Accogliere: a scuola si può imparare
Maria Cristina Mecenero
3 Novembre 2015
Vite in transito: non lo sono, di fatto, le nostre? Tutte. Così ho pensato davanti alle opere di Adrian Paci, artista albanese, due anni fa in mostra al Pac. Così mi sono trovata a ripensare in questi mesi.
I commenti agli arrivi dei profughi – «Sono centinaia, sono migliaia, non possiamo riceverli tutti, dobbiamo mettere paletti, rivedere i criteri, definire nuove regole» – li ho ascoltati inerme prima, imbarazzata poi. A un certo punto, e improvvisamente, ho immaginato che l’Europa (ma esiste?), dicesse altro. Questo: «Venite pure, vi accogliamo tutti». Ho percepito lo spazio che si apriva in me e tra noi, a dirlo. «Venite pure, abbiamo i nostri problemi e non di poco conto, ma con il vostro aiuto possiamo farcela». Intanto nella mia mente un ritornello aveva preso a risuonare: «Non possiamo dire altro, non possiamo fare altro. Se facciamo dell’accoglienza la traiettoria, ne verrà solo bene. Tutto cambierebbe». Ma non sta comunque cambiando? Solo che sarebbe accompagnato da un di più di respiro, di abbraccio. Queste immagini e queste voci mi aiutavano – mi aiutano tuttora – a non cadere nella paura, a non contrarmi.
C’è un presupposto, mi dicevo: accettare che tanto si trasformi, del nostro mondo, pieno di case, cose, inganni politici e industriali, illusioni, inconsapevolezze molto diffuse, radicate e ben mimetizzate. Un’amica mi ha detto: «Chi viene ha deciso che non poteva più rimanere là dov’era. Nessuno può discutere la sua scelta. La terra è di tutti. E se saremo troppi a un certo punto qua, ci sposteremo, ci ridistribuiremo». Io la penso come lei.
Certo è un pensiero che è guida e al contempo richiama un pericolo: la messa in subbuglio di un ordine, di un benessere – il nostro. Questa mescolanza di genti che si va creando sotto i nostri occhi, di giorno in giorno, potrebbe essere occasione per rimettere mano a questo e a quello. Che proprio ordine e benessere raggiunti e maturi non sono. Io sento che ci è richiesto coraggio e invenzione.
Ci sono tante situazioni che domandano la risposta dell’accoglienza. Per me che insegno vale ricordarmi sempre, rinnovando l’idea e la pratica, che l’accoglienza è inizio di una storia, inizio di una relazione. A volte viene in un secondo tempo, e allora bisogna mettersi di impegno a sciogliere i guasti che si sono frapposti fra noi a l’altro. È specchio di quali orizzonti stanno prendendo piede dentro di noi, ognuno di noi, e nel nostro insieme. Nelle scuole italiane, che accolgono migliaia di creature in crescita e di adulti che le accompagnano, è messa alla prova da una crescente burocratizzazione e da una invadente proliferazione di impegni che rimandano ad altri piani (programmatici, organizzativi). La buona tradizione, ancora viva in varie città e paesi, di incontrare madri e padri di bambine e bambini nei giorni immediatamente precedenti l’apertura del loro primo anno scolastico, per conoscersi, parlarsi, dirsi ciò di cui si ha bisogno e ciò che si intende fare, non viene più praticata ovunque. Persino il momento iniziale – organizzato di solito intorno a una drammatizzazione o a gesti simbolici che accompagnano con un rito collettivo l’inizio di un nuovo percorso – viene schiacciato tra un atto ufficiale e l’altro: in classe ci sono molte formalità da sbrigare, i documenti da distribuire (molti e articolati), la lista del materiale da consegnare. Burocrazia al posto di apertura e invenzione. Un incipit che implode. Alle insegnanti viene consigliato, proprio da chi dirige le scuole, di non avere contatti telefonici con le famiglie. Di non superare certi confini. Al posto di alleanze e legami si tratteggia la strada del sospetto, del giudizio. Dell’inimicizia.
Dal mio osservatorio rilevo che i messaggi sono ambigui e bisogna tener saldo lo sguardo verso ciò che di positivo continua ad accadere, facciamo accadere. Le scelte individuali e collettive in questo scenario fanno la differenza: ciò che agiamo, con fatti e parole, ci dà o ci toglie possibilità. La nuova scuola in cui mi sono traferita da quest’anno ha scelto di creare un legame di accoglienza tra le classi quinte e le prime. Noi maestre, insieme, abbiamo deciso che fare. I grandi hanno letto una storia, l’hanno animata (e sono stati bravissimi), si sono affiancati alle piccole e ai piccoli perché realizzassero un collage, ne hanno anche creato uno loro, grande e colorato, e ce lo hanno regalato. Fatto sta che si è creato un bel filo di conoscenza e riconoscenza tra le classi e tra colleghe. E negli intervalli in cortile bambine e bambini da subito hanno preso a giocare insieme, con quella disparità appariscente di corpi e forze che però non genera incidenti, anzi molta allegria. Non mi è mai capitato di vedere bambine e bambini di 6 e 10 anni stare in una tale vicinanza quotidiana e giocosa.
