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Qualcuno si è sorpreso e forse ha persino storto il naso quando il libro di Alain Touraine del 2006, “Le monde des femmes”, è stato pubblicato in italiano, tre anni dopo, come “Il mondo è delle donne”. Questa traduzione non del tutto letterale del titolo aveva potenti ragioni simboliche dalla sua, la prima delle quali era evitare che il discorso di Touraine fosse ingabbiato nello schema, che in effetti gli era in gran parte estraneo, secondo cui accanto al mondo degli uomini sarebbe l’ora di riconoscere l’esistenza di un mondo delle donne.

È lo stesso schema da cui, in questo numero di Via Dogana (primavera 2021), ci mette ancora una volta in guardia Lia Cigarini richiamando e sviluppando un’istanza che ha sempre guidato il pensiero della differenza: la politica delle donne non completa, non integra, non arricchisce e non si affianca alla politica degli uomini, ma le chiede di trasformarsi e di rimettere in questione i suoi assunti per divenire capace di una più profonda e più giusta civiltà. Naturalmente, questa idea vale perché con “politica delle donne” non si intende qualunque politica fatta da un essere umano di sesso femminile, ma una politica orientata da quell’amore per la libertà femminile, la cui essenza più profonda è l’amore femminile per la libertà e le sue condizioni di possibilità, tra cui un mondo vivibile per tutte le creature. In effetti, il libro di Touraine può esser letto come un’indagine su tutte le invenzioni pratiche e i contesti relazionali in cui questo amore femminile per la libertà si sviluppa e cresce, scoprendo anche le sue condizioni di possibilità e di ulteriore evoluzione. 

Ciò nonostante, come dicevo, qualcuno non ha apprezzato il titolo italiano. Al di là del richiamato dovere di restare fedeli alla letteralità, a cui è fin troppo facile opporre il più profondo dovere di tener conto del contesto per non tradire o compromettere fin dall’inizio la comprensione dello spirito del libro, quali motivazioni possono stare dietro un certo scontento maschile di fronte a formule come “il mondo è delle donne”, ma anche “la politica è la politica delle donne” (celebre titolo del primo numero di Via Dogana, del 1991)?

Qualcuna risponderà che gli uomini non vogliono sentire ciò che quelle formule fanno valere e cioè appunto che tutto cambia e ha da cambiare quando entra in scena la libertà femminile (o, con una formula più difficile ma importante, la libera significazione della differenza femminile), per cui non basta stringersi un po’ affinché anche tale libertà possa trovare posto, sulla stessa panca. 

Credo che sia una risposta parziale, che misconosce un punto molto rilevante. Per cercare di farlo vedere ho bisogno di compiere tre mosse. La prima mossa mi sarà facilmente accordata: nel momento in cui si dice, ad esempio con Clarice Lispector, “tutto il mondo dovrà cambiare” (“affinché io possa esservi inclusa”) è comprensibile che agli uomini sorga la domanda: “E noi?”. Questa domanda può sì prendere la forma: “Che ne sarà della nostra precedenza?” oppure la forma: “Che ne sarà del nostro potere?”, ma può anche significare: “Quale sarà il mio nostro posto in questo mondo nuovo?”, una domanda che tradisce chiaramente un’inquietudine che dovrebbe essere espressa piuttosto così: “Ci sarà un posto per noi in quel mondo?”. Ora, le prime due formule vanno effettivamente combattute e lo sono state: alla prima si è fatto osservare (ad esempio da Luce Irigaray) che quella precedenza, nonostante fosse alla base dell’ordine patriarcale, derivava dalla cancellazione di una precedenza ancora più originaria, per cui va semplicemente lasciata cadere come illegittima. Alla seconda formula, il movimento delle donne ha risposto invitando a liberarsi dall’incantamento verso il potere o almeno a interrogarlo per scoprirne le radici e coltivarle in maniera diversa, meno mortifera per le donne, per la natura, ma anche per la stessa creatività e felicità maschili. E alla terza formula, invece, quella in cui gli uomini si chiedono quale sarà il loro posto, se ce ne sarà uno, nel mondo messo al mondo dalla libertà femminile, cioè nel mondo in cui il figlio maschio non è più per diritto il preferito, a questa terza domanda che cosa è stato risposto? 

