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Vorrei partire dalla frase con cui si è conclusa la riunione, che ricordo così: «Noi non stiamo vivendo una guerra. Questo deve esserci chiaro: noi non stiamo vivendo una guerra».  

Parto da qui perché per me il punto cruciale è proprio questo: che cosa stiamo vivendo? E subito mi sembra di non avere molte parole. Per dire quello che provo di fronte a una guerra (anzi due) che forse non stiamo vivendo, ma che mi riguarda. E già in queste quattro sillabe (“mi riguarda”) c’è dietro un mondo, di sguardi appunto, o cecità, rimandi, connessioni. Che mondo è? E cosa provo? Rabbia? Paura? Spaesamento? Non bastano, non dicono, non aprono pensiero. Ci sono molte guerre nel mondo di cui probabilmente sappiamo ben poco, almeno io che gli sottraggo sguardo. Ma queste due, in Ucraina e in Palestina, coinvolgono il mio quotidiano, il mio stare nelle cose mentre lavo i piatti, mentre guardo un telegiornale, mentre scelgo che libro leggere, mentre parlo. Ho scoperto uomini e donne, che stimo, ingrovigliati nell’apparente imperativo di prendere posizione. Ho scoperto me stessa, nel parlarne, inchiodata dai miei interlocutori a pensieri o posizioni che non ho, come se non ci fosse altra possibilità che schierarsi. Questo la guerra lo fa. Prima ancora di cancellare corpi e vite, cancella le mediazioni, la complessità: polarizza, astrae, semplifica. Non tanto e non solo fuori di me, ma dentro, nascostamente. Si insinua il dubbio che non ci sia alternativa allo schieramento, da una parte o dall’altra, pena la condanna all’irrealtà, all’utopia, a una qualche idea di pace non vera, non possibile perché slegata dal reale, dalla Storia.

Mi sono sentita chiamare dall’intervento da Vita Cosentino, dalla sua dichiarata difficoltà a prendere parola sulla guerra. E mi tremava la voce, perché sapevo di non avere nulla da offrire di sensato, se non domande, necessità, bisogni magmatici (poco salvifici in fondo, poco stimolanti).  Eppure questa necessità la sento nella carne: dare parola a quello che viviamo. Proprio a quello che donne stiamo vivendo rispetto alla guerra, qui e ora. 

Come si vive una guerra a distanza? Fenomeno relativamente nuovo, dovuto alla pioggia, anzi alla tempesta di informazioni e immagini che piovono dal cielo, quasi come bombe. Da anni ormai, abbiamo l’impressione di vivere quasi in diretta stragi, bombardamenti, la conta dei morti, le case distrutte. Ricordo le immagini delle prime bombe “intelligenti” su Bagdad nel 2003. Era già successo, ma mi accorsi per la prima volta della “bellezza” di quelle immagini, le luci perfette, perfetti i colori, la messa a fuoco, la stabilità della telecamera. Come in un film. E come un film ipnotizzava. Praticamente in diretta e quasi in mondovisione, come le partite di tennis o di pallone. Sei lì, partecipi, ma non ci sei. Sono scaraventata lì, partecipo, ma non ci sono. Che razza di esperienza è? Cosa significa nella mia vita? Far parte di un paese che invia armi per la difesa di un paese amico invaso? Lo stesso paese (il mio) che appoggiò l’invasione dell’Iraq in una guerra preventiva, le cui motivazioni, si ammette dopo vent’anni senza troppo scalpore, erano false? Che luogo abito, o mi abita? Uno spazio nel quale, soprattutto, le notizie che arrivano non so più, non ho modo di sapere se sono vere o false? 

Non sono analitica. Nel senso che non riesco a usare capacità analitiche per aprire uno squarcio creativo, di pratiche, azioni, parola, di cui sento il bisogno, enorme. Ma sono grata agli interventi che hanno analizzato l’uso della lingua in questo momento nei media. Grata al prezioso intervento registrato di Giulia Siviero e Ida Dominijanni, che svela sapientemente i meccanismi, le dinamiche della finzione, della costruzione ideologica di ogni racconto sulla guerra. Penso alla verità, a questa parola che mi si frantuma tra le labbra. E svela la sua inconsistenza (sicuramente più antica di quel che credo). Tanto che la ricerca della parola come verità, in un momento storico in cui nulla è fermo, ma tutto si muove e si confonde, rischia di essere fuorviante, di chiudermi, chiuderci nella stessa logica di opposizione dalla quale desidero uscire. Faccio un esempio. Quando Paola Mammani si è alzata e ha detto in modo perentorio: «Non siamo in guerra, questo deve esserci chiaro!», ho pensato ce l’avesse con me. E subito: ma io non ho detto questo! E perché dice che non stiamo vivendo una guerra? Non è vero! La viviamo invece, eccome! Forse in altro modo senza saperlo…

Per fortuna la riunione è finita. E dopo pochi minuti ho potuto riconoscere come funzionava in me l’abitudine malata, contratta quasi per osmosi, di pensare secondo una logica di opposizione: questo sì, questo no, vero/falso, giusto/sbagliato, democrazia/totalitarismo. 

Vado per salti, lo so e me ne scuso. Ma riesco a pensare solo così, saltando da un livello all’altro. Un pensare ballerino, salto a ostacoli, a dimensioni. Provo a prendere pausa, respirare e spiegarmi.  Ho tentato di pensare, non da sola, alla necessità di un universale donna, di una parola autorevole come quella divina. Le guerre gli uomini le fanno in nome di Dio, della patria, della democrazia, della giustizia. In nome di cosa posso fare la pace io donna? Un salto in alto, a cui non sono allenata. Mi faccio piccola allora, salto nella pozzanghera, nel piccolo stagno, nella minuscola palude in cui affondano i piedi. E mi mancano le parole delle palestinesi, delle ucraine, delle madri dei soldati russi, persino quelle dei soldati, per capire cosa sta accadendo, cosa mi accade in questa distanza prossima, o vicinanza lontana, attraverso la quale passano emozioni senza voce, guidate da un narrare falsato e parziale, ma passano eccome e fanno male. Mi mancano parole di donne a me fisicamente vicine, spesso sospese tra il silenzio, che momentaneamente evita quel male, e la voglia di opporsi, di prendere posizione. Parole che dicano semplicemente cosa e come stiamo vivendo, o vogliamo vivere in questa guerra (a distanza). Mi manca il vissuto. E non credo in una verità senza vita, così come in una lingua che fatica a dire l’esperienza. 

Provo sconnessamente a dirne e chiedo. Per favore, continuiamo a parlarne.