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Esiste un legame molto stretto fra le parole e la politica, nessuno lo ignora. Per cominciare, «politica» è una parola. In politica, inoltre, si fa grande uso di parole. Pensiamo al parlamento. C’è di più, pensiamo a una frase come «prendere la parola». Mi soffermo su questa. Tra le figure che sì possono usare per far intendere il significato della politica, presa di parola è sicuramente una delle più precise. Le è rispondente, infatti, in senso sia metaforico sia metonimico. Per quest’ultimo aspetto, basta dire che non c’è politica, praticamente, senza un uso determinato della parola, che viene presa, data, tolta, negata ecc. Quanto alla metafora, essa nasce dall’interazione semantica del prendere e del parlare, la cui ricchezza sarebbe troppo lungo illustrare. Pensiamo soltanto al contrasto tra il verbo, materiale e possessivo, e il suo oggetto, fluido, mutevole, inafferrabile. Dalla considerazione congiunta delle combinazioni metonimiche e del significato metaforico, prende luce quello che avviene nel passaggio alla politica, quando cioè si passa da una convivenza regolata da altri, non si sa bene con quali criteri e spesso neanche esattamente da chi o da cosa, a un’esistenza consapevole e libera, che si cerca di rendere praticabile parlando e decidendo insieme alle persone interessate.

Mi viene in mente una lontana lettura, le bellissime lettere del conte (all’epoca si chiamava ancora così) Giacomo Leopardi all’amico Pietro Giordani, lettere con le quali il giovane poeta, costretto in tempi e luoghi senza luce, si apre alla possibilità di un’esistenza libera e grande. Penso, più vicino a noi, a quello che è capitato nel novembre del 1967, quando gli studenti della facoltà serale di Economia e commercio dell’Università Cattolica di Milano si ribellarono a un aumento di tasse e provocarono una rivolta che ci portò, noi dei corsi normali e loro, a occupare la sede principale dell’Università. Ricordo il gran parlare che si fece, prima davanti ai portoni di Largo Gemelli e poi, agli inizi dell’occupazione, nell’assemblea in aula magna (si potrebbe obiettare che un’occupazione non è una nuova forma di convivenza, bensì un atto aggressivo, quasi un inizio di guerra. Per finire, sì, è stato questo, essendo mancata una risposta interlocutoria dell’altra parte, che poteva giungere e, posso assicurarlo, avrebbe corrisposto felicemente alle nostre intenzioni, almeno agli inizi; fu soprattutto per mancanza di quell’interlocuzione che il nostro prendere la parola diventò un prendere la cosa). 

Pochi anni dopo, l’esperienza della presa di parola come esperienza politica sorgiva tornerà nella mia storia e in quella di tante altre con la pratica dei gruppi di autocoscienza che ha segnato la nascita del movimento femminista. I tre esempi sono molti diversi fra loro e fanno così risaltare il proprio del passaggio alla politica, che è operare (o progettare di operare, come nel caso del Leopardi, che insiste con Giordani sulla progettata fuga da Recanati) una rottura nell’ordine simbolico, che modifica il rapporto fra le parole e le cose. Senza parole non c’è politica. I gesti estremi di chi fugge – nei molti sensi che questa parola può prendere – senza dire niente, non è ancora politica, e non lo è neanche l’esercizio di un potere che non ha bisogno di parole.

La figura del prendere la parola si riferisce specialmente all’atto inaugurale della politica e non abbraccia il possibile risultato, ossia una modificazione significativa nelle forme della convivenza. Sappiamo, d’altronde, che questo risultato non sempre si dà. E che si può parlare di politica anche in assenza di quest’esito. Il risultato conta, ma di più conta come lo raggiungiamo, tanto che Simone Weil ha potuto scrivere che sono i mezzi a giustificare il fine e non viceversa. Questo un punto importante, non nuovo ma sempre da richiamare, e cioè che la lotta per un’esistenza più consapevole e libera, e per una convivenza che non sia tutta in balia di potenze superiori ed estranee, dal padre padrone alla polizia segreta fino al cosiddetto libero mercato, questa lotta significa, per se stessa, che c’è libertà. C’è come movente della stessa lotta politica, come altri hanno già ricordato. Ma non solo: c’è anche come libertà in atto, per un paradosso il cui significato troppo spesso si misconosce (e perciò si perde) nella tensione verso un obiettivo posto davanti, che ci fa voltare le spalle all’essenziale e ci fa dimenticare che l’essenziale si era presentato qui e ora, sia pure in forme enigmatiche che bisogna saper leggere. 