Qui devo introdurre la seconda delle tre mosse annunciate, quella che per tanto tempo è stata la mia ultima mossa – lo è stata da quando ho cominciato ad occuparmi del pensiero della differenza e del suo significato per il lavoro teorico e pratico della filosofia. Questa mossa serve a spiegare perché è giusto e in un certo senso necessario che non siano le donne a rispondere alla pur legittima domanda degli uomini sul proprio posto. Questa non risposta è una conseguenza della pratica del partire da sé e del significato che le viene riconosciuto all’interno dello stesso discorso teorico del pensiero della differenza. L’idea è che non possano essere che gli uomini, partendo da sé e dunque praticando la parzialità, a prendere parola sul loro possibile posto, o meglio, sul loro desiderio e su ciò che del loro desiderio gli pare irrinunciabile nelle relazioni con gli altri e innanzitutto nelle relazioni con la libertà femminile. 

Questa conseguenza deriva direttamente dall’affermazione capitale secondo cui i sessi sono due, affermazione che, diventa ogni giorno più urgente ribadirlo, non serve a contare e dunque a dire che non sono tre o quattro, ma serve a sottrarsi ai dispositivi concettuali e pratici dell’uno. Tale sottrazione, tuttavia, può essere intesa in due modi. Nel primo caso, come abbandono del tema dell’universale in quanto sarebbe inseparabile dal monologo dell’uno e dunque in quanto in realtà non sarebbe altro che uno strumento inventato dal sesso maschile per legittimare il sopruso della sua precedenza. Nel secondo caso, invece, il pensiero della differenza, nel sottrarsi all’uno, non cede sull’universale bensì complica l’accesso ad esso: viene barrata la possibilità di parlare immediatamente a nome dell’universale, quella possibilità che invece gli uomini hanno sempre attribuito a se stessi (la attribuivano all’essere umano, all’homo, per poi aggiungere che le donne, di tale essere umano, erano una realizzazione imperfetta per cui quella possibilità non era davvero aperta anche per loro – e se lo era, lo era solo previa cancellazione della differenza attraverso quell’altra figura neutralizzante che è l’individuo). L’universale diventa ora la mediazione, ossia, ciò cui è, forse e mai definitivamente, possibile accedere attraverso il confronto con gli altri e le altre, ossia praticando il partire da sé in uno spazio che si riconosce abitato anche dagli altri.

Questa seconda maniera, per me la più profonda, di collegare la differenza sessuale e l’universale, invece di fare di questo un mero strumento ideologico maschile, è l’unica che dà necessità al confronto tra i sessi (cioè che fa sì che la libertà di ciascun sesso non sia un chiudersi su di sé, praticando solo relazioni monosessuate). Ancor più profondamente, è l’unica che permette di distinguere tra il conflitto, cioè il fronteggiare l’altro sesso senza dare per scontata la complementarità finale dei desideri o degli interessi, e la guerra (dove si ammette la possibilità, se non l’ideale, di levare di mezzo l’altro). Per ciò che, con Irigaray, sto chiamando l’universale, si possono anche trovare altri nomi, l’importante è conservare la complicazione del discorso portata da questo elemento. Per come lo intendo, è ciò che Cigarini chiama “l’orizzonte (o la scommessa) più grande” e che le consente, ragionando a partire dal fatto che i sessi sono due, di riferirsi sempre anche alla giustizia.

Ora, se vale tutto questo, allora in effetti gli uomini non possono aspettare dalle donne, neppure dalle maestre, la risposta alla domanda: “Che ne è della nostra libertà quando la libertà femminile entra in scena?”. La risposta non può che venire dal partire da sé e dal libero scambio con le donne.

