Le suore, per esempio…
Ritanna Armeni
18 Ottobre 2015
Da Donne Chiesa Mondo
Suor Eugenia Bonetti è un fiume in piena. Parla della sua missione, dei suoi incontri con «le donne della strada e della notte» con la passione di chi a questa ha dedicato una vita e ne dedicherebbe anche un’altra, se fosse possibile. Nella sede dell’Usmi, dove coordina le suore di diverse congregazioni che lottano contro la tratta e la schiavitù, racconta iniziative e progetti con la freschezza e l’entusiasmo di una giovane donna. Eppure ha alle spalle decenni di lavoro, fatica e missione.
Da vent’anni si occupa della tratta delle donne, di quella che Francesco ha definito la schiavitù del ventunesimo secolo. Perché?
Non è una mia scelta, qualcuno l’ha fatta per me. Ho lavorato per molti anni in Africa e le donne sono state le mie maestre. Da loro ho imparato l’accoglienza, la gioia, la condivisione. Le donne africane nella loro povertà materiale sono straordinarie. Quando sono tornata in Italia, sono caduta in crisi. Mi sembrava di aver tradito la mia vocazione. Volevo tornare in Africa finché alla Caritas di Torino, dove lavoravo, ho fatto un incontro. Lo ricordo bene: era il 2 novembre 1993 e ho conosciuto Maria, una donna nigeriana, una prostituta malata con tre bambini, senza documenti. Lei ha capovolto la mia realtà missionaria, il modo di vivere la mia vocazione. Me l’ha mandata il Signore per farmi capire che la missione non era una questione geografica. Maria mi ha aiutato a entrare nel mondo della notte e della strada. Dopo ho conosciuto molte donne come lei: schiave, distrutte, oggetti disprezzati, usa e getta. Sfruttate dai miei connazionali che si dicono al novanta per cento cattolici. Ho capito che dovevo star loro vicina. E loro, come Maria, attraverso di noi suore hanno capito la diversità fra chi le sfruttava e chi le aiutava senza pretendere niente in cambio.
È stato quindi l’incontro con una donna che ha dato inizio alla sua missione?
Si è aperto un mondo nuovo. A contatto con queste donne ho cominciato a capire che non avevamo a che fare con la prostituzione, ma con una nuova schiavitù. In quegli anni neppure la polizia sapeva della esistenza della tratta. Solo noi, alcune religiose, abbiamo capito. C’erano in quegli anni a Torino tremila donne sulle strade che “servivano” cinque regioni diverse. Ci siamo avvicinate e abbiamo fatto proposte concrete: lo studio della lingua, l’assistenza sanitaria, il lavoro. Ho fatto da collegamento fra il nostro mondo e il loro, la conoscenza della loro lingua e dei loro Paesi mi ha facilitato.
Quale era in quegli anni il vostro problema più grande?
Potevamo aiutarle, ma non potevamo dare loro una legalità. I passaporti erano in mano ai trafficanti. Loro si erano sottoposte ai riti vudù ed erano convinte che quello che facevano era voluto dalle divinità, era per il bene delle loro famiglie. Se non lo avessero fatto il loro spirito sarebbe volato via. Dovevano pagare il loro debito ai trafficanti e alle “madame”. Allora erano decine di milioni. Oggi sessanta o settantamila euro. Intanto si distruggevano nel corpo e nell’anima.
Sono passati venti anni. Oggi lei lavora con 250 persone di 80 diverse congregazioni. Il lavoro contro la tratta ha fatto passi avanti.
Sì. Abbiamo fatto richiesta al governo di riconoscere l’esistenza della schiavitù, abbiamo fatto conoscere la realtà alle donne parlamentari, abbiamo ottenuto nel 1998 una legge che interviene sulla tratta. La legge ha aperto una grande porta. Una volta riconosciuta la tratta abbiamo potuto aprire case di accoglienza per le donne che tentavano di liberarsi dalla schiavitù. Nel 2000 mi sono trasferita a Roma per coordinare il lavoro delle congregazioni religiose che aprivano le case di accoglienza. Era l’anno del giubileo, volevamo lasciare un segno positivo, volevamo rompere davvero le catene, liberare le schiave. E farlo subito proprio quell’anno. Per questo 13 congregazioni hanno aperto le porte dei loro conventi a queste donne. E 250 religiose hanno cominciato il loro lavoro nelle case famiglia, nei centri ascolto, nelle unità di strada. Abbiamo capito che dovevamo unire le nostre forze. Tutti dovevano fare la loro parte: il governo, la Chiesa, le scuole, le famiglie, i mass media.
Quello della prostituzione e della tratta è un mondo duro da scalfire: molti sforzi e scarsi risultati. È stato così anche per voi?
