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Vivendo in una città decentrata non ho avuto modo di partecipare ai dibattiti preparatori delle manifestazioni all’insegna dello slogan ‘LOTTO MARZO’ e alle attività della rete NONUNADIMENO e trovandomi pertanto un po’ spiazzata rispetto alla discussione che si è tenuta nell’ultimo incontro di #ViaDogana 3 non avevo intenzione di intervenire; mi sono alfine decisa perché nel dibattito che si è in seguito sviluppato non ha trovato rispecchiamento il sentimento, magari generato solo dallo sguardo ‘periferico’, ma chiaro e potente, che mi ha tenuta lontana dalle manifestazioni andate in scena l’8 marzo u.s. nelle altre città facendomi preferire l’intervento in un liceo volto a far conoscere a ragazze e ragazzi le vicende legate al femminismo nato alla fine anni ’60, come del resto in ogni altro periodo dell’anno qualora se ne presenti l’opportunità.

Nei primi decenni della mia vita pubblica ho partecipato ad una quantità e varietà di manifestazioni tale da poter affermare con una certa competenza che non basta mettere insieme una moltitudine di corpi per fare un soggetto politico e che, con buona pace di Judith Butler, lo spazio intercorrente tra i corpi che calcano lo scenario della lotta non è affatto scontato venga riempito di legami e relazioni con efficacia trasformatrice della realtà che si vuole combattere. Non sfuggendomi però che il corpo femminile possa in certi frangenti storici irrompere nella scena pubblica con grande efficacia simbolica, come successo con le Madres de Plaza de Mayo come anche se vogliamo con gli scioperi del sesso che, senza risalire a Lisistrata, non molto tempo fa in Liberia e nelle Filippine pare abbiano determinato la fine di guerre fratricide, dietro la parola d’ordine dello sciopero globale mi era parso di intendere l’idea di dar vita alla rappresentazione di una generale (per quanto improbabile) pratica di sottrazione del corpo femminile dal mercato al fine di rendere evidente l’entità e il valore dei lavori svolti dalle donne. La proposta, per di più se sviluppata nell’attuale contesto di attenzione e sensibilità nei confronti della violenza contro le donne, con un ampio dibattito, con performances ed interventi nei luoghi di lavoro come sul territorio e con un sapiente uso dei media, avrebbe potuto avere una sua efficacia simbolica; mi è però apparsa grossolanamente depotenziata nel momento in cui si è voluto ridurre la complessità delle questioni in campo alla prosa di una piattaforma da affidare alla piazza o a parole d’ordine da veicolare nei cortei, ricalcando né più né meno il classico modello delle pratiche rivendicative maschili.

Pur in assenza dei presupposti di originalità che avrei desiderato registrare, non ho certo mancato di guardare con interesse all’ondata montante di un movimento che in Italia come in altri paesi ritenevo esprimesse comunque, seppure in modo sintomatico, il disagio di stare al mondo di una nuova generazione di donne che vede ristretti e attaccati i propri spazi di libertà e di realizzazione, ma devo in tutta onestà ammettere che non mi sono sentita personalmente coinvolta e spinta a partecipare a causa di un ineludibile senso di estraneità e incomprensione derivante suppongo dalla distanza generazionale e dalle differenti esperienze politiche e di vita. Aggiungo che di conseguenza mi sono suonate stonate le voci di femministe storiche che dall’interno dei cortei ho sentito rivendicare la continuità tra il nuovo movimento e quello degli anni ’70 di cui erano state protagoniste; l’ho trovato un tentativo maldestro e semplificatorio di ‘classificare’, se non di intestarsi in qualche modo, un movimento di cui è ancora difficile intendere radicamento, carattere e potenzialità. La voglia di trascendenza andando in là con gli anni tende certo a prevalere sugli altri sentimenti, ma sta di fatto che un’eredità si trasmette solo se accettata e l’esperienza mi ha insegnato che in politica ciò non può avvenire con scorciatoie o in virtù di semplice atto testamentario ma solo come esito di un processo che veda noi stesse e le/gli eredi impegnate/i quotidianamente e a lungo nell’opera di trasmissione del ‘bene’.