La rabbia, la trasformazione e il mio valore assoluto di femminista
Sara Gandini
29 Settembre 2015
Scrivo sull’onda dell’irritazione provocata dal contributo Accoglienza? (pensieri dopo l’incontro VD3 del 13/9/2015) di Unachec’è , un’irritazione che col tempo, discutendo con le amiche, si trasforma in rabbia: perché la redazione di Via Dogana 3 sceglie di pubblicare articoli di questo tipo?
E così mi decido a scrivere, per rendere politica la mia rabbia. Si tratta un testo che esprime un punto di vista scomodo, ma la ragione della mia irritazione nasce dal fatto che mostra una posizione d’impotenza, di chiusura difensiva e allo stesso tempo aggressiva, che non permette trasformazione, e di cui ho subito le conseguenze nella mia esperienza personale. So infatti cosa vuol dire vivere un anno in un paese straniero e sentirmi fastidiosa, perché estremamente bisognosa.
Dopo l’università ho avuto la fortuna di vincere una borsa di studio in Inghilterra che mi avrebbe rimborsato le spese di un master. Ma non avevo soldi da anticipare per pagare le tasse universitarie né per pagare la stanza dello studentato. Sono partita da sola, non capivo assolutamente nulla quando le persone mi parlavano (ho studiato francese a scuola) e il master era complicatissimo ma fondamentale per trovare lavoro.
Sapevo di avere anche delle risorse interiori, probabilmente come gli immigrati che arrivano qui. Tanti hanno una laurea, molti vengono da famiglie benestanti, ma quando arrivano da noi non conoscono la lingua, non hanno soldi e cercano un lavoro. Proprio come me.
Non conoscere la lingua è un’esperienza terribile, specialmente se non sei nel tuo paese e non conosci nessuno. Ricordo ancora il senso di disperazione quando un giorno mi sono persa tra le migliaia di spettatori alla gara di cavalli di Ascot, lontano dalla cittadina dove studiavo. Ero andata a fare la cameriera un fine settimana e ho perso l’orientamento tra le migliaia di cappelli colorati. Ero sola e non sapevo come chiedere aiuto, ero nel panico. Ho vagato per ore piangendo senza che nessuno nella folla festante si accorgesse di me.
Una chiave magica mi ha aiutato, come i personaggi delle favole di cui parla Marta Equi in Farsi forza stanca. Avevo con me la voce di mia madre che mi diceva che ero intelligente, forte, che ce l’avrei fatta. Ero così forte da trovare il coraggio di mostrare anche la mia fragilità, la mia fatica, lottando con il senso di vergogna.
E così un giorno ho incontrato un ragazzo del Qatar, di quelli ricchissimi che sposano tante mogli e faticano a parlare con le donne. Uno che ha saputo spiazzare la femminista che c’è in me: ha capito la mia situazione e mi ha prestato tanti soldi, chiedendomi solo di non dirlo a nessuno perché, come diceva lui, le persone possono pensare male.
E poi una ragazza africana mi ha portato nel ristorante dove lavorava lei. Nonostante sapesse l’inglese meglio di me, doveva lavare i piatti come tutti quelli di colore, con una paga molto bassa, mentre noi bianchi potevamo servire ai tavoli. Io faticavo ad accettare questa ingiustizia ma lei diceva che aveva problemi più grandi. La sua preoccupazione era la nostalgia per suo figlio, rimasto al suo paese con la nonna perché il padre del bambino non aveva abbastanza soldi per garantire il loro matrimonio. Finita l’urgenza del natale hanno lasciato a casa me: bianca sì, ma saper parlare conta.
Una perfetta sconosciuta, che conosceva quello che stavo passando io, mi ha poi accompagnata in banca per poter aprire un conto. Era italiana e l’ho incontrata solo in quell’occasione, ma è stata fondamentale per affrontare il mio panico. Non capivo una parola di quello che diceva l’impiegato e dovevo firmare mille carte. La sua presenza fugace mi ha salvato.
Più difficile è stato con i compagni di corso, quasi tutti inglesi. Erano tra l’altro più giovani di me e faticavano a collaborare con una donna più grande, straniera, e pure piagnucolona. Faticavano a capire cosa stessi passando. Ma anche la mia compagna tedesca era irritata dal mio pianto quotidiano, durato mesi. Anche lei era straniera ma non piangeva come me! Le mie lacrime scendevano anche a lezione, senza il mio permesso. Eppure in Italia ero considerata una donna solare, ottimista, vivace…
Fortunatamente al master un’irlandese cattolica praticante ha spiazzato l’anticlericale che c’è in me. Nonostante il mio professarmi atea, mi ha accolto portandomi a ballare le danze irlandesi, parlandomi della sua chiesa e aiutandomi con il programma di genetica del nostro corso.
E così non ho mollato. Ho messo tutta me stessa, senza nascondere la mia miseria. E questo mi ha regalato la possibilità di far emergere anche la Sara migliore dall’indistinto degli stranieri che invadono i campus universitari e creano in modo difensivo comunità tra loro.
Questa avventura mi ha regalato sicurezza interiore, che ora mi gioco ovunque, e che nasce dalla consapevolezza che se mi do la possibilità di mostrare le mie fragilità, e di stare in ascolto di quelle altrui, mi arriva forza.
Un’amica che stimo mi obietta che la situazione degli studenti stranieri nei campus universitari non è confrontabile a quello che sta avvenendo ora in Europa, con milioni di persone che fuggono da guerre e povertà. Si tratta di una giusta obiezione. Tuttavia penso che partire dal mio vissuto mi faccia intuire verità che potrebbero illuminare anche discorsi più ampi. Io so cosa vuol dire sentirsi sola e impotente. Le discussioni sull’immigrazione raccontano di milioni di disperati che arrivano nel nostro paese. Guardano l’insieme, ma penso che sia fondamentale non perdere lo sguardo che vede le singole vite, partendo da sé. Quando incontro queste persone sul mio cammino mi si riattiva la memoria di quel periodo, che mi permette di fare quella mediazione necessaria a cambiare postura nei loro confronti, a superare la fatica data dall’incontro con persone molto bisognose. Per riuscire a farlo bisogna superare il disagio nei confronti di un’alterità che ci spinge con forza verso un cambiamento radicale, di cui gli immigrati stessi sono testimoni, e che spaventa. Affrontare quella fatica regala la possibilità di incontri che possono spiazzare, perché gli incontri non sono mai con le masse indistinte, ma con singolarità che spesso hanno vissuti intensi e affascinanti.
Gli stranieri che “invadono” il nostro mondo ci pongono questa sfida: riuscire a fare spazio per l’altro, anche quando è irritante, per diventare noi stessi altro. Si tratta di una postura trasformativa, che viene dall’ordine simbolico della madre. Questo è quello che mi rende orgogliosa di potermi definire femminista, il “mio valore assoluto”.
E scrivendo mi rendo conto che ora desidero ringraziare la redazione di Via Dogana 3 che ha avuto il coraggio di pubblicare un testo così irritante, perché abbiamo bisogno di poter mettere in parole la nostra rabbia.