Come dicevo, per un certo numero di anni mi sono fermato qui, a queste due mosse, quella che mostra che l’affermazione della libertà femminile chiede (e comincia a generare) una trasformazione del mondo e quella che mostra che è giusto non cercare in quell’affermazione una risposta alla domanda degli uomini intorno alla trasformazione della loro libertà e alla verità del loro desiderio. Da qualche tempo, però, mi sono convinto che occorra aggiungere una terza mossa così da poter ragionare meglio su una certa impasse maschile a raccogliere la sfida portata dalla libertà femminile. Alla base di questa terza mossa c’è il rilevamento di una cosa evidente cui però non avevo mai prestato attenzione: se è vero che non spetta al femminismo della differenza determinare come gli uomini debbano o possano concretamente abitare lo spazio comune, è vero altresì che le formule che ho citato all’inizio, “il mondo è delle donne”, “la politica è la politica delle donne” ecc., non sembrano lasciare uno spazio alla risposta maschile, né tantomeno testimoniano un interesse verso tale risposta. Forse quei millenni di assenza delle donne dalla storia, di cui parla Carla Lonzi, sono millenni in cui si è accumulata in loro una tale sfiducia nei confronti di una libertà maschile non prevaricante e dunque di una creatività generativa da parte degli uomini, che oggi le donne, pur non parlando per l’altro sesso, non sono neppure inclini ad attendere le sue parole. Le donne vanno per la loro strada e quando finalmente gli uomini avranno smesso di ritirare fuori vecchie formule, si vedrà.

È un atteggiamento che si può ben capire, ma sta di fatto che agli uomini fa un effetto paralizzante. Perché? La mia ipotesi è che ingeneri un’ansia da prestazione, oltretutto raddoppiata dal fatto che la prestazione in questione non corrisponde a nessuna delle due che in quei millenni sono state messe a punto e cioè la seduzione di lei e il primeggiare nella gara virile con gli altri.

Per non farsi paralizzare da quest’ansia, la via lunga è quelli dell’analisi della differenza maschile e dell’allentamento delle sue meccaniche. È una via che si ispira al metodo dei gruppi di autocoscienza e che ha molte altre ragioni a suo favore, ma che per me come per altri ha un difetto che ce la rende impraticabile: obbliga a trascorrere davvero troppo tempo solo con altri uomini. Esiste un’altra via, più breve, per imparare e inventare una nuova pratica della libertà maschile all’altezza dell’amore femminile per la libertà e per le sue condizioni di possibilità? Io credo di sì, ma per spiegare a che cosa sto pensando, devo richiamare un ragionamento che Luisa Muraro ha sviluppato agli inizi degli anni ’90 in un articolo, “Differenza maschile e superiorità femminile”, che è stato ripubblicato nella nuova edizione delle sue Tre lezioni sulla differenza sessuale (Orthotes 2011) – in effetti la stessa idea è ripresa in maniera più sintetica ma anche più esplicita proprio nella parte finale della terza lezione.

Muraro prendeva le mosse dall’osservazione, fatta da Clara Jourdan, a proposito dell’invisibilità della differenza maschile agli occhi degli uomini: gli uomini hanno desideri e bisogni simbolici che non riconoscono né raccontano e che tuttavia condizionano i loro comportamenti. La differenza maschile non consisterebbe solo in quei particolari desideri e bisogni, ma anche nell’apparente impossibilità maschile di prenderne atto. La difficoltà degli uomini a riconoscere la propria parzialità, al di là delle semplici formule a buon mercato del pensiero dialogico (“questa è solo la mia opinione”, “secondo me”, “potrei sbagliarmi” ecc.), era ricondotta da Muraro a un’insicurezza simbolica che innanzitutto viene nascosta e poi sottoposta a una gestione mascherata che consiste, da un lato, nella gara virile e, dall’altro, nel disprezzo verso le donne e il femminile. In alternativa a questa seconda forma di gestione, che non dà vera misura, e a quell’altra che vorrebbe tirar le donne dentro la competizione con la scusa che sono anche loro degli individui, Murano proponeva di attribuire alle donne una superiorità. Precisava che tale proposta è da intendersi come l’introduzione di una sorta di regola di grammatica. Insomma, non è che Muraro allineasse i motivi di questa presunta superiorità per convincere gli uomini a prenderne atto: offriva piuttosto delle ragioni per adottare questa regola simbolica. Si tratta di una idea che mi ha subito parlato: grazie alla sua rivendicata formalità, ho sentito che ci sgravava da una fatica senza fine. Fare propria quella regola, tra le altre cose, significa accettare che il nostro è il tempo o il mondo delle donne e invece di preoccuparci che sia garantito per noi uomini un posto simbolico, provare a esserci, avendo fiducia che questo non apparirà alle donne come un motivo per rimetterci in riga e ricondurci a ruoli troppo stretti.

