidenti, sono sacrifici umani di un tipo nuovo? 

Ho contribuito a far bocciare una proposta di “Women’s Studies” nell’università in cui lavoro. Non vorrei che il mio passato fosse servito a impacchettare il senso della differenza femminile dando vita a un altro copione di vita accademica. Ma, ancor più, non voglio essere defraudata del mio compito umano. Ho bisogno di un nome, come un funambulo del suo bilanciere, e ho bisogno proprio di quel nome. Essere donna è per l’essere umano il problema di una dualità che non gli dà pace, ed è la risposta a questo problema. Essere donna è la necessità esistenziale della mediazione. All’altezza del linguaggio necessario – questo chiamo il compito umano, in generale – io so che arriverò, senza escludere per altri altre strade, con la pratica della mediazione vivente, impegnandomi cioè nel lavoro del linguaggio come una sua parte. Non sono sciatrice, non sono poeta ma sono donna, e la differenza sessuale è una forma di vita fra le più drammaticamente presenti nella storia umana, la cui significanza forse è troppo materiale per essere contenuta nei libri di storia e nei libri in genere. Certo, dai libri non l’ho imparata e non credo che si possa imparare, ma dal vivo. Infatti, nonostante i libri che avevo letto e perfino scritto in proposito, io non la conoscevo prima di arrivare sulla soglia che doveva farmi passare (o, meglio, ripassare, nel viaggio di ritorno verso lo splendore aurorale della lingua materna) dalle mediazioni codificate all’inermia della discesa libera.

Il senso delle cose, quali che siano, le più grandi e le più piccole, si trova e si perde storicamente. Che non vuol dire convenzionalmente. Ne cerchiamo le tracce, di preferenza, dove le parole ci mancano e le spiegazioni non arrivano. Su quel bordo io vedo che la differenza sessuale fa luce: è come uno sguardo voltato verso le tenebre culturali di un essere corpo opaco a se stesso, corpo pesante nella storia umana con l’animalità della vita collettiva e con la bestialità del potere.

«Non c’è speranza» ha detto un giornalista di ritorno dal teatro della guerra in corso vicino a noi. È così? e allora lasciamoci cadere; facciamo di queste parole la nostra linea di condotta. Non scelta da noi, naturalmente, come potremmo?, ma impostaci dalle cose. Si può vivere senza speranza una vita non disperata: nata con la guerra, io sopportavo le sue sofferenze e contemplavo i suoi teatri tranquillamente persuasa che facessero parte della vita. (Non mi sbagliavo di molto, ora mi rendo conto.) Non c’è speranza nei sempre più numerosi teatri dell’impotenza della ragione e della buona volontà, fra i quali io metto anche l’università, per quello di cui ho potuto rendermi conto di anno in anno, di tentativo in tentativo. Me ne sono convinta dopo aver visto buone leggi non usate da chi avrebbe avuto interesse personale ad usarle, in obbedienza a un “ordine” simbolico svantaggioso e illegale. In ciò mi trovo d’accordo con l’autore dell’Università dei tre tradimenti, Raffaele Simone, purché andiamo fino in fondo, dove c’è, ho scoperto, un punto di partenza. Avere speranza è volere qualcosa di meglio di quello che c’è; il desiderio di chi spera ha bisogno di pensare che non vi sia limite al meglio. Chi dispera, ne dubita; chi ha lasciato ogni speranza, pensa, più radicalmente, che non vi sia limite al peggio. Smessa così ogni speranza, egli (o ella) si accorge che c’è qualcosa e che questo qualcosa è enormemente più di quello che aveva diritto di attendersi: su questo sorprendente di più il suo desiderio prende lo slancio. Dovremmo trovare una parola per questo rimbalzo del desiderio sulla perdita definitiva della speranza. A pensarci bene, la disperazione appartiene a quelli che continuano a sperare e pretendono, per agire, condizioni che non ci sono.

