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La forza della donna di pace Nadia Murad non sta tanto nel coraggio, nella lotta per la giustizia come un dovere, nel diritto di rimarginare ferite. Sta nella schiettezza con cui racconta da dieci anni la sua storia ai leader della terra e nell’esercizio dell’umanità più pura: «Voglio essere l’ultima ragazza al mondo con una storia come la mia». Rapita il 15 agosto 2014 poco più che ventenne dal suo villaggio, Kocho, nel nord dell’Iraq, durante la campagna genocidaria dello Stato Islamico contro le minoranze, in particolare quella yazida, Nadia Murad quel giorno ha perso la madre e sei fratelli. Con le sorelle è stata venduta ai mercati delle sabaya, le schiave, e comprata dai miliziani islamisti che l’hanno più volte violentata e rivenduta. Dopo quattro mesi di torture è riuscita a fuggire e nel novembre 2015, arrivata in Germania grazie ad un programma umanitario, ha deciso di testimoniare per la prima volta la tragedia delle donne yazide ad un forum delle Nazioni Unite. Nel 2016 è stata nominata Ambasciatrice Onu per la dignità dei sopravvissuti alla tratta di esseri umani e insignita dal Parlamento europeo del Premio Sakharov per la libertà di pensiero. Nel 2018 ha vinto il premio Nobel per la pace, insieme all’attivista e medico congolese Denis Mukwege, «per i loro sforzi volti a mettere fine all’uso della violenza sessuale come arma di guerra e conflitto armato». Impegno portato avanti anche attraverso la sua fondazione, Nadia’s Initiative, in prima linea sia nella ricostruzione dei servizi nei villaggi della sua comunità distrutti dall’Isis, sia nell’impegnare governi e organizzazioni internazionali a sostenere i sopravvissuti alla violenza sessuale e soprattutto a prevenirla. Gli yazidi sono una minoranza etno-religiosa originaria del nord iracheno. La loro storia affonda le radici nelle culture dell’antica Mesopotamia e nei secoli hanno sempre subito discriminazioni, persecuzioni e uccisioni di massa. Le donne e i bambini rapiti da Daesh durante l’occupazione di vaste aree dell’Iraq e della Siria nell’estate 2014 sono state quasi 7.000. Ad oggi ne mancano ancora all’appello la metà: in parte sono nelle mani dei rapitori, rientrati nei paesi di origine. Di altre non si ha nessuna notizia.

Nadia Murad, le donne impegnate nei processi di pace, per i diritti e l’uguaglianza sono più concrete degli uomini e possono ottenere più risultati. È possibile affermarlo?

Conosco molti uomini in gamba che sono altrettanto impegnati per la pace e l’uguaglianza, e non sono sicura che sia utile o vero dire che le donne lottano per la pace mentre gli uomini sono per la guerra. Se vogliamo pace ed equità durature non è solo responsabilità di una parte della società, ma una responsabilità collettiva per tutti noi, specialmente per coloro che occupano posizioni di potere e sono in grado di apportare cambiamenti significativi. Tuttavia, la ricerca ci mostra che quando le donne ricoprono posizioni di leadership e sono attivamente coinvolte nella costruzione della pace nelle loro comunità, questa dura più a lungo. Quindi, penso che sia importante che le donne siano incluse in ogni fase della costruzione della pace e, inoltre, che le ragazze credano che un giorno potranno guidare le loro comunità. Allo stesso modo, gli uomini devono essere allevati nella convinzione che le donne siano capaci di input e leadership significativi. Abbiamo bisogno di fratelli, mariti e figli che ci aiutino ad amplificare le nostre voci e le nostre idee.

C’è una persona, una donna, a cui si ispira, un punto di riferimento che la guida e la motiva ogni giorno nelle sue battaglie e nell’impegno per la pace?

Mia madre era e rimane la mia luce guida e ispirazione. Era una madre single, con poca istruzione, che cresceva undici figli nelle zone rurali dell’Iraq. Ha instillato in me il senso di giusto e sbagliato, la compassione e avere obiettivi.

Ha fatto commuovere leader politici e capi di Stato con la sua storia personale. Siamo tutti colpiti dal suo forte senso di giustizia. Qual è la caratteristica personale che le ha permesso di ottenere così tanto?