Il problema è che la presa di parola, come tutto ciò che è del rapporto fra la parola e la politica, non fa luce sufficiente sul paradosso e tende, anzi, a ignorarlo. Tant’è che restiamo moralmente disgustati, sì, ma senza argomenti politici, davanti all’uso strumentale della parola nella vita politica – anche questa una presa di parola – e davanti alla degradazione che colpisce l’una e l’altra. La tecnologia della televisione, d’altra parte, ha moltiplicato enormemente il potere di penetrazione della parola servile. Le parole non insorgono perché esse, per loro natura, si prestano a tutto e possono significare il falso o l’ingiusto con la stessa forza del bello e del giusto. Ci si allontana dalla politica per la convinzione che non ci sia nulla da fare, invece di allontanarsi, insieme alla politica, dai comportamenti che la degradano. Si sta diffondendo una sorda disperazione che è più appariscente dove si patiscono gli effetti di una sconfitta sociale, ma che non dipende tanto da quest’ultima quanto dal sentimento che il massimo cui possiamo aspirare è troppo poco – o qualcosa del genere. 

Tuttavia, io sostengo che, se si attribuisce a qualcuno o a qualcosa, dittatore o mercato, padre o padrone, o servo di padrone, il potere di fare tutto quello che vuole con le parole si sbaglia. Niente e nessuno ha veramente tanto potere simbolico. Il disgusto per la politica per quanto motivato, non è giustificato se solo ricordiamo la potenza che è e rimane nostra in quanto siamo «animali parlanti» e come tali capaci di politica e di libertà. Ma, per rendercene conto dobbiamo spostare la nostra attenzione e prendere in considerazione non la parola ma la lingua e, precisamente, la politicità della lingua. Chi ha letto Leopardi scrittore conosce la sua insistenza proprio su questo tema, che torna anche nelle lettere a Giordani.

Devo fermarmi sull’opposizione parola/lingua, che riprendo dal Corso di linguistica generale di de Saussure, tenendo conto dei principali commenti che ha ricevuto, dalla Scuola di Ginevra fino a Tullio De Mauro, che ci invitano a leggerla nel senso di una polarità – e non di una dualità – nel campo dei fatti linguistici. Una polarità, aggiungo, che non ha soltanto un valore per la teoria, ma che ci aiuta a capire la nostra stessa esperienza linguistica – si può infatti parlare di una vera e propria esperienza linguistica, secondo me. 

La scoperta saussuriana della langue ha fatto risaltare che il significato delle parole dipende né dai parlanti singolarmente presi né dal popolo come entità collettiva, ma dagli innumerevoli scambi di parola fra parlanti: la lingua è il medium e, al tempo stesso il risultato di questi scambi, la lingua, paragonabile a un codice, è necessaria ai parlanti per comunicare fra loro, ma la lingua fa ben di più, perché i loro scambi, che le sono ovviamente necessari per essere una lingua viva, essa li registra e li avvalora, trasgressioni comprese. La lingua è in questo senso un’istituzione (la parola risale a de Saussure), ed è l’istituzione più democratica che ci sia, perché il suo ordine non esclude, non inferiorizza, non discrimina, coinvolge tutti in prima persona, non impone deleghe né rappresentanza, non censura né penalizza. Parlare di «codice» e di «istituzione», per la lingua, è un aiuto mentale per pensare la sua autorità e il suo funzionamento, ma si tratta in fondo di semplici approssimazioni, perché, in realtà, non c’è codice che sia disposto a riordinarsi secondo le esigenze degli utenti, quali che siano, anche quella di trasgredirlo, e non c’è istituzione che rinunci a esistere fuori dal riconoscimento che riceve. La lingua invece lo fa, glielo consente la sua connaturata potenza mediatrice. 

