Condividi

La lingua è politica. In effetti, ho sempre pensato che la politica si facesse soprattutto con le parole. Programmi, articoli, discorsi, dibattiti. Giornali e volantini da diffondere, manifesti da affiggere. Le parole sono un’arma per dimostrare e confutare, convincere! Al limite, per lasciare l’altro senza parole: disarmarlo. Magari, voi preferite usare le parole in modo più relazionale, per creare connessioni e comprensione reciproca. Sì, tra parenti, amici e compagni dovrebbe funzionare così. Perciò biasimo le lotte intestine, pur prendendovi parte. Ma il mondo è pieno di estranei, avversari, nemici con cui bisogna essere pronti a combattere. Meglio, allora, usare le parole come armi che le armi come parole. Dove li trovo tutti questi nemici? La militanza nei gruppi politici li fa incontrare di rado, salvo essere impegnati nelle assemblee elettive. Nel gruppo si sta quasi sempre insieme tra compagni. Motivo per cui ci si divide. Nemici ne ho incontrati a frotte da quando sono sbarcato su Internet, nel 1998.

All’epoca, c’era molto poco in confronto a oggi, tuttavia il web era già una miniera di parole, documenti, informazioni, sempre più in tempo reale. C’era la posta elettronica! Soprattutto, c’erano i gruppi di discussione, mailing list e forum. Tante arene in cui combattere. Anche troppe. Incontravo avversari normali, tipo democristiani e liberali, ma rimanevo impressionato dagli incontri ingestibili. Fascisti, nazisti, negazionisti dell’olocausto, razzisti, antisemiti, indipendentisti padani, comunitaristi, rosso-bruni, mascolinisti che volevano liberare l’Occidente dal femminismo. Le parole diventavano un mare di delirio. Rispetto al quale la reazione repulsiva delle persone democratiche e civili mi pareva debole. Selezionai ambienti e interlocutori, sebbene pure quelli “normali” cominciassero ad apparirmi strani.

Era il tempo della guerra del Kosovo, la seconda Intifada, il popolo di Seattle; subito poi vennero il G8 di Genova, l’11 settembre, la guerra al terrorismo, le invasioni di Afghanistan e Iraq. Io mi sentivo dalla parte dei movimenti. Pacifisti e cosiddetti no global (preferivo new global, globalizzazione sì, ma democratica). Mi colpivano le persone sostanzialmente di destra collocate convenzionalmente a sinistra. Estremisti di centro. Sostituivano la guerra fredda con la guerra di civiltà. Sostenevano in modo aperto il ricorso alla forza militare. Inorridivano per i propri morti, vittime del terrorismo islamista, ma giustificavano le vittime civili altrui, sotto i bombardamenti occidentali, anche con un cinismo ostentato. Inoltre, accusavano i pacifisti in modo grossolano di essere dalla parte della Russia, della Cina, del fondamentalismo islamico, pregiudizialmente ostili all’America (antiamericani) e a Israele (antisemiti). Molti, identificandosi con le parti in conflitto, esibivano bandiere nazionali nei loro avatar e slogan bellici come firma. Per parte mia, cercavo di adottare questo metodo: mostrare un atteggiamento temperante, differire le repliche, rimanere concentrato sull’argomento qualunque cosa mi dicessero. Come avatar usavo un mappamondo e come firma una frase della scrittrice indiana Arundhati Roy: «Le bandiere sono pezzi di stoffa colorata che i governi usano prima per avvolgere il cervello della gente e poi come sudario per seppellire i morti». In quel contesto, i miei modi neutri erano considerati urbani, ma anche poco umani e persino subdoli. Per me, era una tattica di autodifesa. In presenza sarebbe stata più complicata, per iscritto mi riusciva abbastanza bene. Negli schemi manichei della guerra, sfumature e problematizzazioni erano rifiutate come tentativi di fare il furbo o di essere, senza volerlo, l’utile idiota del nemico.

Quell’attivismo grafomane-interattivo era eccitante e frustrante. Dava la sensazione di partecipare e contribuire a orientare l’opinione pubblica. Se l’avversario non si poteva convincere, c’erano altri che leggevano. Inoltre, per sostenere le proprie posizioni, confutare quelle avversarie, rispondere alle obiezioni, respingere le accuse, demistificare la propaganda e le false notizie, bisognava informarsi un sacco. Improvvisamente, imparai tante cose sui Balcani, il Medio Oriente, la globalizzazione. Imparavano anche gli altri. Era una corsa informativa e formativa agli armamenti delle parole. Tuttavia, saperne di più mi pareva una buona cosa. Non solo. Poiché i media più importanti, tra le televisioni e i giornali, sostenevano la guerra, il dibattito in rete sembrava l’occasione per promuovere i media alternativi, quello classico, il manifesto, ma anche tanti nuovi siti pacifisti e antagonisti. Fonti che venivano subito attaccate sul piano della credibilità, da scegliere quindi con attenzione, per poterne poi difendere la reputazione.

