Cinquant’anni della Libreria delle donne di Milano: la gratitudine di un uomo
Umberto Varischio
12 Novembre 2025
Quest’anno la Libreria delle donne di Milano compie cinquant’anni. Per me, che ho incontrato il pensiero della differenza sessuale alla fine degli anni ’90 del secolo scorso, è un anniversario che tocca da vicino. Non solo perché riconosco l’importanza di ciò che la Libreria ha rappresentato, ma perché quel pensiero ha cambiato anche me, il mio modo di essere uomo, di pensare, di stare nelle relazioni.
Quando l’ho incontrato, non capivo bene perché mi riguardasse. Mi sembrava una cosa “per le donne”, e io restavo un po’ ai margini, curioso ma anche distaccato. Poi, poco a poco, mi sono accorto che il pensiero della differenza non parla “alle donne” ma dalla realtà delle donne, e proprio per questo riguarda tutti. Perché tocca il modo in cui ognuno di noi vive, desidera, parla, ama.
Dalla Libreria ho compreso la differenza tra emancipazione e liberazione, ho imparato che la libertà non è qualcosa che uno si conquista da solo, ma qualcosa che accade “tra”: tra chi si riconosce, tra chi si ascolta, tra chi si autorizza a parlare a partire da sé, ma anche grazie a un’altra o a un altro. La libertà, dunque, è un fatto di relazione e può accadere anche dentro una relazione attraversata dal conflitto, perché proprio lì il riconoscimento e l’ascolto diventano più evidenti.
La chiave della relazione come pratica politica radicale della Libreria mi ha mostrato che l’autorità non nasce dal potere, ma dallo sguardo di chi ti riconosce e ti rimanda la tua misura senza possederti. Per me, cresciuto in un mondo in cui “avere autorità” significava comandare o imporsi, è stata una rivelazione. Ho scoperto che si può stare nella parola non per vincere o convincere, ma per tenere aperto un legame. Da qui discende anche la politica, nel suo senso più profondo: fatta di legami veri, non di ruoli.
Con la Libreria ho incontrato un pensiero ancora più radicale: l’ordine simbolico della madre, secondo il quale la nostra cultura ha dimenticato la sua origine, ovvero la dipendenza da chi ci ha dato la vita e la parola, la madre. E che questo oblio ha reso il linguaggio e il pensiero poveri, perché si sono costruiti sulla rimozione del femminile, sull’illusione di un sapere che si genera da sé. Quando l’ho capito, mi si è aperto un nuovo punto di vista. Ho visto che anche il mio modo di pensare e parlare era pieno di questa dimenticanza: un pensiero e una parola che pretendono di essere universali, neutri, e invece cancellano la relazione da cui nascono.
Mi ha anche insegnato che la differenza è una via di conoscenza, non un ostacolo. Che la realtà si capisce meglio quando non la si domina, ma la si ascolta. E che la lingua materna – quella del corpo, dell’origine, dell’amore che precede ogni discorso – continua a parlarci, se abbiamo il coraggio di non sovrastarla.
Tutto questo, per me, si traduce in una pratica: imparare a fare spazio e a mettermi da parte. A non occupare tutto, a lasciare che altre parole e altri sguardi trovino posto. Non è facile, perché il maschile è stato educato a stare al centro, a parlare “al posto di”. Ma è un esercizio che libera. Ti fa scoprire che anche tu, come uomo, puoi esistere in un modo più vero, meno difensivo, più aperto.
La Libreria delle donne di Milano ha dato alle donne, in questi cinquant’anni, uno spazio simbolico di libertà e di parola. Ma quella libertà, se la si guarda bene, ha fatto bene anche a noi uomini. Ci ha mostrato che la differenza non è una minaccia, ma una possibilità di senso. Ci ha insegnato che l’altro non è un pericolo, ma una via d’accesso al reale.
Per questo, oggi, voglio dire grazie. Perché nel pensiero nato alla Libreria ho trovato un respiro più ampio, una misura del vivere più giusta. E perché, da uomo, continuo a credere che la libertà femminile non chiude, ma apre. A tutte e a tutti.