La politicità della lingua consiste nel suo essere costantemente fatta e rifatta da ciò che essa stessa rende possibile, che è il vasto, incessante flusso degli scambi fra parlanti, tradizionalmente paragonato alla circolazione sanguigna o a quella del denaro, in una sorta di inesausta, mai definitiva ma non vana, contrattazione perché il nostro essere al mondo abbia un senso comunicabile e condivisibile con altri.

Spostare il punto di vista dalla parola alla lingua equivale a privilegiare la competenza rispetto alla prestazione, la performance. La competenza simbolica appartiene di diritto non ai letterati o agli eruditi, ma ai parlanti nativi. Con ciò, io non sono interamente d’accordo che s’insegni la lingua materna senza insegnare la grammatica e la sintassi, anzi, purché si insegnino riscattate da ogni normatività antipoetica: c’è infatti una «poesia della grammatica» come la chiama Roman Jakobson, e c’è una musica che si scrive con la sintassi. Che cosa significa insegnare italiano a un ragazzo, a una ragazza, se non far loro provare e praticare il passaggio dalla mutezza di un vissuto ancora verde alla costruzione di un mondo intersoggettivo? E poi, mostrare loro come la lingua sia genialmente attrezzata per rispondere ai loro bisogni simbolici, e non solo; come anche sia disposta a tener conto dei loro apporti idiomatici e a valorizzarli. Questa risposta di avvaloramento, agli inizi della vita viene da chi insegna a parlare, che di fatto spesso è la madre. In seguito, può venire direttamente dalla lingua, purché sappiamo sollecitarla. Come? Usandola e imparando a usarla meglio ancora, così come D.W. Winnicott ha parlato di usare lo psicanalista e Clarice Lispector, Dio, in La passione secondo GH – parlo di un saper usare la lingua, e non semplicemente le parole, parlo cioè della scoperta e del godimento del valore d’uso dietro e oltre il valore di scambio.

Ecco che a questo livello, nella prospettiva aperta dall’attenzione per la lingua, la prestazione verbale riprende credito come possibilità di un agire simbolico che è avvalorato dalla lingua, e del quale nessuno può appropriarsi contro o sopra gli altri. E cominciamo a poter pensare a una politica che, pur nella tensione verso il cambiamento, non volta le spalle al nuovo che si è fatto presente qui e ora fra noi che ci parliamo, con la lingua che ci parliamo. 

Per uscire dalla vaghezza di questo nuovo che si fa presente con la lingua, devo aggiungere qualcosa. Fin qui si è trattato di scambi fra le/i parlanti e ho detto che la lingua li rende possibili. La lingua rende possibile anche un altro tipo di scambi, scambi o negoziati, quelli che passano tra ciò che siamo-viviamo e ciò che (ne) diciamo. Vorrei essere più precisa. Mi aiuterò con un punto di dottrina della linguistica, punto antico ma sempre un po’ bisognoso di essere ricordato, riguardante la natura peculiare del segno linguistico.

Ci sono segni che agiscono evocando nella nostra mente qualcosa di esterno a essi, così come un cibo mi ricorda l’infanzia o il rosso del semaforo mi comanda di non attraversare. I segni della lingua non agiscono in questa maniera, un segno linguistico non rimanda a qualcosa di esterno, perché a rigore niente gli è esterno, in quanto esso nasce, necessariamente insieme a tutti gli altri segni di quella lingua, nel momento in cui, per così dire, il mondo si consegna tutto alla possibilità di essere significato, che è quello che avviene a mano a mano che impariamo a parlare. Si può dire, in altro modo, che un segno linguistico è tale in quanto parte di una totalità, la lingua, che ha il potere di significare la totalità delle cose, compresa se stessa. Una lingua, fosse pure la più rudimentale, è l’universo-mondo che si rende dicibile. Con la sua natura composita di significante e significato, e con il rimando necessario agli altri segni, ogni segno linguistico non fa che ricordare e rinnovare questo scambio tra l’interezza muta e l’esperienza parlante, scambio che è la fonte del suo valore d’uso. E in quest’orizzonte che il «nuovo» può presentarsi. 

