La tentazione del neutro
Chiara Zamboni
21 Febbraio 2020
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, domenica 9 febbraio 2020, La differenza sessuale alla prova del presente
La tentazione del neutro oggi viene anche da altre strade rispetto a quella diffusa neutralizzazione che è effetto dell’emancipazione, cioè dell’inclusione delle donne nel mondo maschile senza che le donne agiscano e segnalino in modo creativo la loro differenza. La tentazione del neutro sicuramente viene da un certo modo di intendere la tecnologia e il rapporto con il corpo. Ma qui mi vorrei fermare sul neutro che emerge dall’intenzione politica e culturale delle comunità lgbt di radicalizzare il superamento del genere.
Cercano di disfare il genere, in particolare il binarismo del femminile e del maschile. Partono dal livello della costruzione linguistica. Sono i più attivi critici del genere linguistico binario. Confondono il genere con il pensiero della differenza sessuale che in realtà non sanno mettere a fuoco. Infatti la rimandano ad una forma essenzialista, oggettivata. Non colgono così la specificità del pensiero della differenza sessuale, in cui natura e cultura sono legate in un percorso di soggettivazione a partire dall’esperienza.
In positivo: all’interno di queste comunità l’autorappresentazione in sigle linguistiche molteplici è una strada di lotta politica per difendere delle minoranze, e per dare voce a un disagio esistenziale. Si pensi anche solo ai trans. In questo senso è un’azione niente affatto neutra. Le riconosco un valore politico preciso. Tuttavia, alla fine, la stessa moltiplicazione di nominazioni viene sentita come qualcosa che si svuota di senso. Le identità sessuali plurime finiscono per essere a loro volta percepite come piccole gabbie linguistiche.
Ciò che vedo di vivo sono le azioni di lotta politica, dove in Italia c’è una egemonia del transfemminismo delle donne di Non una di meno. Accanto a ciò sul piano esistenziale, aggirata al limite ogni identità, restano i legami di relazionalità fluida, dove ognuno, ognuna è in quanto risponde alla relazione a cui viene chiamato da chi l’interpella. Come a dire: io sono in quanto sono chiamato e rispondo alla chiamata. Orizzontalmente. Considero questa una forma di neutro per dir così relazionale. Ricordo un amico che mi diceva: a seconda di come mi vedi e mi chiami, io allora sono femminile, o maschile o altro. La comunicazione si era interrotta quando gli avevo chiesto come rispondeva alla prima chiamata di sua madre.
Ho ascoltato Manuela Fraire a un convegno che trattava del pensiero della differenza sessuale e del genere fluido, organizzato dal Filo d’Arianna a Verona l’11 gennaio di quest’anno. Faccio riferimento al solo dibattito, dove stringeva all’essenziale le sue posizioni. Ora, anche lei si opponeva alle identità sessuate viste come gabbie linguistiche. E non aveva niente contro la fluidità vista in un percorso esistenziale. Ma ricordava che noi veniamo al mondo all’interno di una relazione primaria con nostra madre. Ovvero, che noi veniamo al mondo all’interno di una relazione che non abbiamo scelto e in cui siamo stati nominati. Rispetto alla quale siamo solo nella condizione di dipendere. All’inizio non c’è nessuna scelta da parte nostra. Questa prima relazione di differenza è ciò che rende possibile affrontare poi tutte le altre differenze.
La sessualità non è qualcosa di biologico e oggettivo e neppure un solo linguistico, dato che noi la viviamo a partire da questa prima relazione che ci nomina e in cui però passa molto di più di un puro fatto linguistico. L’erotismo invece – lei diceva – è molto più libero e del resto non è strettamente legato al sesso. Segue sue strade impreviste e va là dove non lo attendiamo.
Credo che si veda bene la distanza tra una relazionalità fluida, neutra, che si concretizza nel rispondere a chi ti interpella qui e ora, orizzontale e senza limiti e in cui si sciolgono le differenze, da un lato, e dall’altro la prima relazione in cui si nasce e in cui prende significato la sessualità, cosa ben più complessa del sesso biologico. Obietterei a chi sostiene che esiste solo la relazionalità fluida orizzontale, in cui rispondiamo all’altro, che tale relazionalità fluida è resa possibile dalla relazione primaria verticale che ci offre quella che chiamo una culla simbolica.
Ora, io credo che la tentazione del neutro nasca dalla fatica della differenza e in primo luogo dalla fatica dello stare in rapporto alla differenza dell’altra e poi dell’altro. Nasca dal desiderio di una libertà senza vincoli e senza attraversamenti di parzialità.
In questo senso il discorso di Fraire si lega a quello di Cristina Faccincani all’interno del libro La carta coperta. In entrambi i casi c’è il fatto che non si è onnipotenti. Fraire: siamo già nominati in una relazione costitutiva primaria da cui prende significato la sessualità. Non possiamo evitarlo. Faccincani: la madre non è arcaica e onnipotente. Non ha entrambi i sessi. È sessuata. Dunque parziale. Confrontarsi con una madre sessuata, che quindi è parziale, obbliga a confrontarsi con la propria parzialità sessuata. Con la propria non onnipotenza. Con la questione dell’altro come ciò che ci attraversa (l’altro tra me e me) e la nostra dipendenza dall’altro imprevisto, che incontriamo. Che ci capita. Che non scegliamo e ci coinvolge. Questo, per Faccincani, implica la capacità di lasciar andare qualcosa, di elaborare il lutto per questa perdita. È questa la condizione di possibilità per una trasformazione autentica.
