Rovi urticanti
Luciana Tavernini
3 Luglio 2018
Esistono comportamenti femminili maltrattanti? Parliamone, almeno un po’. Quanto? Q.B., quanto basta, come ben sa una mia amica che di cucina e relazioni se ne intende. Con chi? Con almeno un’altra che stimi e scegli, quella che è o può diventare “sorella d’elezione”. Perché è troppo doloroso se un torto te lo fa proprio una donna: non te lo aspetti e in lei in qualche modo c’è rispecchiamento. Ti lascia un tale amaro in bocca che perdi il gusto. Occorre un’altra che assaggi anche per te, ti dica la misura e ridia sapore a ciò che stai facendo.
Ma fuori di metafora vediamo quando e come, facendo qualche esempio in cui più volte ho giocato ruoli differenti. Ne scrivo perché anch’io penso, come Luisa Muraro, che sia impresa quasi impossibile riparare le relazioni rotte e che sia importante insegnare piuttosto a prevenire le rotture, “i sbreghi no se ripara più”1.
– Soprattutto negli ultimi anni ho realizzato, prendendo contatti con donne e uomini poco conosciuti, creando fiducia, tenendo conto di desideri, suggerimenti, informazioni che mi venivano date, decine di incontri pubblici su tematiche diverse negli ambiti più disparati: da scuole di vari livelli a carceri, da librerie a centri sociali, da biblioteche a centri donne e via discorrendo. Anche quando si trattava di presentare il libro, scritto e curato con Marina Santini, Mia madre femminista. Voci da una rivoluzione che continua, ogni volta è stata una prima, senza replica.
Dunque in queste occasioni c’è sempre una certa tensione: mi sento con la percezione all’erta come una direttrice d’orchestra. Ora immaginatela, questa direttrice di orchestra, mentre entra in teatro e incontra una critica musicale che comincia a dirle quello che non deve fare, che le svela che in sala ci sarà il tale e il tal altro, che sono loro il fulcro a cui va indirizzata l’esecuzione e le dice persino come dovrebbe dirigerla. Penso che la critica, pur ben intenzionata, sia fortunata perché la direttrice dovrà usare la sua bacchetta e non gliela romperà in testa come vorrebbe. Ma l’ansia è spesso ansiogena e può destabilizzare.
Per me è stato utile parlarne a una terza donna (la già citata “sorella d’elezione”) che, riconoscendo pienamente l’inopportunità dell’altra, nello stesso tempo mi ha fatto interpretare la sua ansia come interesse per la buona riuscita dell’evento; ha mostrato piena fiducia nelle mie capacità e nel mio lavoro e mi ha suggerito di vedere se in ciò che mi era stato detto c’era qualcosa che non sapevo e di cui valeva la pena tenessi conto. Così l’evento è stato un successo e ho potuto ridere di quell’agire ‘sconveniente’.
– Spesso mi sono impegnata con donne che volevano porsi al centro di un progetto comune e per questo sminuivano il lavoro che non erano in grado di fare, senza dare riconoscimento pubblico a chi lo faceva: a volte ringraziavano privatamente, soprattutto quando era loro indispensabile continuare a utilizzare i “servizi”. Se avevano lanciato un’idea, mettevano il copyright anche sulle successive modifiche, precisazioni, sviluppi che la pratica comune sempre genera. Io invece sottolineavo le variazioni sul tema e chi vi aveva contribuito, valorizzandone gli apporti. Nelle situazioni che ho avuto modo di conoscere direttamente o attraverso i racconti di altre, queste donne dimostravano una concezione verticistica dell’autorità, nominando con riconoscenza solo le relazioni con quelle più famose di loro da cui potevano ricevere lustro. Pretendevano l’esclusiva dell’autorità ma pretenderla è dimostrazione di averla perduta e il rischio di cadere nel ridicolo è presente. Ho dovuto usare un certo talento per evitare di cadere con loro.