Sono assolutamente determinata a garantire che gli attacchi perpetrati contro le mie sorelle, i miei nipoti, i miei amici e me – insieme a migliaia di altre ragazze yazidi – non si ripetano in nessun’altra parte del mondo. Guidata da questo principio ho parlato più e più volte, rivolgendomi ai leader politici non solo per proporre problemi, ma anche per proporre soluzioni. Ho scritto nel mio libro che volevo essere “l’ultima ragazza” che ha subito la violenza sessuale legata a un conflitto. Purtroppo così non è stato: la violenza sessuale è endemica nelle zone di guerra di tutto il mondo. Tuttavia non smetterò di fare campagne, di sostenere o di dire la verità a chi è al potere.

Perché è difficile per ogni vittima di violenza, anche sessuale, denunciare e far rispettare i propri diritti? È un paradosso.

Penso che le vittime della violenza siano spesso le più vulnerabili della società, tanto per cominciare; minoranze, donne, poveri. Quindi, quando vengono attaccati, le strutture non sono in grado di aiutarli o proteggerli. In più, per le sopravvissute alla violenza sessuale legata al conflitto, vi è lo stigma e la vergogna associati ai crimini che hanno subito, il che rende ancora più difficile la loro denuncia. Denunciare un crimine può essere di per sé traumatico. Soprattutto se la giustizia non è garantita. Una volta che i crimini sono stati denunciati e magari anche indagati, è normale che non succeda altro. In Iraq, l’UNITAD ha documentato l’omicidio, la violenza sessuale e la riduzione in schiavitù di migliaia di yazidi, ma i combattenti dell’Isis sfuggono ancora alla giustizia. Solo tre membri dell’Isis sono stati chiamati a rispondere dei loro crimini di genocidio. Sapendo che il sistema è a scapito delle vittime, diventa molto più difficile denunciare i crimini.

Nadia’s Initiative, la sua fondazione, è un progetto che sta aiutando molto la vostra comunità nel nord dell’Iraq e le azioni di pace. Qual è l’emergenza più importante ad oggi?

Penso intanto che ci troviamo di fronte a un’emergenza sfollati globale. 110 milioni di persone sono state costrette con la forza a fuggire dalle proprie case in tutto il mondo. Molte di loro vivono in campi che offrono solo soluzioni a breve termine e non sono certamente case adeguate in cui le famiglie possano prosperare. La ricostruzione e il ripristino delle zone post-conflitto per permettere il ritorno a casa degli sfollati dovrebbero essere una priorità globale, per ragioni economiche, politiche e morali. L’ISIS ha distrutto gran parte di Sinjar durante l’invasione nel 2014 e, dieci anni dopo, Nadia’s Initiative lavora duramente con i sopravvissuti per ricostruire le infrastrutture, le fattorie e le scuole che sono la linfa vitale delle comunità. Molte donne sono state lasciate da sole a prendersi cura delle proprie famiglie, quindi dare loro istruzione, e le competenze e gli strumenti di cui hanno bisogno per vivere è una parte importante del nostro lavoro. Un lavoro reso più difficile dal fatto che Sinjar è ancora una zona contesa, priva di una governance chiara o infrastrutture burocratiche. Abbiamo un disperato bisogno di rappresentanza politica e di un sindaco, nonché di finanziamenti e sostegno da parte del governo iracheno.

Quest’anno ricorre il decimo anniversario dell’attacco dell’ISIS a Sinjar. Dieci anni dopo, gli yazidi si sentono sicuri, c’è pace oppure no?

La comunità yazida è più diffusa di quanto lo fosse in passato. Molti sono partiti per rifarsi una vita all’estero, centinaia di migliaia rimangono nei campi profughi e nonostante tutte le sfide, più di 160.000 sono tornati a vivere a Sinjar. Ma penso che tutti gli yazidi si sentirebbero più sicuri se coloro che ci hanno attaccato fossero ritenuti responsabili delle loro azioni. Se sapessimo che l’agosto 2014 non si ripeterà perché è stata fatta giustizia ed esistesse un deterrente per chi decidesse di agire ancora in questo modo. Ci sono anche problemi di sicurezza più immediati. Per le donne yazide nei campi profughi c’è una reale mancanza di sicurezza e privacy. E le famiglie yazide in Germania sono preoccupate per i rimpatri, poiché il governo ha introdotto una nuova legge che obbligherà alcuni a tornare in Iraq. Ci sono problemi di sicurezza da molto tempo per coloro che vivono a Sinjar. Credo fermamente che dobbiamo ricostruire la nostra patria in modo che le famiglie possano lasciare i campi e crearsi vite con uno scopo per sé stessi. Abbiamo bisogno che il governo iracheno contribuisca a stabilizzare la regione e a garantire un po’ di sicurezza a Sinjar.

