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Partire da sé richiede fiducia, hanno detto alcune di voi, come se il partire da sé poggiasse su una fiducia già esistente. Io credo invece che sia proprio il partire da sé a costruire la fiducia. Non solo la fiducia “tra”, proprio la fiducia “in sé” e “nel sé”.

Mi è piaciuta molto la geometrica intelligenza della relazione introduttiva di Chiara Zamboni, quel suo dare ordine al pensiero di cui sento un profondo bisogno. Credo ce ne sia bisogno proprio per partire da sé con la consapevolezza che essere vivi è essere “nel” e “del mondo” e che la vita è un intreccio continuo di incontri, scontri, attriti, abrasioni con tutto ciò che definiamo “altro” da sé: altrimenti, perché non stare, ognuna/o di noi, là dove già siamo.

Non posso dunque non porre un grande punto di domanda. Che cos’è oggi, nel 2024, nel mondo in cui siamo finite e finiti, che cos’è il sé? Non è certo il sé che era negli anni ’70, per la banalissima ragione che il mondo non è più lo stesso mondo. Ho notato, tra l’altro, un’oscillazione interessantissima da parte delle varie persone intervenute: alcune dicono “partire da sé”, alcune dicono “partire da me”. Non è indifferente, perché sono categorie del pensiero profondamente diverse, come del resto sono stati molto diversi i due partire da sé di Chiara Zamboni e Riccardo Fanciullacci. Se il primo apriva al mondo, ricordandoci che il sé è un fascio effimero di possibilità immerso nella materia tutta, umana e non umana, il secondo tendeva a restringere il campo alle claustrofobiche relazioni di potere che si creano nell’istituzione universitaria. Sarebbe utile capire da dove venga questa differenza.

Un altro interrogativo stimolato dal tema, evocato da Diana Sartori, del perdersi e del trovarsi: ma il sé non è esattamente questo, un luogo di perenne mutazione, di perenne divenire? Chiara lo ha chiamato “nodo”. Io aggiungerei una “s” a quel nodo. Mi piace di più “snodo”, perché il nodo blocca, interrompe, ostacola, ferma, fa problema, mentre lo snodo è un luogo di transito, un luogo di transito di pensieri, emozioni, esperienze, memorie, desideri, ma anche di luce e di buio, di suoni, atmosfere, climi, sensazioni.

Chiara ha parlato di una cosa che in questo momento sta al centro del mio pensiero, che è l’assoluto bisogno di silenzio, o di parole molto, molto ben pensate. E le parole molto ben pensate non possono non venire dopo il silenzio. Il silenzio non è vuoto. Il silenzio è il tempo che ognuna/o di noi deve prendersi proprio perché il mondo sta cambiando a ritmi vertiginosi; è il tempo per capire come mai certe cose ci fanno soffrire, altre ci emozionano, altre non le capiamo, è il tempo in cui fare casa nel disorientamento. E allora, silenzio. Il silenzio è un momento straordinario che spero duri a lungo per me, perché è finalmente il tempo dell’ascolto.

Il partire da sé si è, da alcuni decenni, inflazionato e mercificato, trasformandosi in un seducente inganno narcisistico. Io vorrei, dunque, partire molto dalle altre, dagli altri. E allora ascoltarli, e poi chiedere loro il perché delle cose che dicono, per quali vie, attraverso quali esperienze, ci sono arrivati. Che spazio c’è tra parola e pensiero e, soprattutto, tra opinione e pensiero.

E, in ultimo, che rapporto c’è tra il dentro e il fuori? Chiara ha parlato di questi fasci che ci attraversano. E questo “sé”, appunto, non è oggi un dentro che sa guardare fuori, ma che sa anche lasciarsi guardare da fuori? E un dentro che è tutto teso all’ascolto, ma che è anche tutto disponibile a essere ascoltato?

Infine ringrazio Renata Sarfati e gli altri e le altre che hanno scritto un prezioso documento politico su quanto sta avvenendo nella Palestina storica. Io credo che parlare di “sé” senza cadere nell’ipertrofia del sé che ci viene proposta quotidianamente richieda una grande disponibilità a mettersi in gioco. Ecco, il che a me interessa in questo momento è un sé che si mette a rischio, che è disposto a esporsi, non a esibirsi. Si può definire sé un che non rischia? Ed è proprio questo sé audace a innescare gli altri sé, proponendosi come luogo di un possibile rischio comune. Oggi per me, in questo mondo così alterato, così fuori asse, davvero out of joint, questo provare a rischiare insieme è politica.