Noi, un palestinese e un israeliano che si battono per la stessa pace
Sveva Haertter
7 Marzo 2024
Abbiamo incontrato Suleiman Khatib ed Elie Avidor, attivisti di “Combatants for Peace” che dal 7 al 10 marzo saranno in Italia, ospiti di “Circonomia” per partecipare al Festival della transizione ecologica che si terrà a Fano dal 7 al 10 marzo prossimi.
Raccontateci brevemente chi siete e come introdurre il lavoro di “Combatants for Peace” (CfP).
Suleiman Khatib: Sono nato e cresciuto nell’area di Gerusalemme, mi sono avvicinato alla politica quando avevo quindici anni prendendo parte all’Intifada. Ho passato più di dieci anni in carcere, ho studiato la storia e imparato a conoscere Ghandi e Mandela, a ragionare in modo diverso sul mondo e sui conflitti e a conoscere la forza della nonviolenza che da allora ho deciso di seguire come strategia per la liberazione dei nostri popoli. CfP è un movimento binazionale in cui palestinesi e israeliani collaborano per mettere fine all’occupazione e per pace e libertà per tutti. Il nostro lavoro si incentra anche sulle nostre storie personali. CfP è stato fondato da persone che hanno combattuto, vivendo sui loro corpi queste esperienze, che sanno che la guerra e la violenza non sono né la risposta né la soluzione.
Elie Avidor: Sono cresciuto a Haifa nei primi anni dalla fondazione di Israele, quando tutto ruotava intorno al “noi contro tutti”. Entrare nell’esercito era un fatto scontato. Nella guerra dello Yom Kippur ho combattuto sulle alture del Golan. Sono stato a lungo all’estero. Una volta tornato, ho saputo della cerimonia in cui famiglie israeliane e palestinesi nel giorno della commemorazione dei soldati caduti condividono il lutto per i caduti di entrambe le parti. Lì ho ascoltato storie di dolore, capendo che tutti soffriamo e che siamo parte di questo gioco. Ora passo la maggior parte del mio tempo aiutando i pastori palestinesi a difendersi dalle vessazioni dei coloni e dell’esercito. Stando insieme a loro, ascolto la loro narrazione e gli racconto della mia, parliamo invece di combattere.
Come siete riusciti ad affrontare il 7 ottobre e quello che è successo dopo?
S.K.: Ci aspettavamo una crisi. Abbiamo fatto del nostro meglio per tenere insieme la comunità mostrando empatia per la sofferenza delle persone da entrambe le parti. In periodi come questi, le persone in risposta al trauma ritornano alle loro rispettive tribù. Non siamo d’accordo su tutto, ma concordiamo sul fatto di continuare a parlarci. Non facciamo a gara tra chi soffre di più. Non vogliamo essere parte della macchina di disumanizzazione, ma di una soluzione che restituisca una dimensione umana alla sofferenza. La narrazione corrente è “noi o loro”. CfP è riuscito a mantenere la sua nuova narrazione “noi e loro insieme”. Non nascondiamo i nostri sentimenti né alle nostre comunità né tra noi. Io sono palestinese, c’è anche un palestinese di Gaza, questo non chiude il nostro cuore all’empatia per le vittime israeliane. Per noi l’occupazione non legittima nuocere a civili come è successo il 7 ottobre. E le atrocità commesse da Hamas non legittimano la reazione di Israele, gli attacchi aerei e quello che sta succedendo ora.
E.A.: In questi diciassette anni le relazioni sono diventate così personali, forti e intime, da renderci resilienti. Abbiamo già vissuto guerre in passato. Questa volta è molto peggio di quanto sia mai stato. C’è anche chi trae vantaggio dalla guerra. Quello che vogliono i coloni è l’Armageddon, il giorno in riusciranno a scacciare tutti i palestinesi. Aspettavano solo il momento e ora pensano che sia arrivato. Nella settimana del 7 ottobre ho pensato che fosse ancora più importante essere presente nei territori occupati. La gente mi diceva che ero pazzo. Sedici comunità hanno subito gravi violenze e, dove siamo presenti, riusciamo a evitare che siano cacciate dal loro territorio.
Cosa pensate delle proteste in corso in Israele? Cosa succede nei territori occupati?
E.A.: Prima della guerra c’erano manifestazioni contro le riforme che il governo tentava di fare, ma senza un nesso con l’occupazione. Noi insistevamo che era necessario perché l’occupazione è la causa di tutto il male: le pratiche che il governo porta avanti in Cisgiordania, di fatto sono state trasferite in Israele. Volevano trasformaci in una dittatura. All’inizio di questa guerra nessuno manifestava. Ora le manifestazioni sono riprese, molte sono per gli ostaggi. Noi continuiamo a scendere in piazza contro l’occupazione. Ultimamente la polizia è stata estremamente violenta. Non sappiamo dove andremo a finire, ma la gente è così arrabbiata che dovrà esserci un cambiamento. Facciamo manifestazioni in Israele e anche in Cisgiordania con i nostri amici palestinesi. Per loro i rischi sono enormi. Se li riprendono, per loro è finita. Non possono più avere permessi per andare a lavorare in Israele, ne verranno colpite le loro famiglie e chissà cos’altro li aspetta. Per quanto possiamo manifestare, abbiamo bisogno di aiuto dall’esterno.
S.K.: C’è un sistema che controlla la terra, dal fiume al mare governa la stessa mentalità, lo stesso sistema razzista e di apartheid. Viviamo nello stesso Paese con diversi diritti. A breve termine servono ovviamente gli aiuti umanitari, ma in prospettiva dobbiamo trovare un modo di vivere gli uni con gli altri. Dobbiamo continuare a portare speranza proponendo un modello alternativo alla radicalizzazione. Le persone che sono nate e che vivono all’interno di un conflitto non riescono a uscire da quella logica. Ora da entrambe le parti la leadership non è interessata alla pace, nella loro agenda politica c’è la guerra. Ma la mia speranza è che le persone escano fuori insieme e chiedano una soluzione politica. Guarda il Sudafrica o l’Irlanda. Anche lì la gente combatteva e ora sono al governo. Senza cambiamento politico, le cose possono andare fuori controllo come vediamo ora, il pericolo di una guerra regionale è alle porte e la dobbiamo prevenire perché le generazioni a venire abbiano un futuro.
Da il manifesto