Nella mia prima il mio inizio d’anno l’ho fatto con un gomitolo di lana, facendo passare il filo tra madri, padri, bambine, bambine, nonne, zii. Ci univa da subito ed era magico, ho detto. Al rito tutti ci sono stati, eravamo di sei o sette nazionalità. Abbiamo attraversato il cortile e siamo saliti fino alla classe, tutti tenendoci a quel filo. E lì, in cerchio, abbiamo ascoltato i nostri nomi, di adulti e di piccoli. Filo o nastro, gesto simbolico che mette in moto e sposta aprendo spazi impensabili prima: mi sento di avere agito nella scia di Maria Lai, artista sarda che legò il suo paese a una montagna coinvolgendo tutti, in una grande opera di insieme, facendo passare un nastro azzurro tra tutte le case del paese in cui era nata e cresciuta, unendo i vicini che erano amici e anche quelli che non lo erano (e tra le case dove c’era amicizia c’era un nodo, dove tra le famiglie c’era amore un pane decorato come un pizzo).
Leggendo in un contributo per VD3 (Accoglienza, 22/9/2015) che nella nostra città la cacofonia dei suoni delle lingue diverse sta creando una barriera, cancellando i suoni della lingua italiana, mi sono venute alla mente due cose. La prima: suoni diversi io li ascolto da vicino nelle voci delle bambine e dei bambini che ho in classe e in quelle delle donne e degli uomini loro madri e loro padri. Quelle lingue sono l’infanzia, storie di vite umane ai loro inizi (di oggi e di ieri) e più o meno tribolate. Quelle lingue sono la Storia che si muove lungo linee che partono lontano da noi e arrivano a noi. Ciò che provo ad ascoltare lingue così diverse dalla mia è un desiderio: saperle anch’io.
La seconda: c’è una nuova lingua che si sta parlando nelle scuole e che io temo. È l’italiano informatizzato, all’apparenza moderno e innocuo, nato dal mondo virtuale dei computer. «Ho bisogno di una persona che si occupi della dematerializzazione della scuola» dicono da qualche tempo coloro che dirigono i nostri istituti pubblici. Cercano insegnanti che si occupino del passaggio delle comunicazioni alla rete web, il fine essendo la “distruzione della materialità” dei documenti cartacei. E dato che noi rispondiamo – nell’anima, nel profondo – alle parole, è già capitato che a giugno alcune scuole primarie dell’Emilia Romagna abbiamo smesso di incontrare madri e padri per i colloqui di fine anno. «Tanto i voti e i giudizi li possono leggere sul registro elettronico, on-line». E così hanno fatto un passo verso la dematerializzazione delle relazioni.
Accogliere è fare spazio per chi arriva, è mettersi in ascolto e rinnovare la disponibilità a trovare nuove mediazioni. Cose né banali, né scontate. È pensiero e gesto, perché prima di tutto tra noi si tratta di incontro – materiale e immateriale – di anime, di vite. È fatica, anche per me che sono maestra, per la pazienza che richiede, perché i miei tempi non sono i loro tempi, di bambine e bambini. I miei bisogni non sono i loro bisogni. A volte vorrei andare in un senso e loro mi spingono in un altro. Trovo molto impegnativo rimanere centrata, non confondermi, scegliere, arretrare. Sulla soglia, quando arriva un ospite, bisogna farsi di lato ma esserci. È una disciplina interiore quella di cui ho bisogno. Che tengo legata ad un filo di senso, quello che continuiamo a chiamare politico: negli incontri che facciamo ne va di noi, del nostro essere umani, del nostro essere capaci di creare legami. Nelle scuole continuiamo a parlarne, a pensarci e ad agire. Vista la posta in gioco, dico che si tratta di un gran lavorio prezioso che tiene insieme molto più di ciò che appare. Va rilanciato e allacciato ai lavori in corso di altre, altri – associazioni, gruppi – che stanno agendo con lo scopo di intrecciare destini e esistenze. Sempre e tutti in viaggio, su questa terra che è un corpo celeste, come scriveva Anna Maria Ortese. Per fortuna davvero lo è.