Ora più che mai
Wanda Tommasi
6 Aprile 2020
In questo tempo sospeso per l’emergenza da coronavirus, vorrei fare alcune considerazioni su due aspetti della situazione attuale che mi toccano più da vicino.
Il primo riguarda i contraccolpi psicologici di una “quarantena” che non si sa ancora quanto a lungo possa durare, gli effetti delle immagini quotidiane, diffuse dai mass media, di un numero enorme di contagiati e di morti, fra cui molte mediche, medici e infermiere, morti che non possono nemmeno avere un funerale alla presenza dei loro cari, le sensazioni suscitate dalle notizie di paesi lontani ma ora in realtà vicinissimi, in cui il diffondersi del virus rischia di essere spaventoso (penso all’India, all’Iran e all’Africa, ma ci sono già in prima linea gli Stati Uniti, a segnalarci la fragilità anche dei cosiddetti paesi del benessere).
I risvolti psicologici ed esistenziali di un’angoscia che non può non toccarci intimamente sono notevoli. Io non ho una competenza in materia pari a quella di Pasqua Teora, che è già intervenuta su questo, ma, avendo fatto sette anni di psicanalisi e circa venti di psicoterapia, e soprattutto avendo ben presente la pratica femminista del partire da sé, ho spontaneamente trovato come primo rimedio all’angoscia quello di scrivere sul mio diario ciò che provavo di giorno in giorno. All’inizio, stranamente, non l’avevo fatto, forse perché avevo paura di guardarmi dentro o perché ero travolta da nuove incombenze (le lezioni on line, gli esami con le/gli studenti via skype ecc.).
Un’altra pratica che mi ha aiutato molto è stata la pittura: dipingere qualche immagine di bellezza, sia pure da dilettante quale sono, mi svuota temporaneamente la mente dalle molte preoccupazioni per delle inezie, che in fondo sono altrettante mozioni di sfiducia nei confronti di Dio, come direbbe Etty Hillesum.
La terza pratica a cui faccio spesso ricorso è la preghiera: prego molto per le persone che mi sono care, per le amiche e gli amici, per tutti. Forse questo non aiuterà loro, ma certo aiuta me a sentirmi meno impotente.
Il secondo punto su cui vorrei riflettere è il cambiamento nelle relazioni con gli altri che questa situazione di emergenza ha innescato: per la prima volta si parla dal balcone con dei vicini che prima neppure si sapeva che esistessero; quando s’incontra qualcuno per strada – a distanza di sicurezza –, ci si saluta e si scambia qualche parola; si offre spontaneamente aiuto a chi è più in difficoltà. Gli “odiatori” di professione per il momento tacciono. C’è una consapevolezza molto forte in tutti della propria vulnerabilità. Il pensiero della differenza ci ha fatto sempre tenere presente la fragilità umana, così come abbiamo più volte ribadito l’importanza delle relazioni e la dipendenza che esse comportano. Vale di più la libertà dell’in-dipendenza, anche se di libertà di movimento in questo momento ce n’è davvero poca.
Ora, come già altre hanno sottolineato nei contributi su “via Dogana”, questo cambiamento che è sotto gli occhi di tutti indica un cambio di civiltà. La mancanza delle relazioni in presenza ce ne fa sentire in modo straziante il desiderio; le amicizie, politiche e non, sono ancore di salvezza a cui aggrapparsi; siamo disposte a prestare un ascolto attento a tutte le persone che hanno bisogno di sfogarsi, di dire il proprio disagio; infine, la severità delle restrizioni ci costringe a chiederci che cosa sia essenziale per noi, che cosa conti veramente. In questo periodo, sembra stia nascendo un’umanità più consapevole della propria fragilità, più disposta ad aiutare, meno incattivita, più solidale. Non so se questo cambio di passo durerà anche una volta finita l’emergenza, non sono in grado di prevederlo, ma per ora è così. In qualche modo, l’umanità intera sembra far proprie in questo periodo le conquiste più importanti di quella che noi abbiamo chiamato politica prima.
Io vivo a Verona, una città con un numero di contagi e di morti ormai piuttosto elevato, ma non certo pari a quello della vicina Brescia, di Bergamo e dell’intera Lombardia.
Ho saputo che a Milano una poeta ha scritto su dei post-it appesi ai muri: “tutto andrà bene”. Una frase bella, ma forse troppo ottimista. Mi è subito venuta in mente la formula, simile ma non identica, che si trova nel Libro delle rivelazioni di Giuliana di Norwich: nonostante tutto il male del mondo, “tutto sarà bene, e ogni specie di cosa sarà bene”. In Giuliana, c’è la fiducia in un Dio-madre che volgerà ogni cosa al bene, benché il suo sguardo non si distolga affatto da tutto il peccato, il male e la sofferenza che affliggono il mondo.
La notte scorsa, ho fatto un sogno. Una mia cara amica, che è morta qualche anno fa di un tumore ai polmoni, mi è apparsa in sogno non devastata com’era prima di morire a causa del cortisone e delle chemioterapie, ma giovane, bellissima, elegante: mi sono prostrata davanti a lei in segno di adorazione. Allo stesso modo, nell’intimo di me, mi prostro davanti a tutti questi morti per il virus.
Che cosa, per il momento, sempre che abbiamo la fortuna di sfuggire al contagio, può salvarci? Come ho cercato di dire in questo mio breve testo, credo che possano salvarci la scrittura, la bellezza e le relazioni, beni preziosi che le pratiche delle donne hanno sempre custodito con cura. Ora più che mai.