Di fronte al neutro ricordo la passione della differenza sessuale, espressione presente nel primo libro di Diotima. Ha un doppio significato: sia di patire qualcosa che ci è capitato e non abbiamo scelto – essere una donna con il peso delle nominazioni già date –, sia di patire come verbo che indica la passione desiderante verso scoperte esistenziali, soggettive e singolari.
Vediamo bene la fatica della differenza femminile nei discorsi di Fraire e Faccincani: rinunciare all’onnipotenza, alla libertà di essere tutto. Accettare la parzialità. Fatica, perché la libertà è possibile solo attraverso la porta stretta della accettazione della dipendenza iniziale.
Si può vedere la fatica anche da un altro punto di vista. La fatica è proprio anche la fatica della differenza, in quanto si è una parte, che però scommette sul tutto. Sentire che la parzialità assunta ed espressa può risultare una scommessa di verità per tutti. È un percorso di grande misura partire da sé per dire una verità condivisibile. Da un lato occorre smontare i significati già dati su ciò che siamo, dall’altra stare in ascolto degli altri, coglierne i desideri, le istanze, le differenze di visione, in fedeltà al proprio percorso. Dunque la passione della differenza è anche passione positiva. Scoperta esistenziale di qualcosa di imprevisto.
Mi rimane nell’orecchio la domanda di una giovane attivista delle Non una di meno: «E la mia esperienza? Che me ne faccio delle tante identità molteplici, che me ne faccio dell’identità fluida rispetto alla mia esperienza singolare? Dov’è e dove colloco la mia esperienza in questo indistinto delle relazioni fluide e molteplici?»
Mi sembra che il pensiero della differenza le possa offrire qualcosa di preciso. E cioè di dare valore e significato alla sua esperienza. Non soltanto raccontarla, ma portarne la verità nel circuito del pensiero condiviso e nella politica di tutti. Non di una minoranza.
Vorrei concludere con un tema che mi sembra una chiave per comprendere la forma del neutro su cui mi sono fermata. Si tratta della svalutazione del linguaggio sentito solo come gabbia di potere.
La critica al genere si esercita sul suo essere gabbia linguistica soffocante. Per estensione la stessa critica viene portata alle altre nominazioni identitarie. In questo contesto il linguaggio è visto solo per l’aspetto normativo e catturante. Così viene auspicata dapprima una fuga liberatoria nel rifiutare tutte le identità linguistiche per finire poi nella identità fluida. Ci si affida alla nominazione più larga possibile. Il fluido. Si scivola così nel vasto mare dell’indifferenziato, senza determinazioni. Questa mossa è molto vicina ad un puro annullamento dell’io.
È un certo modo di concepire il linguaggio come se noi non ne facessimo parte necessariamente e potessimo salvarci altrove. Non a caso viene scelta la nominazione più comprensiva e indeterminata, il fluido.
Anch’io un tempo avevo una grande sfiducia nel linguaggio. Dunque capisco bene questa posizione. Ma il gusto per la politica mi ha portato a comprendere che il linguaggio è sì ciò che apre un campo indipendentemente dal soggetto ed è sicuramente normativo. Ma gli esseri umani sono all’interno del linguaggio e lo possono trasformare dall’interno, perché la normatività non è deterministica. C’è gioco: con il linguaggio si può fare in modo che l’esperienza singolare diventi verità condivisibile. È una scommessa.
La posta in gioco è la fiducia nel linguaggio come una casa che appartiene a tutti, postura che vedo venir meno in chi va nella direzione del fluido, dell’indistinto, del neutro. La fiducia nel linguaggio viene sostituita con la fiducia nell’azione, nel fare e nell’organizzare.
Ho scoperto da poco, girando in rete e facendo attenzione alle diverse iniziative di movimenti politici, che questo medesima sfiducia nel linguaggio visto solo come gabbia – e dunque la paura della differenza – collega tra di loro la tendenza a oltrepassare i generi verso l’identità fluida da un lato e dall’altro un certo specifico ambientalismo che si batte per il superamento della differenza tra la specie umana e le altre specie. Tenendo fermo che riconosco una tensione positiva all’antispecismo, in quanto mosso da un desiderio di giustizia verso gli animali.
In questa prospettiva però il desiderio profondo di indifferenziato annulla sia la differenza sessuale sia la differenza umana rispetto alle altre specie. Come se noi ci potessimo mettere fuori dalla nostra specie e guardarla dall’alto accanto alle altre con uno sguardo di sorvolo. Ma non è così: è vero che noi siamo incernierati alle altre specie, ma, inevitabilmente, a partire dalla nostra, che ha una singolarità imprescindibile.
Concludo ricordando la domanda della giovane attivista delle Non una di meno: «Che ne è della mia esperienza allora?» È una domanda che ha bisogno di linguaggio e di creazione politica.