Il bullerengue è una melodia
Michela Risi
29 Ottobre 2025
Catapum: no tengo dónde caer
«A volte riesce bene, a volte male. Questo è tutto: devi seguire il ritmo e caderci sopra. Il bullerengue è una melodia, es una música que uno lleve en la sangre».
Queste sono le parole delle protagoniste del documentario della regista colombiana Palu Abadía, presentato alla Casa delle Donne di Milano in occasione del Festival del Cine Colombia Migrante 2025 in collaborazione con il Dipartimento di Lingue, letterature, culture e mediazioni dell’Università Statale di Milano, l’associazione Migras APS e il Grupo Interagencial de Género: giunto alla sua terza edizione, il Festival è un’iniziativa creata da comunità colombiane in esilio con lo scopo di rendere visibili e stimolare spazi di memoria simbolica individuale e collettiva sulla migrazione e lo sfollamento forzato in Colombia attraverso film, produzioni audiovisive e opere d’arte.
Il documentario, uscito nel 2023, presenta la vita di tre donne molto diverse per età, generazione, passato e geografia che però si parlano, si educano e si riconoscono attraverso una melodia ancestrale, originaria e perpetua: il bullerengue. La regista Palu Abadía, nata in Colombia e newyorkese da dodici anni, presentando il film al Vancouver Latin American Film Festival ammette di non aver mai ascoltato e frequentato persone, nella sua terra d’origine, che cantavano, suonavano e ballavano il bullerengue; il suo primo incontro con questi ritmi è avvenuto a New York, al concerto dei Bulla en el Barrio, collettivo di musica che conta all’attivo dodici membri e che nella grande mela organizza ritrovi musicali nei parchi, nelle chiese e nelle sale da concerto per condividere e diffondere le tradizioni e le esperienze delle cantadoras colombiane delle regioni dell’Uraba, Cordoba e Bolivar. Sarà proprio Carolina Oliveros, la cantante del gruppo, insieme ad altre due donne, Ceferina Banquez e Pabla Flores, a guidarci alla scoperta del bullerengue. Ci parlano della Colombia, di quello che è stato il suo passato e dei tentativi di ricostruzione del futuro: Ceferina descrive la sua vita da sfollata a causa della violenza della guerriglia che per cinquant’anni ha massacrato il suo paese provocando otto milioni di dispersi interni ed esterni, ricorda il ritorno dopo anni nella sua terra per riabbracciare l’eredità della sua famiglia; incarna il movimento costante per la ricostruzione del presente, che la voce e le melodie riconciliano con il passato.
Pabla Flores, cantando, racconta alla nipote come sua madre e sua nonna le abbiano trasmesso la conoscenza ancestrale del bullerengue che unisce la comunità e crea rituali.
Carolina Oliveros da New York è la più giovane delle protagoniste: trasferitasi per amore dopo un’adolescenza ribelle e conflittuale, dichiara che «Non ho cercato il bullerengue, è stato il bullerengue a trovare me» e da allora si è data la responsabilità di far conoscere alle nuove generazioni questa tradizione, che per lei è stata una herramienta de sanación, uno strumento di guarigione per unirsi con se stessa e ritrovare la sua voce.
«El toque del tambor ha acompañado generaciones y luchas de resistencia de las comunidades negras. Lo que hace es que mueve el espíritu, toca unas fibras porque tiene esa historia, tiene ese
espíritu. Es como un espíritu que se esconde dentro del tambor.»1
Resistere, lottare, non retrocedere, rimanere, ricordare, trasmettere, educare, cantare. È questa l’origine spontanea dei bailes cantaos, i balli cantati: il bullerengue è una musica afrodiscendente della costa caraibica della Colombia che gli schiavi, approdati nel porto di Cartagena de las Indias dal Congo e dall’Angola agli inizi 1500, riproducevano attorno alle palenque, fortificazioni costruite da coloro che riuscivano a scappare dalla schiavitù e che le donne gravide, senza marito oppure concubine, escluse dal fandango o dai balli popolari durante le celebrazioni religiose in onore di San Giovanni o San Pietro (il 24 e il 29 di giugno), suonavano nel patio della casa. Si narra che il bullerengue sia uno dei canti esclusivamente femminili della Colombia e ne esistono di diversi tipi: di richiamo, di celebrazione per l’inizio delle mestruazioni, allegri o tristi.
Le mura di Cartagena
e il castello di San Felipe
lo hanno costruito i neri con frustate e sudore.
Voglio partorire un bambino bianco
anche se non mi darà mai la mano
per diffondere la notizia
che partorire è umano.
È stata forse la “povertà” degli strumenti che occorrono per (ri)creare i suoni e le melodie del bullerengue a renderlo così naturale, istintivo e genetico? Sono sufficienti la voce, le mani, l’acqua. Si sono poi aggiunti il tamburo con pelle di animale e un vaso che raccoglie cocci rotti a dettare il ritmo e ordinare la voce. Si tratta di un dialogo continuo tra tutte le parti che interagiscono: la voce impera, il coro risponde, il corpo segue e comanda la melodia che, come una rete, raccoglie tutto insieme. Se prima gli schiavi neri suonavano il dolore e lo strazio davanti al fuoco, nel tempo il bullerengue è diventato un vero e proprio mezzo di educazione, di trasmissione di conoscenza ed eredità, di racconto e di memoria. Non solo sofferenza, resilienza e strategia, i bailes cantaos sono diventati apprendimento, istruzione, necessità, pratica di vita: si insegna come coltivare le piante, cucire, prendersi cura di sé e della comunità.
Catapum, il titolo del documentario, riprende il nome del movimento che fa l’acqua quando è prepotentemente percossa dalla mano: Ceferina spiega come il Catapum a volte riesca e a volte no: bisogna provare, seguire il tempo e caderci dentro. Non si premedita questo tipo di ritmo, non ci sono spartiti, non rimangono testi delle strofe già cantate: quello che non deve andare perso è la pratica del suono, la cultura della voce, l’uso delle mani per battere suoni che rinforzano e tracciano il percorso per la parola che verrà, per il pensiero che ancora non c’è. Il bullerengue è meditazione, raccoglimento, riflessione: c’è sempre qualcosa da pensare, da calcolare, da ricordare, da raccontare a chi è vicino e deve sapere quello che è stato, affinché la storia cambi e non si ripeta.
«Te levantas y cantas. Lavas los platos y cantas. Trabajas y cantas. No importa lo que enfrentes, siempre cantas…»2
(1) «Il suono del tamburo ha accompagnato generazioni e lotte di resistenza nelle comunità nere. Ciò che fa è muovere lo spirito, tocca certi nervi perché ha quella storia, ha quello spirito. È come uno spirito nascosto dentro il tamburo.»
(2) «Ti svegli e canti, lavi i piatti e canti, lavori e canti. Qualunque cosa ti capiti, canti sempre.»