Nel 2000 abbiamo dato alle congregazioni la possibilità di vivere l’anno santo in modo concreto, abbiamo aperto i nostri conventi. Da allora sono state salvate più di seimila donne. Accolte e aiutate psicologicamente e socialmente. Abbiamo fatto ottenere loro documenti, permessi di soggiorno, passaporti.
Qual è oggi la situazione della tratta? Rispetto al 2000 sono stati fatti passi avanti o c’è stato un arretramento?
C’è un dato negativo: la crisi economica ha pesato sulle donne che sono riuscite a tirarsi fuori dalla schiavitù. Sono le prime a perdere il lavoro. Ed ecco che è entrata in funzione la fantasia della carità. Per venire incontro a chi non ce la fa e non riesce più a vivere in Italia abbiamo fatto un progetto di rimpatrio assistito e finanziato. Abbiamo preso contatto con le suore del Paese di origine. Abbiamo chiamato le sorelle nigeriane, abbiamo fatto conoscere la situazione, i pericoli che le donne correvano. Dal 2013 abbiamo chiesto alla Caritas fondi per un progetto. Alle ragazze nigeriane che tornano a casa, si pagano il viaggio, l’affitto della casa per due anni, si dà loro qualche risorsa per aprire un’attività. Cerchiamo di resistere; il governo ha pochi fondi, molte onlus hanno chiuso, ma le nostre congregazioni con poco riescono a fare tanto. Ormai c’è una rete Talita Kum che coordina le suore dei Paesi di origine, di transito e di destinazione delle donne per sottrarle alla schiavitù.
Siete state sostenute nella vostra missione? Per esempio siete riuscite a coinvolgere le congregazioni religiose maschili?
Per ora proprio no. Facciamo un’enorme fatica a far loro capire. Le persone sensibili sono davvero poche. Eppure sarebbe importante: se non riusciamo a farle lavorare con noi, non cambia la cultura di fondo. E nelle parrocchie, nelle prediche dei sacerdoti non c’è mai un accenno alla realtà che noi cerchiamo di combattere. Dicono che è un affare di donne. No, rispondo, è un affare di uomini. Se ci sono nove milioni di richieste di prostituzione ogni mese è una questione di uomini. E, visto che siamo in Italia, di uomini cattolici. Il nostro lavoro futuro è diretto a coinvolgere le parrocchie, le diocesi, le conferenze episcopali. Ci auguriamo che l’8 febbraio, nella seconda giornata mondiale contro la tratta, intervenga la concretezza di Papa Francesco.
Dal 2013 vi recate al centro di accoglienza di Ponte Galeria, a Roma: cosa riuscite a fare per queste donne?
Vi andiamo tutti i sabati: lì incontriamo la disperazione assoluta. Queste donne non hanno niente, solo il letto nel quale dormono, e non fanno niente dal mattino alla sera. Non hanno neppure una stanza in cui stare insieme. Non sanno nulla del loro futuro. Facciamo quello che possiamo: le mettiamo in contatto con i Paesi d’origine, cerchiamo di accoglierle nelle nostre case. A volte ci sembra di non combinare niente. Qualcuno ce lo ha anche detto. Che andate a fare lì? Sa che cosa ha risposto una sorella? «Facciamo quello che la Madonna ha fatto sotto la croce». Non è riuscita a cambiare niente ma è morta con suo figlio.
Di fronte al grande esodo di chi fugge da guerra e fame, in molti oggi parlano della necessità di accoglienza: per lei che cosa è?
Per me accogliere significa dare il futuro a una donna, dirle che non è sola, farle capire che nella sua vita possono esserci amore e gioia.
Quale è il rapporto con la fede delle donne che incontrate sulla strada?
Le nigeriane, in particolare, ci chiedono subito il rosario e la Bibbia. Si nutrono della parola di Dio, sono più religiose di noi. Vivono una terribile dicotomia. Maria mi diceva: ogni mattina prima di lasciare il marciapiede chiedevo perdono al Signore. Sapevo che quel che facevo era male ma sapevo anche che la sera sarei tornata.
Tolstoj una volta ha detto: la prostituzione c’era prima di Mosè e c’è stata dopo. Ci sarà sempre. Non si può non constatare la verità delle due prime affermazioni: che cosa risponde alla terza? Davvero ci sarà sempre la prostituzione?
C’è la prostituzione volontaria e quella forzata. Sono due cose diverse. Nella prima la donna usa il proprio corpo, ma la seconda è schiavitù. Una donna nelle mani dei trafficanti arriva a quattromila prestazioni per pagare il suo debito. Alla fine non è più lei. L’Africa non può permettersi di distruggere una generazione di donne. Se lo fa, muore un intero continente.