LOTTO MARZO E I MIEI PERCHÉ
Luciana Tavernini
8 Aprile 2017
Tre donne autorevoli
Ho partecipato alla manifestazione Lotto marzo la sera a Milano perché avevo letto l’articolo di Donatella Franchi Sull’incontro nazionale a Bologna del 4-5 febbraio convocato dal coordinamento “Non una di meno” in cui esprime la «sorpresa felice», la «sensazione di contentezza, per la passione, l’entusiasmo e l’energia vitale che le giovani organizzatrici avevano comunicato nei loro resoconti a tutte le donne presenti, e penso anche, forse, ai diversi uomini che, con discrezione, avevano partecipato ai lavori». Il suo resoconto era puntuale ma mi ha convinto soprattutto la parte finale. «Per me, femminista dagli anni Settanta, è stato vivificante sentire le giovani, che riportavano in assemblea con intelligenza e competenza i temi discussi in gruppo, affermare con orgoglio di essere femministe, e dichiarare il loro desiderio di mettere a frutto la ricchezza dell’elaborazione femminista che le aveva precedute. Comunicavano la consapevolezza di avere una genealogia alle spalle, ci stavano restituendo parte del nostro investimento di energie e di vita.
Voglio accogliere con fiducia la loro scommessa». Io mi fido di ciò che dice Donatella.
La conferenza stampa per lo sciopero a Milano è stata fatta alla Casa di accoglienza delle donne maltrattate con la partecipazione di Marisa Guarneri a cui riconosco acutezza politica, capacità di fondare e far vivere progetti capaci di adattarsi ai cambiamenti sapendo preservare l’indispensabile e vedendo l’indisponibile. Io mi fido delle relazioni che Marisa costruisce.
Renata Conti, la mia amica dai tempi del gruppo di autocoscienza con cui continuiamo a incontrarci tre o quattro volte all’anno in modo sincero e pieno di attenzione reciproca, mi ha parlato del suo coinvolgimento con le ragazze di Rho per lo sciopero e di come dimostrassero piacere nel confronto. Renata è una creativa appassionata e io mi fido delle sue intuizioni.
Insomma ho dato autorità a tre donne diversissime tra loro.
Linguaggio: il cambiamento simbolico si produce insieme.
Partecipando poi alla manifestazione mi ha convinto lo slogan Le strade libere le fanno le donne che le attraversano. Venticinque anni fa, alle 11 di sera, sono stata aggredita con un coltello da un giovane che voleva violentarmi e, pur non ritenendolo handicappato, gli ho parlato in modo calmo, come facevo col ragazzino handicappato a scuola, e sono riuscita a fargli mettere via il coltello e a farmi sporcare una gamba (insomma gli ho impedito di ridurmi a cosa anche se non è stato semplice risentirmi felice). Subito ho continuato a uscire la sera e la notte con i mezzi pubblici. E sul tram o sul filobus che mi portano a casa vedo sempre più ragazze che, incrociando il mio sguardo, sono rassicurate dalla mia presenza e io dalla loro. Dunque anche uno slogan lo faccio passare dal vaglio della mia esperienza.
Ho letto il materiale condiviso e prodotto all’interno dei tavoli tematici dopo la manifestazione di Roma del 26 novembre e a Bologna in febbraio. Sul linguaggio di molti report ho diverse perplessità ma mi ha convinto Percorsi di fuoriuscita dalla violenza e autonomia 1, dove l’esperienza delle donne che hanno inventato e portato avanti per decenni i centri antiviolenza è diventato “sapere dell’esperienza”, simbolico comunicabile e fatto proprio.
Che sia necessario trovare modi per comunicare il sapere che in anni di femminismo abbiamo creato è il mio impegno felice, portato avanti soprattutto con Marina Santini.
Voglio fare due esempi.
Quando al liceo dove insegna Marina è stata organizzata la cogestione, lei non ha proposto la presentazione del libro scritto e curato da noi due, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua (Il Poligrafo, Padova 2015), anche se andiamo a parlarne nelle scuole dove veniamo invitate. Le sarebbe sembrato di proporre un’altra lezione, come se il femminismo fosse un argomento e non una trasformazione.
Invece Francesca Callà e Eleonora Rossi, due studentesse di una quinta non sua, hanno organizzato un collettivo Abbiamo ancora bisogno di femminismo? invitando due ragazze, Serena Bramante e Serena Vitucci, e un ragazzo, Camilo Villagran, del Circolo Lato B di via Pasubio 14 per parlarne. La vicepreside ha incaricato Marina, conosciuta come femminista, di essere presente.
All’inizio sono stati proiettati spezzoni di Comizi d’amore di Pier Paolo Pasolini per far partire la discussione, subito attenta e vivace, in cui poi si è inserita Marina, parlando del punto di vista di Carla Lonzi sulla sessualità, della lettera che lei aveva scritto a lui, vedendo una possibile convergenza. Marina ha chiarito la differenza tra ‘liberazione sessuale’, che vi sia un unico modo di intendere il piacere sessuale a cui le donne, per non essere considerate inibite, devono sottomettersi, e ‘libertà sessuale’, una ricerca libera e condivisa di cosa produce piacere a partire dall’ascolto di sé in rapporto al proprio corpo (e non solo) e a quello altrui.