Aggiungo che gli scambi o negoziati in cui il mondo esce dalla chiusura ermetica dell’immediatezza per lasciarsi abitare, conoscere, trasformare, non sono separabili dagli scambi linguistici in senso stretto, quelli fra le/i parlanti, come è evidente a chi considera il processo di apprendimento di una lingua e, ancor più, quello dell’imparare a parlare. Probabilmente, è il desiderio o il piacere o il bisogno di comunicare con gli altri, in primis con la madre, che fa di noi, in prima persona, il luogo della resa del mondo alle possibilità espressive di una lingua qualsiasi. Sicuramente, il valore linguistico, ossia il significato dei segni, ha due fonti, una è costituita dal modo in cui il reale si arrende al simbolico, seguendo le caratteristiche di questa o quella lingua; l’altra e la società, ossia l’insieme degli scambi tra i parlanti di una stessa lingua. Da cui risulta quello che è risaputo per altre vie e cioè che lo stato dei rapporti sociali è sempre anche una questione di lingua. 

Anche il cambiamento dello stato dei rapporti sociali è sempre pure una questione di lingua. Parlando degli scambi o negoziati che passano fra l’esperienza che viviamo e i discorsi che facciamo, ho lasciato credere che si tratti di un processo senza resti né problemi come se il mondo si consegnasse tutto e docilmente alla possibilità di essere significato. Non è così. Il mondo è uno e le lingue sono molte, e questo è un segnale. Ci sono altri segnali e altre esperienze della difficoltà di passare dalla mutezza alla parola. Una, che riguarda forse più le donne che gli uomini, più gli adolescenti che gli adulti, è l’esperienza di una personale «acosmia», ossia non ritrovarsi in quel mondo (cosmo) che si rende dicibile nella lingua che si parla; come se il negoziato che dicevo fosse in perdita di qualcosa, di un sentire, di un desiderare, di un sapere perfino dei quali la lingua non rende conto, dando così luogo a un difficile rapporto con il mondo delle parole. Alla semplice ignoranza della lingua si rimedia con lo studio. Ma lo studio può solo coprire i resti e i problemi legati alla significazione del mondo, nulla di più. Perché, quando i conti non tornano, resta al fondo un insormontabile, inesprimibile, quasi sempre inconsapevole, eppure continuo, forte e sensibile senso d’inadeguatezza che fa della lingua un’istituzione non accogliente e democratica ma ostica e usuraia. Sto enfatizzando l’aspetto di sofferenza di esperienze che però si conoscono anche e meglio dal loro frutto positivo, che è una decisione (decidere alla radice è un tagliare via) più radicale della semplice presa di parola.

Di quella primaria e mai conclusa contrattazione tra mutezza e parola, in cui consiste il saper parlare noi siamo informati in qualche modo, specialmente quando qualcosa «non va». La perdita di competenza simbolica, infatti, dà al mondo una consistenza estranea, quella di una pietra messa sulla tavola al posto del pane. Allora può succedere che esigiamo la cosa che è fuori dal potere di decisione di chicchessia, che è cambiare la lingua e volere addirittura una lingua mai parlata prima. Diciamo «non voglio più parlare una lingua qualsiasi» ma una lingua che mi risponda, che è il modo più radicale di mettere in questione un certo stato dei rapporti sociali. Naturalmente, ma bisogna dirlo, non ci sono lingue «qualsiasi»; ci sono, bensì, molte lingue, ma neanche questa pluralità è sufficiente. Si vuole una lingua «nuova».

Nel frangente creato dalla domanda di un’impossibile lingua nuova, la politicità della lingua s’incontra con la poesia e la poesia si mette a essere politica, restando fedele a se stessa. La politica, invece, nell’incontro – se ci sta – guadagna la capacità di tenere presente l’essenziale.

