La lente e lo sguardo
Silvia Baratella
19 Dicembre 2018
La discussione sull’intersezionalità nata nell’incontro di #VD3 del 2 dicembre 2018 è risultata più ricca e interessante di come di solito succede. Se ne coglie meglio l’aspetto positivo, che è quello di cercare una chiave per rapportarsi alle differenze fra donne, di cercare di capire le altre.
Carlotta ci ha raccontato com’è nata la parola. L’avvocata Kimberlé Crenshaw l’ha coniata nel 1989 durante una causa per il reintegro di lavoratrici licenziate da un’azienda, che erano tutte nere. La difesa dell’azienda respingeva le accuse di comportamento discriminatorio con quest’argomento: non era discriminazione contro le donne, perché non aveva licenziato tutte le lavoratrici (solo quelle nere), né discriminazione razziale, perché non aveva licenziato tutti i dipendenti neri (solo le donne).
Carlotta dice che si tratta, per lei, di una lente metodologica di cui aveva bisogno per leggere la sua vita e quella delle altre.
A mio avviso, l’avvocata si è trovata nell’urgenza di trovare una parola che rendesse dicibile l’evidente ingiustizia che l’azienda negava. La parola ha avuto il merito di farlo. Resta legata, però, a un’ottica di contrasto delle discriminazioni, proprio perché nata in una causa legale in cui i dispositivi antidiscriminatori erano l’elemento cruciale per tentare di far annullare il licenziamento. Ed è questo il punto debole: dall’associazione con le discriminazioni, e per estensione con le oppressioni, l’uso del concetto di intersezionalità scivola facilmente in quella banalizzazione che la fa percepire, talvolta da chi la sente, talvolta da chi la usa, che mescola i piani tra quello che si è per nascita e per storia e le ingiustizie subite, per esempio essere donna ed essere supersfruttata, riducendo tutto a una somma di oppressioni: essere donna, essere nera (per restare all’esempio del caso giuridico) rischiano di diventare “oppressioni”. E, no, io sono una donna, non un’“oppressione”. Ci sono gli uomini, o c’è il patriarcato, che vogliono opprimermi o ridurmi all’insignificanza, ma io sono una donna e non voglio essere altro. Lo stesso vale per chi è nera, per chi è lesbica.
Allora mi atterrei a qualche considerazione: una è che occorre uscire dall’ottica antidiscriminatoria, e usare la parola “intersezionalità” solo con proprietà e precauzione, e ascoltarla con estrema attenzione a come viene usata, evitando e facendo evitare banalizzazioni.
Un’altra è pensare a sé come soggetti in relazione con altri, riducendo al minimo le categorie interpretative “oggettive” da applicare a sé e alle altre a favore della pratica politica del partire da sé, del cercare la propria verità soggettiva, che non è l’individualismo ma la consapevolezza che ciò che vivi realmente non può essere azzerato da ciò che altri (o altre) dicono di te. Allora non sarà più una lente metodologica applicata da me all’altra a farmi capire le sue differenze da me e quello che abbiamo in comune, ma quello che l’altra mi dice di sé e il suo sguardo su di me, che io ricambio e confronto con la mia verità soggettiva, a fare luce sulle differenze tra donne e a dare misura a entrambe. Una misura che non è l’oppressione ma il desiderio politico. Un esempio? Riconosco autorità a Audre Lorde, femminista, nera e lesbica. Lei diceva: «Fate delle vostre differenze la vostra forza». È questo.