Al termine di questo incontro le ragazze che lo avevano organizzato le hanno chiesto se avrebbe potuto fermarsi per quello successivo e lei ci è tornata volentieri.
Non vi è mai ripetizione rituale quando si apre un dialogo libero: bastano domande apparentemente semplici come «Quale donna o donne ammiri?» e si aprono nuovi scenari. Se alcune hanno parlato di Lady Gaga, di Michelle Obama, di attrici come Paola Cortellesi, di donne coraggiose come Lucia Annibali, molte hanno ricordato la propria madre o la propria nonna, mentre Francesca ha nominato Serena, dicendo grosso modo «Lei mi ha aperto gli occhi su un mondo e io ho fortemente voluto che lei venisse qui».
Marina ha avuto buon gioco a parlare di genealogia, di ordine simbolico materno e infine di affidamento. Quando ha nominato il riconoscimento del ‘di più dell’altra’ che spinge a darsi autorità per mostrare la propria gratitudine pubblicamente, facendo circolare ‘autorità femminile’, le due si sono commosse e abbracciate. Alla fine ha mostrato alcuni libri, da Sputiamo su Hegel a La donna clitoridea e la donna vaginale di Carla Lonzi, da Non credere di avere dei diritti al nostro. Il ragazzo lo ha riconosciuto dicendo che sua madre glielo aveva regalato.
Credo sia importante saper cogliere le occasioni aprendo un cammino senza pretendere di controllarlo, ma vedendo e nominando il nuovo che c’è già, anche se si presenta con un linguaggio che lo occulta.
Il secondo esempio riguarda l’invito di Nadia Negri alla Libreria delle donne per parlare a una serata di studio per il 3 marzo a Borgo Ticino, in provincia di Novara.
Ci ha invitate a nome di una rete collegata con l’A.N.P.I., che ha fatto celebrare «processi anche di tipo civile» sulle stragi nazifasciste di Borgo Ticino e di Meina, dopo aver già «ottenuto giusta sentenza di ergastolo per il regista della strage con processo penale celebrato nel 2012 a Verona».
Ricordava che nelle commemorazioni sempre è stato dato spazio alla memoria delle donne come Maria Gavinelli, la levatrice trucidata per non aver rispettato il coprifuoco per far partorire una donna; la bambina morta d’infarto per aver assistito alla fucilazione; le donne che cercarono con il loro pochi gioielli «di barattare con i gerarchi la vita dei loro figli, mariti, fidanzati…» Dunque Nadia era una donna in relazione con altre e altri che teneva alla giustizia, ma noi cosa avremmo potuto dire?
Quello che ci ha convinto, oltre all’entusiasmo con cui ci telefonava e scriveva, è stata la frase: «Ora vorremmo dedicare una serata di studio alle problematiche e alle aspirazioni che interessano la nostra società tutta, in questi tempi così complessi, e ci domandiamo se un membro del vostro gruppo di lavoro non desideri darci una preziosa mano, e portare un contributo alla comprensione di quanto sta accadendo, e descriverci come il genere femminile si incarichi di sognare un domani declinato diversamente». Terminava con «Ma senza gli esperti siamo incompleti, e pertanto, vi chiediamo aiuto per questa iniziativa». Marina e io sappiamo che non ha senso parlare di “esperti” o esperte di femminismo, perché il femminismo è una “rivoluzione che continua”. Tante espressioni da lei usate non erano le nostre ma il voler guardare il presente con una centralità femminile e femminista per noi bastava. Il titolo della serata, Il teorema donna tra costruzione identitaria e sogno libertario, già deciso e in parte provocatorio, lo abbiamo considerato uno stimolo per fare chiarezza. Infatti sappiamo che non esiste “la” donna, se non nell’immaginario maschile, ma le singole donne e le relazioni tra loro, che non è utile costruire nuove identità, e infine che la libertà non è un sogno ma si può vivere giorno per giorno e soprattutto che è una ‘libertà relazionale’, non quella individualistica di vendere e comprare tutto del neoliberismo.
Nel nostro intervento abbiamo cercato di mostrare il cambiamento del mondo che il protagonismo di diverse donne ha reso possibile, riportando le loro parole e mettendo in luce le loro pratiche. Le nostre interlocutrici hanno avuto la possibilità di riconoscere le loro, come la relazione duale di disparità tra Nadia e Michela Facchetti, l’intelligente e generosa ospite che come una Preziosa del Seicento offre la casa di famiglia, l’Antica Casa Balsari, e un’accurata accoglienza a queste serate. Entrambe mettono nella costruzione del progetto qualità diverse che, riconosciute tra loro e pubblicamente, possono farle crescere.
Che cosa voglio dire con questi due esempi? Che il lavoro politico sul simbolico si fa in relazione, non pretendendo a priori che l’altra conosca già e usi le parole che in tanti anni ho trovato, inventate anche da altre, per illuminare la mia esperienza, scoprendo che, se riesco a trasmettergliele facendole aderire al contesto che lei mi descrive, sarà gioia per lei e per me.
Questa è la scommessa con le giovani, non solo in relazioni duali ma anche in contesti pubblici.
** Anche questa volta, come spesso è accaduto, la prima lettrice dei miei testi è stata Marina Santini che ringrazio.