Ci sono ancora donne e bambini che riescono a tornare a casa dopo essere stati rapiti dieci anni fa?

Sì, ci sono. L’anno scorso siamo riusciti ad aiutare un numero maggiore di donne a ritornare dalle loro famiglie. Ma quasi 3.000 sono ancora detenuti dall’Isis e da persone affiliate. Garantire il loro rilascio dovrebbe essere una priorità. In Germania ci sono stati i primi processi contro membri dell’Isis grazie alla giurisdizione universale.

Perché altri paesi hanno paura di fare giustizia?

Questa è una buona domanda. Suppongo che siano preoccupati per i soldi e il tempo che ci vorrebbe. Molti paesi occidentali non vogliono assumersi la responsabilità delle azioni intraprese dai propri cittadini in Iraq. Sono incredibilmente grata alla Germania per aver assunto un ruolo guida nella giustizia e nella responsabilità verso il mio popolo.

Come sta andando l’azione intrapresa contro la corporation francese del calcestruzzo Lafarge, per il suo presunto sostegno economico all’Isis?

Siamo ancora nelle fasi iniziali del procedimento legale ma la mia speranza è che riusciremo a dissuadere le grandi multinazionali dall’aiutare e favorire i terroristi.

Come è stato accolto “Codice Murad”, che fissa linee guida per raccogliere testimonianze di violenze nel pieno rispetto delle vittime?

È un progetto di cui sono fortemente orgogliosa e mi rincuora sapere che aiuta le sopravvissute a raccontare le loro storie. L’anno scorso sono stata invitata in Ucraina per incontrare donne che avevano subito violenza sessuale e molte di loro hanno affermato che il Codice ha dato loro coraggio e fiducia mentre raccontavano le loro esperienze.

Nella guerra Hamas-Israele abbiamo ancora assistito alla violenza sulle donne. Per prevenirla nei conflitti sono sufficienti norme preventive più severe e una giustizia certa che punisca i colpevoli oppure è più importante un maggiore sostegno alle donne in tempi di pace e investimenti nella cultura dell’uguaglianza?

Assolutamente entrambe le cose. Responsabilità e educazione, ma anche consapevolezza a livello globale che la violenza sessuale contro le donne non è semplicemente un effetto collaterale inevitabile della guerra, ma un crimine utilizzato da secoli per spezzare il cuore stesso delle comunità. E deve esserci giustizia per coloro che commettono violenza sessuale legata ai conflitti, quei terroristi che perpetrano questi crimini devono essere ritenuti responsabili: cos’altro potrebbe dissuadere altri dall’usare questa tattica in guerra?

Credi che stiamo assistendo alla “fine dei diritti umani” nel mondo? Come far comprendere ai giovani l’importanza di impegnarsi sempre perché pace e diritti non siano mai dati per scontati?

Non penso che stiamo assistendo alla loro fine, gli esseri umani avranno sempre diritti. Infatti qualche mese fa abbiamo visto tante persone riaffermare la Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, giunta al suo 70° anniversario. Però il nostro mondo si trova in una situazione molto precaria e ci sono paesi e attori non statali che non attribuiscono un valore sufficientemente elevato ai diritti umani. Ma ho incontrato tanti giovani che hanno passione per l’umanità e vogliono creare un futuro pacifico. Il loro desiderio di difendere e cambiare il mondo in meglio mi dà speranza. Penso che forse le persone di cui abbiamo bisogno per essere sicuri di comprendere l’importanza dei diritti umani sono gli adulti, i leader e i decision-makers. Devono agire a lungo termine e nell’interesse degli altri.


Da Avvenire