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A partire dalla domanda della giovane attivista citata nell’incontro di VD3 del 9 febbraio da Chiara Zamboni: «Che ne è della mia esperienza, allora?», vorrei proporre un radicamento nel corpo come risorsa per superare la tentazione del neutro e dell’onnipotenza, e per sperimentare la differenza sessuale nella sua dimensione di fatica e, al contempo, di libertà come concreta possibilità.

Si potrebbe paragonare l’esperienza della differenza alla scultura intesa come “l’arte di levare” di Michelangelo: dal blocco di marmo, in cui ogni forma è possibile, occorre sottrarre materia per realizzare, rendere possibile una forma specifica. Nel dire “no” a molte strade, possiamo dire “sì” a quella che attraversiamo, in parte perché così abbiamo scelto e in parte perché così ci è capitato.

C’è chi invita a evitare parole come “madre” e io condivido la preoccupazione di Traudel Sattler di fronte a queste proposte: se il linguaggio si riempie di vita vissuta non si possono ritenere “consumate” queste espressioni. Vorrei quindi partire dalla mia esperienza, perché nella gravidanza, nel parto e nell’allattamento ho vissuto e vivo un modo di essere nel corpo femminile in cui quest’ultimo si rivela inequivocabilmente nella sua differenza sessuale, insieme faticosa e potente. Mio figlio ha 18 mesi e allatto ancora: ciò rende impossibile una suddivisione dei compiti tra me e mio marito esattamente a metà, come facevamo prima. Sono io e, in particolare, il mio corpo di donna che addormenta e riaddormenta a ogni risveglio notturno, ed è ancora il mio essere donna che consola e nutre quando il piccolo è malato e non vuole mangiare cibi solidi. Io e mio marito non siamo intercambiabili, e questo ha a che vedere non soltanto con la nostra unicità di esseri umani, ma anche con la differenza sessuale. Non potrei definirci “genitore 1” e “genitore 2”, perché questo negherebbe l’esperienza del mio corpo che entra in relazione come corpo di madre, femminile, non neutro.

A volte mi sono sentita giudicata e a disagio per il fatto che, per adesso, sono soprattutto io a occuparmi di nostro figlio: nel confronto con altre coppie in cui l’allattamento non è stato possibile oppure si è concluso prima e la suddivisione dei compiti è più paritaria (a turno si addormenta, a turno si nutre, a turno ci si sveglia di notte…) una parte di me si mette in allarme, come se il mio modo di essere madre fosse una sottomissione, un adeguamento involontario al modello patriarcale. Così mi affretto a precisare: «Sì, certo, sono stanchissima, allatto e mi sveglio sempre io di notte… però mio marito cucina e pulisce in casa». In alcuni casi trovo nell’interlocutore uno sguardo sospettoso: «Davvero non potreste fare diversamente? Si addormenta solo con la tetta? Beh, allora smetti di allattare!».

Eppure: il modello di Paesi come la Francia o gli Stati Uniti, in cui ci si aspetta che le madri tornino al lavoro dopo pochi mesi o addirittura settimane dal parto, favorisce maggiormente la libertà delle donne? Non lo credo, sebbene una parte di me sia sensibile ai sospetti e ai giudizi che citavo. Perché tutta questa fretta di “richiamare all’ordine” le madri, per riprendere la felice espressione di Stefania? Mi pare in effetti un tentativo di “neutralizzare” il materno, e dunque la differenza sessuale, all’interno del ruolo di lavoratrice, più rassicurante perché più controllabile, fondato su contratti con diritti e doveri, non su esigenze imprevedibili e non negoziabili come quelle dei neonati. Si suggerisce così che il corpo della madre non è essenziale, perché esistono i tiralatte, i biberon, e anche il latte artificiale – in contraddizione con le raccomandazioni dell’Organizzazione Mondiale della Sanità che sostiene fortemente l’allattamento materno, in modo esclusivo per i primi sei mesi, e poi fino ai due anni e oltre.

Ecco quindi che la fatica e la potenza della differenza sessuale si manifestano nell’eccedenza del materno, nel suo tracimare, ché nel seno e nell’abbraccio della madre c’è qualcosa di irriducibile al neutro.