La poesia, intesa come arte della parola, lavora per vocazione sul confine convenzionalmente stabile, in realtà mobile e combattuto, dei rapporti che i segni intrattengono fra loro e, ciascuno al proprio interno, fra significante e significato, in un gioco da cui dipende la figura che prende il mondo. L’esperienza poetica, che sia di scrittura o di lettura o di ascolto, fa scoprire questo gioco e che si può giocarlo; in altre parole, fa scoprire che il mondo da fuori, separato e fisso, può passare a essere dentro-fuori di noi, in circolo con la nostra esperienza, modificabile e aperto, com’era quando abbiamo imparato a parlare.

Ricordo, del tempo in cui insegnavo alla scuola dell’obbligo, nella periferia milanese, l’effetto che fece la lettura di Pinocchio su un alunno di cui ho dimenticato il nome, ma non l’aspetto fisico: minuto, scuro, nervoso. Era il classico ultimo della classe, refrattario al lavoro scolastico e, apparentemente, incapace di scrivere e perfino di leggere un testo di una certa complessità. Ma questo risultò non essere vero, perché quando lesse Pinocchio trovò un libro che lo comprendeva e che lui capì ex novo. Ci scrisse sopra un commento che mescolava la sua vita personale, tutt’altro che lieta, con le avventure del burattino nel quale aveva riconosciuto un suo alter ego, facendo un racconto in cui parlava comicamente di suo padre, un operaio invalido del lavoro e costretto in carrozzella, del suo segreto bisogno di amarlo e di rispettarlo, e della disperazione di non riuscirci.

Faccio questo racconto e dico queste cose non per concludere con la celebrazione della letteratura e della poesia, ma, quasi al contrario, per contrastare l’esaltazione dell’arte per l’arte che ha continuato a crescere e a diffondersi, in passato, forse al posto della perduta cultura religiosa e ora anche al posto della partecipazione alla vita politica, come una specie d’incantamento che fa da surrogato ai ripetuti disincanti della modernità. Penso che la grandezza della letteratura sia la grandezza della lingua che parliamo resa manifesta da una pratica di parola che disfa e rifà la maglia dell’ordine simbolico in rispondenza a quello che c’è. Un poeta, Giacomo Trinci, riflettendo sul suo lavoro, ha detto che la poesia è «profetica di ciò che già c’è». Non ci sono valori estetici, ma linguistici. Voglio rendere pensabile quest’idea, che il valore della letteratura si afferma quando l’esperienza della lettura si iscrive nello spazio non letterario della vita di tutti i giorni. E tanto meglio lo fa, tanto più grande è. Vorrei poter pensare che il successo di pubblico sia una misura più esatta di tutte le critiche letterarie, com’è stato per Dante e Shakespeare. E per Jane Austen, con Orgoglio e pregiudizio, e per Collodi, con Pinocchio. Vorrei che il tempo dei musei e delle avanguardie fosse finito.

Forse, parole come «creazione» e «creatività» portano fuori strada? Il poeta appena citato non parla di creazione, dice «quello che c’è». Scomparsa l’estetica della creazione, ritroviamo il paradosso incontrato agli inizi riflettendo sulla presa di parola, e non c’è da meravigliarsi, se è vero che la decisione politica ha un effetto poetico, e la poesia uno politico, ed entrambi attengono alla politicità della lingua. È quest’ultima che ha la capacità di far perdere al mondo la sua consistenza di sasso. Spesso si crede di celebrare la poesia per contrasto con quello che non è poesia – scienza o vita quotidiana. È una implicita rinuncia a qualcosa cui io non posso rinunciare. Che cosa? Difficile rispondere: la possibilità di altro…, ma intendiamoci, altro presente qui e ora, l’impossibile imprigionato nel reale. Crediamo veramente che si possa vivere senza? 

Luisa Muraro, Non una lingua qualsiasi, in AA.VV. Lingua bene comune (a cura di Vita Cosentino), Città Aperta Edizioni, Troina (EN) 2006, pp. 79-87.