Ho provato e mi è stata descritta la sensazione di essere derubata e il fatto che sia stata una donna a farlo ha prodotto in me una tale incredulità che ho preferito non vedere, minimizzare e continuare a offrire il mio contributo. Quando la situazione si è ripetuta più volte, mi è stata necessaria una lettura condivisa almeno con un’altra. Ho potuto così sottrarmi senza abbandonare il progetto. A volte ho trasformato l’impresa in nave scuola. Certo navigare sotto costa richiede tempo e tutto si rallenta. Ma, quando il bisogno dell’oceano delle relazioni politiche femminili è diventato impellente, sono andata al largo senza un distacco rancoroso con un contatto aperto. Ho smesso di rimpicciolirmi nel desiderio stretto di un’altra, ho respirato la forza del mio.
– Molta parte dell’esperienza femminile non ha ancora parole e io riesco a trovarle parlando con altre che mi sembrano vicine. A volte ne ho scelto una che si è rivelata disattenta per la fretta, non ha creduto potesse venire del nuovo dal nostro scambio: amava gli slogan, anche quelli del femminismo, e li appiccicava su quel che le dicevo. Sapeva già quel che tentavo di dire. E, peggio ancora, non ascoltando e non leggendo in modo fine, pensava di poter parlare per me pubblicamente, distorcendomi. È stato inutile tentare di spiegarle che si sbagliava. Continuava nelle distorsioni, non mostrava nemmeno di rendersene conto. Ho visto donne allontanarsi da queste mine vaganti. La presa di distanza è un modo per vivere: ne va di mezzo la messa in parole, il simbolico, di ciò che senti di essere e che fai. Allora una terza può porsi in ascolto, facendo in modo che la distanza non diventi baratro. Io sono stata ascoltata e ho ascoltato.
Quando si devono realizzare progetti con una ‘disattenta ciarliera’, bisogna saper tacere, riparare appena possibile il suo pressapochismo, senza pensare di doverlo fare sempre e comunque. Se altre sono coinvolte, occorre far presente soltanto che i rapporti sono duali, non con un gruppo: che scelgano liberamente a chi far riferimento, osservandone le conseguenze.
– Provo ammirazione per donne appassionate e irruenti, con intelligenza acuta e capacità di individuare errori politici più rapidamente di molte. Accade però che non sappiano trattenersi: criticano pubblicamente prima ancora che una riesca ad aver chiara la propria posizione. Quella a cui è indirizzata la critica si trova nella situazione paradossale di domandarsi: “Che cosa non va bene di quel che ho detto se non l’ho ancora detto?”
E le altre del pubblico e io pure, sconcertate per la veemenza, facciamo ipotesi su cosa verta quella critica che quasi sempre si rivela giusta e finalmente capiamo dove va a parare. Dunque è importante parlarne, riconoscere il danno dell’impazienza che può aprire incomprensioni durature ma anche il merito dell’intuizione anticipatrice e il vantaggio che se ne può ricavare.
Il problema è che si tratta di una situazione pubblica. Quando ero amica di chi era stata attaccata, ho avuto la possibilità di farle vedere la sostanza. Quando parlavo con chi aveva assistito come spettatrice non sempre mi è riuscito di modificare l’idea che la forma fosse letta come sostanza di un modo irrispettoso e gerarchico di intendere le relazioni.
In passato per sopportare questi comportamenti dannosi usavo un metodo psicologico-giustificazionista: li collegavo ai racconti sulle loro vite che pubblicamente le donne in questione facevano, li consideravo traumi che le spingevano a una “coazione a ripetere”, ero una specie di rabdomante alla ricerca delle sorgenti nascoste: la rabbia si trasformava in pena per i lacci in cui le vedevo avvolte. Poi un’amica, arrabbiatissima per quello che le era stato fatto, alla spiegazione del mio metodo mi ha detto che tutte abbiamo avuto i nostri traumi, anche più dolorosi, eppure non ci comportiamo tanto male, che lei non aveva nessuna voglia di soffrire per cui sarebbe andata in luoghi più piacevoli. Così ho perso buone occasioni per incontrarla e ci limitiamo a sentirci per telefono. Ma ho avuto modo di riflettere su come può muoversi questa sorta di “trinità femminile” perché la creatività femminile non resti impigliata in rovi urticanti e si apra al meglio imprevisto.