Pandemia, lavoro e cambio di civiltà
Giordana Masotto
13 Ottobre 2020
Introduzione alla Redazione allargata di Via Dogana 3, Non sembra, ma è una grande occasione, 4 ottobre 2020
Premessa: è il cammino che cambia il paesaggio
Una breve premessa, necessaria per guardare a quelle contraddizioni pressanti, le alternative degli orrori, quel “o la borsa o la vita” a cui siamo messe/i di fronte e che vengono riprese anche nell’invito a questo incontro.
Credo sia importante ribadire – per me lo è – che le donne non hanno le risposte per risolvere le contraddizioni. Le donne sono la condizione necessaria perché gli umani – di più, i viventi – convivano senza distruggersi nelle loro radicali differenze. Ogni tanto ci facciamo prendere la mano dall’onnipotenza femminile, il desiderio di essere la soluzione di tutto. Noi non vogliamo risolvere le alternative degli orrori, la borsa o la vita: vogliamo stare attivamente nelle contraddizioni. È nelle situazioni che si contratta, avendo come punti di riferimento stare intere – pretendere, almeno in prospettiva, di starci intere – e stare in rapporto con altre donne, valorizzare le donne. Questo ci potrebbe consentire di avere autorità sufficiente per affrontare situazioni forti e di potere. Stare nella realtà è la condizione, non avere le risposte.
È il cammino che cambia il paesaggio. Il senso libero della differenza di ognuna e ognuno di noi (uomini e donne siamo tutti in cammino) non è una identità fissa a cui appellarsi, una norma o un diritto. È un processo. Conta il camminare non la meta. Nel senso che camminando e misurando i passi l’un dell’altro, cambi il paesaggio. Come abbiamo detto: attraversare le distanze per generare la differenza.
Suggestione: il maschile viene dagli animali, il femminile viene dalle piante
Non è un’affermazione scientifica ovviamente. Ma è un’immagine che mi è venuta alla mente e mi pare utile. Un altro modo di parlare di quel cambio di civiltà che ci preme e che appare sempre più necessario/inevitabile.
Avrete notato che negli ultimi anni si è sviluppata una grande attenzione al mondo delle piante, si moltiplicano i libri che parlano di alberi, cresce l’attenzione alla biomassa vegetale che è la parte decisamente preponderante della biomassa visibile. La botanica ha messo in discussione il secolare predominio della zoologia. Come se avesse vinto un secolare senso di inferiorità rispetto alla zoologia… Un cambio di civiltà che metto in parallelo all’emergere del femminile.
Due elementi in particolare mi sollecitano: l’intelligenza delle piante non è concentrata in un organo/cervello ma è diffusa nei corpi (Stefano Mancuso e Alessandra Viola, Verde brillante). Anche il pensiero delle donne nella ricerca di libertà è profondamente radicato nei corpi. Il secondo elemento è che la vita delle piante è cooperativa o non è e si intreccia con la vita dell’altro come avviene nel corpo materno: “Le piante ci mostrano che i viventi costruiscono e iniziano una vita che alimenterà e vivificherà altri viventi che se stessi, che renderà vivi altri soggetti” (Emanuele Coccia, La vita delle piante. Metafisica della mescolanza; Riccardo Venturi, intervista con Emanuele Coccia, sul sito doppiozero). Come spiega Coccia: “Se le piante sono diventate paradigmi non è solo perché non sono animali, ma perché incarnano una forma di sociabilità diversa da quella che abbiamo cercato di instaurare. La pianta incarna una forma di vita che è politicamente più importante oggi di quanto lo siano gli animali. O se vuoi, essa rende più visibile un aspetto della vita sul pianeta che l’animale occulta o presuppone senza darla a vedere in modo esplicito, almeno non attivamente”. Ecco, sostituite a piante/animali femminile/maschile: funziona.
Un’altra suggestione: “Da questo punto di vista anche la relazione fondamentale che definisce il rapporto tra umano e nonumano non è più la caccia, il pastorato o l’agricoltura, ma una certa forma di giardinaggio”. Mi piace l’idea del giardinaggio perché la trovo contigua a quella di manutenzione. “L’arte della manutenzione dell’esistenza” abbiamo scritto in Immagina che il lavoro: con la parola manutenzione non volevamo certo sminuire o banalizzare quello che in genere è chiamato lavoro di cura, ma significare una postura di forte rispetto per l’altro. Capire come funziona e come relazionarsi perché possa continuare a funzionare, continuare ad avere vita propria (manutenzione del territorio, non grandi opere!).
