Katja Petrowskaja, immagini tradotte nella logica dell’esperienza
Katia Ferretti
5 Maggio 2024
Da Alias – il manifesto – Costruito come corredo di didascalie narrative a una galleria di cinquantasette immagini fotografiche della più disparata provenienza, il libro di Katja Petrowskaja La foto mi guardava (traduzione di Ada Vigliani, Adelphi, pp. 259, € 24,00) sprigiona una forza che attinge in eguale misura al dominio della parola e a quello dell’immagine: l’una rinvigorisce e feconda l’altra, la colora di senso e magia. Per realizzare il suo lavoro – che raduna brani nati tra il 2015 e il 2021 come singoli pezzi giornalistici, ognuno dotato di un titolo carico di significato – l’autrice compulsa volumi fotografici e archivi privati, visita gallerie di artisti contemporanei, setaccia librerie antiquarie e bancarelle.
Attenta al punctum di Roland Barthes come alla sezione aurea, insegue la logica che vige nello spazio di ogni foto, la sua capacità di farsi “esperienza”, di essere vissuta con un alto grado di interattività (in “Babuška in cielo” la figura di anziana vestita di tutto punto, stile primi anni ’70 sovietici, e librata a mezz’aria su una seggiovia che si inerpica su una qualche vetta, innesca un intenso scambio di visione tra chi è ritratto e chi vede la foto).
Petrowskaja seleziona scatti evidentemente fortuiti, di un minimalismo disarmante, o immagini cesellate «fino a che non resti altro che l’anima distillata». Se «ogni foto mette in salvo qualcosa di transitorio», in alcuni casi «ciò che accade all’improvviso plasma il tempo», come nell’inquadratura di Vanessa Winship commentata nel pezzo titolato “Sul Mar Nero”, in cui conta ciò che resta fuori dal campo visivo, ciò che è immaginato come “in procinto” di entrare in scena.
L’intento dichiarato è quello di cogliere il rapporto trasognato che si instaura tra luce e oscurità, umanità e paesaggio, movimento e immobilità: tutte le «transizioni tra natura e cultura», insomma. Non senza interrogarsi sullo statuto di verità reclamato da una foto, per rilevare eventuali distorsioni tra realtà e imposture: è il caso di “Curva radiosa” – con la simulazione di normalità inscenata dal governo sovietico alla Corsa per la Pace partita in bicicletta da Kiev nel maggio 1986, mentre le onde radioattive di Černobyl’ colpivano alla stregua di un nemico invisibile; o di “Paese calpestato”, in cui l’Ucraina del ’42 è fotografata da un soldato tedesco come se le tracce della guerra fossero parte del ciclo delle stagioni.
Nelle pagine di questo volume Petrowskaja rincorre temi e luoghi prediletti, capi di una trama narrativa già dipanata diffusamente in Forse Esther, itinerario romanzesco e documentario al tempo stesso nei meandri della propria genealogia: le peculiarità del mondo ebraico e i diritti delle donne, il destino storico dell’Ucraina e le vicissitudini di Praga o Berlino, i relitti dell’utopia sovietica andata in pezzi (nel brano “Restricted Areas” il sogno della felicità futura viene fatto indietreggiare fino a toccare il più remoto passato, quello dell’era glaciale). Ma anche «lo scollamento tra vita reale e American Dream», e perfino l’incontro tra quei due blocchi al tempo della guerra fredda – come in “Samantha dello spazio”, o “Disgelo”; o in “Eyes Wide Shut”, in cui viene richiamato il viaggio nell’Urss del 1947 di John Steinbeck e Robert Capa.
Il libro è saturo di rimandi culturali, al crocevia di molte arti, emozioni e saperi: ci imbattiamo nei nomi di Andrej Tarkovskij, David Lynch o Wim Wenders, ma anche nelle performance del giovane artista russo Pëtr Pavlenskij – assimilato ai martiri protocristiani per il suo uso del corpo come strumento di sfida allo stato. Su tutto dominano gli scrittori: Calvino e Lispector, Kafka e Šalamov, Kerouac e molti altri ancora, ad animare un personalissimo, decisamente accogliente pantheon letterario ideale.
E se la pittura, madre della fotografia, è costantemente sullo sfondo, alcuni tra i più classici prototipi artistici universali trovano nuova carne e veste in creature del più concreto oggi: ci viene così incontro una Venere di Botticelli in panni di migrante, avvolta nel velo dorato di profuga scampata al mare ed emblema di tutti i salvati; o una “Madonna dell’Alentejo “– la madre rom portoghese intenta ad allattare nel primo piano di una movimentata foto di gruppo che «mostra tutte le sfumature tra l’autenticità e la messinscena», «tra la street photo e il tableau vivant».
Mettendosi sulle tracce delle biografie di fotografi variamente noti, o accumulando congetture su quelli anonimi, Petrowskaja lascia emergere una manciata di tratti che si stagliano indelebili: il genio di Francesca Woodman, morta suicida a ventidue anni; il volto ineffabile della regista e danzatrice Maya Deren (ripreso in copertina); le imprese documentaristiche di Josef Koudelka al tempo della Primavera di Praga. Su tutto si innesta la grana del ricordo, senza eccessive distinzioni tra reminiscenze dell’infanzia sovietica e memoria storica, déjà-vu più o meno veritieri, che rendono possibile abbracciare stratificazioni temporali multiple, o ricordi mancati che scattano nell’atto stesso del guardare e colmano vuoti o afasie indicibili. Oppure sogni altrui in cui veniamo catapultati.
Ne viene fuori un libro-caleidoscopio della modernità e dei suoi smarrimenti, taccuino di catastrofi immani e di singoli gesti coraggiosi, che è al contempo camera oscura della memoria personale di Petrowskaja e flip book del presente dell’umanità. Un cifrario dell’oggi che si srotola nella ricerca di verità e bellezza, vivificato da gioie minime di artista: quando l’autrice fotografa una nuvola insolita, si dichiara felice come se fosse stata lei a crearla.