A questo punto, si pone la questione della politica. Che cosa significa o aggiunge l’impegno politico rispetto a un desiderio che non ha bisogno di speranze per alimentarsi, a un agire in rispondenza con la mediazione primaria, quella della lingua viva? Credo che la risposta sia: niente. All’efficacia di un desiderio senza illusioni e alla potenza mediatrice della lingua materna, la politica non aggiunge niente, non serve. Ma un altro legame si è annodato perché, a questo punto, siamo noi che serviamo alla politica, se abbiamo quel desiderio e quella potenza. Per spiegare come, racconterò la storia, ascoltata a Lugano (Svizzera), di una maestra di lì che amava molto la lingua italiana e perciò anche l’Italia, per cui quando da noi trionfò il nazionalismo fascista, lei si sentì in certo modo fascista e lo proclamò ai quattro venti e a causa di ciò fu processata e passò in prigione parecchi anni. Nelle democrazie moderne, normalmente, non si va in prigione per le proprie idee; siamo però d’accordo che il fascismo avanzante non si poteva considerare un “normalmente”. Ma come non rimarcare la sproporzione fra la severità verso la maestra di Lugano e i mille cedimenti dei potenti che aprirono la strada al Duce e a Hitler? La saggezza popolare risponderebbe: “volano gli stracci”; io penso invece che qui si tratta della sistematica strumentalità di una comunicazione basata sui contenuti dichiarati. La comunicazione fine, di chi ha il senso della mediazione vivente, non stenterebbe a riconoscere il loro nome: i contenuti dichiarati sono etichette e fantasmi. Il nome vero delle cose è tutt’altra cosa. Ma come impararlo? come acquistare il senso della necessaria mediazione e la capacità della comunicazione fine? Come diventare intelligenti?

Io rispondo: con l’inermia della discesa libera, con la mediazione immediata, praticata in prima persona, anzi dal prima della prima persona, che non ha bisogno di rappresentazioni ma di mediazione attiva per sapere il suo desiderio, e commisurare quello che c’è con quello che manca al suo realizzarsi. Utopia? ma no: l’agire politico creativo, così ha origine; il resto, è l’operare meccanico di potenze impersonali, i cui effetti ad alcuni piace rivestire di nomi propri, come si faceva negli atlanti del Seicento: lago Alberto, isola San Salvador, etichette e fantasmi di una geografia non meno stupida dell’Europa antifascista. 

Per i nomi, forse, vale lo stesso che per le speranze: se ci rinunci fino in fondo, c’è un rilancio di sapere e di desiderio. Ma per arrivare a questa mutezza, che grande sforzo di voce, come dice Clarice Lispector: «Ah, mas para se chegar àmudez, que grande esforço da voz». Infatti, è un avanzare sempre più contrastato, fra la dolcezza crescente di un sapere non fissato a contenuti e libero da fantasmi, e la precisione estrema dei suoi comandi. Se non si trova la misura esatta, è il mutismo o il bla-bla, sintomi entrambi di ciò che abbiamo mancato. Che è il perfetto silenzio su cui s’impernia l’operare simbolico. Che grande sforzo di voce per arrivare al linguaggio che significa quello che è, dal suo interno. La mediazione attiva (la Marta di Maestro Eckhart, per intenderci con sufficiente precisione) non produce rappresentazioni di ciò che è: non ne ha tempo né modo né bisogno.

Rinunciare alla esteriorità delle rappresentazioni, è condizione della mediazione vivente; da questa, a sua volta, dipende, secondo me, un uso misurato delle mediazioni codificate. Ma possiamo rinunciarvi? Possiamo rinunciare alle speranze, ai nomi propri, alle etichette e ai fantasmi? Non so. Mi viene in mente che era la scommessa dei primi pensatori della rivoluzione copernicana: disancorarsi dalla fissità della rappresentazione per lasciarsi precipitare nell’infinità celeste. Forse, a ciò allude la sindrome storica delle persone giovani: non abbiamo perduto qualcosa di troppo importante perché valga la pena di mantenere una memoria storica? 

Luisa Muraro, Lo splendore di avere un linguaggio, in “aut aut”, 260-261, 1994, pp. 27-37.