L’orizzonte politico
Un cambio di passo che già avviene e che rimane insieme necessario e urgente, disponibile per donne e uomini. Per questo dico che è il cammino che cambia il paesaggio, perché se tu stai nella realtà e ci stai con lo sguardo e il passo libero, cambi quella realtà. Se le cose sono viste e dette la realtà cambia.
Questo vuol dire anche che, se andiamo in cerca di nuovi paradigmi di convivenza, lì spesso ci troviamo le donne. Ma è vero anche il contrario: se ci spacciano qualcosa per rinascita e nuovo paradigma e le donne non ci sono, c’è qualcosa che non torna, ed è giusto dirlo. Anche quando accade in contesti che magari non ci interessano tanto. Per questo non mi stanno bene i distinguo: “non ci interessa stare nelle task force”. Questi sono segnali di misoginia, ed è sempre importante svelare la misoginia.
Di più: oggi lo si può fare da una posizione di forza e autorevolezza. Il che significa non solo essere lontane anni luce dalla posizione della vittima, ma smarcarsi anche dalla connotazione “di genere” e da quella “femminista”. Voglio dire che i tempi sono maturi per dire che la misoginia è segnale di miopia politica e culturale tout court. Non si può immaginare rinnovamento politico economico e dei rapporti sociali senza fare spazio a ciò che le donne hanno da dire.
Agire politica 1: svelare la misoginia al lavoro
Svelare la misoginia, come ci ha ricordato il #MeToo, è un agire politico importante. Ce lo ricordano le donne al lavoro, sindacaliste e manager: bisogna imparare a vedere e nominare la misoginia “anche quella carina” quella che negli ambienti di lavoro è ammantata di gentilezze e attenzioni, ma vuole definire il posto delle donne. Senza vedere come vogliono cambiare lavoro, governo delle aziende e contrattazione. Dunque tenere alto il livello di attenzione, perché questa componente rimane forte.
Tanto più con la pandemia e il lockdown/confinamento domestico. C’è infatti una muova misoginia che sta rialzando la testa negli ambienti di lavoro, che cerca di riconquistare il territorio ri-confinando le donne. Ma leggo come misoginia anche quella che si è manifestata nelle case. Certamente ci sono stati tanti uomini che, messi di fronte alle necessità, ne hanno preso atto e cercano di esserci. Ma leggo in una recentissima indagine che il 42% degli uomini continua a pensare che il lavoro domestico sia un compito da donne.
Su questo punto mi è piaciuto che Laurie Penny, su Internazionale (n.1361, 5 giugno 2020), abbia auspicato un #MeToo del lavoro domestico. Non c’è da aspettare una diversa organizzazione del lavoro che risolva questo nodo. Bisogna, come nel #MeToo, dirlo pubblicamente e ribadire che è una forma di misoginia non più accettabile.
Leggo come miopia dettata da misoginia anche il fatto che pareri e valutazioni maschili sulla esperienza del lavoro da casa rispetto al lavoro in azienda raramente prendano in considerazione gli aspetti di intreccio con il lavoro domestico e di cura. Soppesano isolamento e relazioni, comfort e tempi, caffè con la moka o macchinetta con i colleghi. Altro non viene in mente. Quel mix rimane patrimonio primario e quasi esclusivo dell’esperienza delle donne.
Quindi teniamo alta l’attenzione su vecchia e nuova misoginia: sia quella carina e politicamente corretta sia quella vecchio stampo che rialza la testa, nelle aziende e nelle case.
Agire politica 2: contrattare il lavoro dal punto di vista dei luoghi e dei tempi (sw e digitalizzazione)
Questa inedita focalizzazione sullo smartworking è importante e lo resterà in futuro. Ho visto recentemente che un grande magazzino ha già il reparto abbigliamento ad hoc con un grande cartello “smart work”: dunque come devi vestirti per lavorare da casa. L’occasione per alcune aziende – molte, non tutte – è ghiotta: la riduzione dei costi può essere molto attrattiva.
È una rivoluzione che si sta avviando. Non pensiamo di avere già tutte le idee chiare. La valutazione delle donne che sono immerse in questi ambienti di lavoro dice che può essere una grande opportunità ma anche un boomerang. E il lavoro smart può essere intelligente ma spesso è solo furbetto. Le due facce sono entrambe presenti: si tratta di capire come riusciremo ad affrontare questa vicenda.