E così a questa regola quasi grammaticale della superiorità femminile ho continuato a pensare. Ho capito ad esempio che adottarla non coincide ancora col riconoscere autorità a una donna, tuttavia, rende possibile tale riconoscimento eliminando quell’ostacolo preliminare che è il disprezzo per l’altro sesso. Più di recente, ho inoltre capito un’altra cosa su cui vorrei concludere perché può aiutare a correggere un certo sbilanciamento che ho riscontrato nella conclusione del già citato contributo di Lia Cigarini per questo VD. 

Dopo avere decrittato l’attuale disordine (il disorientamento, l’inefficacia e l’ingiustizia) della politica (maschile) come un “narcisismo sempre più sfrenato” di uomini che “non hanno saputo partecipare al conflitto tra i sessi con la lucidità che era divenuta necessaria”, Cigarini avanza l’idea che la relazione materna, che è divenuta, grazie al femminismo, “figura di mediazione tra donne”, possa portare ordine simbolico anche nelle relazioni degli uomini con le donne. Per sviluppare questa idea, però, cita anche un famoso cantante che pare abbia detto che se si ha un sano rapporto con la madre, allora poi si rispettano le donne. Ecco è questo sviluppo che mi pare debole. Il cantante in effetti sembra ignaro di quel che ci ha insegnato Freud sulla sessualità maschile e “la più comune degradazione della vita amorosa”: perlomeno un certo amore per la madre (che si trasferisce poi sulla madre dei propri figli) è del tutto compatibile con il disprezzo verso le donne del desiderio. Per questo, non basta invitare o richiamare gli uomini all’amore e alla riconoscenza verso le loro madri per portare ordine simbolico nei loro rapporti con l’altro sesso. Semmai, sarà un rinnovato rapporto con le donne a correggere e a rendere meno parziale l’amore per la propria madre. Ma allora torniamo al punto di partenza: come incamminarsi verso un rinnovato rapporto con le donne?

Prima ho mostrato come tale domanda vada tradotta in quest’altra: che cosa può significare concretamente adottare la regola grammaticale della superiorità femminile? Ora Cigarini suggerisce che la risposta debba dare un posto importante alla relazione con la madre come figura di mediazione tra donne. Penso che abbia ragione, ma con questa aggiunta: la relazione alla madre cui gli uomini devono imparare a dare riconoscimento simbolico non è solo quella con la loro madre, ma prima ancora quella delle donne alla propria madre. È questa la relazione con la madre che il patriarcato ha rimosso (lasciandole giusto lo spazio di una trasmissione di competenze misconosciute nella loro importanza) ed è dunque questa la relazione cui non abbiamo imparato a riconoscere valore. La prima volta che ho colto, come in un’intuizione, questo punto, l’ho formulato scherzosamente così: l’ordine simbolico della madre diventa per gli uomini innanzitutto l’ordine simbolico della suocera. È uno scherzo perché le donne con cui dobbiamo imparare a relazionarci non sono solo le nostre mogli o compagne. Tuttavia, è uno scherzo serio perché tutti (persino il Papa) ci permettiamo di fare ironia sulle suocere. Questa ironia, tanto banale quanto tenace, si radica forse sulla nostra difficoltà di accettare che la libertà femminile viene davvero al mondo quando riconosce di avere una fonte e una misura che non sono gli uomini.

Ecco, dunque, la domanda che ci aiuta a vedere a che punto siamo arrivati nell’invenzione di mediazioni per dare autorità a una donna e, in generale, per entrare in relazione con la libertà femminile: quanto siamo capaci di farci da parte affinché quello spazio di riconoscenza e contrattazione femminili, chiamato ordine simbolico della madre, possa generare i suoi effetti trasformativi in questo mondo che è innanzitutto delle donne?