Ogni tanto sentivo di meritarmi interlocutori più raffinati. Giornalisti, scrittori, intellettuali, filosofi, dirigenti politici. Era il 2008, anche in Italia arrivarono i social media. Facebook e Twitter. Ogni barriera sembrava saltata; potevo raggiungere chiunque. Ahimè, i miei desiderati interlocutori non portavano sui social la stessa qualità dei loro libri e articoli, anzi cominciavano a somigliare sinistramente agli utenti dei forum. Tuttavia, il volume delle interazioni era altissimo. Potevo parlare a centinaia, anche migliaia di persone, direttamente e tramite le condivisioni. Era l’illusione del giocatore d’azzardo, che vince le prime giocate, finisce irretito nel gioco e poi, piano piano, perde tutto. In breve tempo, i social fagocitarono ogni cosa: partiti, aziende, istituzioni, giornali, televisioni, vip di ogni genere. I blog amatoriali, prima vincenti, finirono ai margini. I loro link persero di visibilità. Per un attimo, ci fu un rilancio con la pubblicazione diretta dei propri testi, ma poi anche la visualità di questi si attenuò. Siamo negli anni della pandemia e subito dopo. Ad oggi, insomma. Il feed della home page di Facebook è ormai pieno di inserzioni pubblicitarie, messaggi sponsorizzati, link acchiappa click, umorismo volgare, un’infinità di roba che non ho mai chiesto di vedere e che continuo a vedere, pur oscurando post e profili, perché come funghi ne saltano fuori altri di nuovi e uguali. Sempre più difficile essere seguiti, sempre più difficile seguire chi mi interessa. L’illusione di partecipare finisce nell’essere rimessi nella posizione dello spettatore passivo. Forse anche nomi e marchi sono in difficoltà. Vedo agenzie di stampa e altri enti importanti mettere i propri link solo nel primo dei commenti, secondo la credenza di poter così aggirare la presunta penalizzazione dell’algoritmo. Le grandi piattaforme digitali seguono modelli di business per il profitto a breve termine. All’inizio si sono proposte di servire noi, fin quando e quanto è stato necessario per convincere noi a servire loro. Dovremo trovare il modo di smettere di farlo, risolvendo la paura di rimanere tagliati fuori.

In questo contesto social-mediatico, è molto difficile trovare il modo di darsi una parola forte e autorevole, quale che sia il suo fine, senza essere forti e autorevoli in partenza. Si può coltivare la competenza e l’efficacia comunicativa, ma questa coltivazione implica molto tempo e lavoro, risorse di cui dispongono quelli già forti e autorevoli, non quelli che lo vogliono diventare, a meno che non siano molto giovani o arzilli pensionati. Salvo eccezioni legate a nicchie stravaganti. Se sai raccontare bene l’esistenza dei dischi volanti, un pubblico di seguaci ufologi potrebbe seguirti. I social strutturati in profili individuali vestono bene l’individualismo, l’idea che sia meglio e più gratificante agire da soli, senza mediare con altri, a cui compete solo il feed-back. Eppure, questa è l’alternativa più naturale. Tornare ad associarsi. Come molte realtà già fanno e alcune non hanno mai smesso di fare. La stessa Libreria delle donne.

C’è poi una questione ulteriore. Nella mia foga di saperne di più, sono arrivato a consultare la stampa estera, in particolare quella anglosassone. Mi sembra di una qualità diversa da quella italiana. Il livello di dibattito più alto, informazioni più accurate, polemismo e dileggio molto più ridotti. Sulla prima pagina del New York Times non troviamo l’elenco dei putiniani in America o il corsivo che sbeffeggia una professoressa come Donatella Di Cesare. L’accusa di antisemitismo usata come una bomba stupida sul dibattito pubblico è continuamente discussa. Di genocidio dei palestinesi si può parlare. Perché? Mi sono fatto questa idea. La stampa americana è la stampa di un paese che ha il potere di influire sulle sorti del mondo, la stampa italiana no. Se non siamo giocatori, possiamo solo tifare. Ai tifosi basta urlare slogan. L’argomento ultimo (o il primo) di molti filoccidentali, quelli della narrativa per cui noi siamo i buoni contro i cattivi, è questo: l’Italia sta nella Nato e non può pensare, dire, fare diversamente dagli Stati Uniti. Pena, pagare un prezzo militare, commerciale e finanziario troppo alto. Lo afferma a chiare lettere la presidente del consiglio nel suo ultimo libro intervista. Ha ragione? Bisognerebbe capire cosa può davvero fare un paese come l’Italia. La “nazione”, nella lingua dei nostri attuali governanti.

Penso, così, che questa sia la risorsa più importante per darsi una parola forte e autorevole. La convinzione, credibile a sé stessi, di essere influenti, di poter fare qualcosa di importante. Senza la quale rimangono solo il tifo o il sottrarsi.