Tra i segnali preoccupanti, ad esempio, mi segnalava Luisa Pogliana l’emergere di una inedita figura di top management: Chief Smart Working Officer. Attenzione: mentre fino ad ora lo sw è sempre stato affrontato all’interno della contrattazione tra lavoro e azienda, quindi con il coinvolgimento delle Risorse Umane, questa nuova figura è pensata come esigenza aziendale, di una nuova organizzazione del lavoro che consente riduzione di costi.
Questo non vuol dire ovviamente che lo sw non possa essere interessante anche dalla parte del lavoro. Ma io personalmente non do per scontato che per le donne sia sempre più naturale o vantaggioso integrare tutto nello spazio domestico. Nel libro delle metalmeccaniche della Fiom che abbiamo presentato anche in Libreria, Doppio carico, si vedeva chiaramente che ci sono donne che si sentono più forti, presenti e protagoniste al lavoro e altre che sentono che la loro vita è altrove.
Nello sw è contemporaneamente più facile conciliare ma più difficile tenere i confini. Certamente dobbiamo andare avanti a pensarci se vogliamo, com’è imprescindibile, che tutto rimanga oggetto di contrattazione.
L’altro elemento che cambia il lavoro, soprattutto da remoto, è la digitalizzazione. Qui faccio riferimento al libro, segnalatomi da Laura Colombo, La tirannia del tempo – L’accelerazione della vita nel capitalismo digitale, di Judi Wajcman. L’autrice ci invita a tenere conto delle tecnologie digitali anche nelle analisi femministe del rapporto lavoro/merce-lavoro relazionale. Non si tratta di spegnere le macchine, dice JW, ma piuttosto di ripensare il tempo e i rapporti: “la digitalizzazione invita a un radicale ripensamento dei tradizionali termini del dibattito sull’equilibrio tra lavoro e vita privata, in cui il lavoro viene contrapposto alla vita e il pubblico viene contrapposto al privato”. Insomma: come cambia tutto il lavoro necessario per vivere ai tempi della digitalizzazione? Domanda interessante a cui non possiamo sottrarci se vogliamo cominciare ad affrontare il nodo disvelato da Shoshana Zuboff: come sottrarsi alla prevedibilità a cui punta il capitalismo della sorveglianza. Perché il vero prodotto delle connessioni gratuite che usiamo è la possibilità delle piattaforme di cambiare i nostri comportamenti. Ed è su questo che dobbiamo sviluppare intelligenza politica. Anche per ripensare ambiguità e trasformazioni del lavoro di cura.
Immagina uno spazio inedito: ripensare l’abitare
Tutto questo crea un focus nuovo sulla casa e sull’abitare. Qui, secondo me, si potrebbe chiudere il cerchio su qualcosa che noi abbiamo iniziato negli anni ’70. Nelle case ha preso forza l’autocoscienza, che ha generato libertà spezzando la chiusura dello spazio domestico. Da lì le donne si sono mosse nello spazio pubblico mettendo in discussione che cosa è lavoro. Ora la crisi della pandemia ha riportato il focus sullo spazio domestico: la casa è al centro della scena e si è illuminato in modo inedito l’intreccio dei lavori, dei soggetti e delle relazioni. Sempre più cose avverranno nelle case e negli spazi di prossimità: la casa va ripensata perché cambiano le convivenze le coabitazioni i vicinati le singolarità e le solitudini. Le vite si prolungano con bisogni inediti.
Attenzione: non si tratta di ripensare la casa come estensione del luogo di lavoro, come possa essere luogo compiutamente produttivo. Ma di capire che oggi la casa può diventare il luogo che contiene tutto il lavoro necessario per vivere. È la materializzazione di un intreccio indissolubile. L’esperienza delle donne, in questa fase, potrebbe impedire che anche il luogo privato venga sussunto e messo a profitto come luogo di produzione. Ma al contrario che questo intreccio di lavoro/vita/relazioni diventi punto di vista forte su economia e uso della rete. Di più: la casa diventa anche spazio pubblico, certamente uno spazio politico.
Emanuele Coccia, che citavo prima, dice: “La prossima rivoluzione non potrà che essere una rivoluzione domestica. Inutile pensare di cambiare la società se la forma dell’intimità resta legata a modelli sessisti e violenti. Viviamo in spazi patriarcali con concetti femministi: va cambiato tutto. Le case, in senso architettonico e morale, vanno distrutte e ricostruite”.
E allora non posso non pensare alle architette, a Ida Faré, ad Annalisa Marinelli e al suo Etica della cura e progetto. Ricominciamo a pensarci.