“Il piano di Trump più che la strada giusta per la pace è il modo giusto per continuare la guerra”
Anna Maria Selini
10 Ottobre 2025
Lo storico israeliano Ilan Pappé fu tra i primi, vent’anni fa, a parlare di pulizia etnica della Palestina, attuata nel passato e perpetrata da tutti i governi di Tel Aviv. Nel suo ultimo libro appena uscito in Italia pronostica la fine dello “Stato dell’apartheid” e la costituzione, lenta, di un unico Paese antirazzista, plurale e democratico. «Non so quando ma so che accadrà». Lo abbiamo intervistato, riflettendo anche sul cessate il fuoco appena annunciato a Gaza.
«Il piano di Trump più che la strada giusta per la pace è il modo giusto per continuare la guerra». Non ha dubbi Ilan Pappé, lo storico israeliano che per primo, vent’anni fa, parlò di pulizia etnica della Palestina, attuata nel passato e perpetrata da tutti i governi israeliani. Nel suo ultimo libro, La fine di Israele. Il collasso del sionismo e la pace possibile in Palestina (Fazi Editore), analizza il presente ma traccia anche un futuro possibile. «Quello che vorrei – dice – e che sono certo si realizzerà, anche se non so quando: uno Stato democratico, dal fiume al mare, dove ebrei e palestinesi vivranno insieme con gli stessi diritti». Lo abbiamo intervistato.
Pappé, in questo libro fa lo storico ma anche il veggente. Quali elementi l’hanno portata a prevedere la fine di Israele?
Innanzitutto i processi che sono in corso e che stanno portando al crollo dell’attuale Stato di Israele, l’attuale regime, che è più teocratico, razzista e aggressivo nei confronti dei suoi vicini. Sono processi molto lenti, non sempre facili da individuare ma credo che accelereranno e diventeranno più visibili. Sono abbastanza certo che stia accadendo, quello che non so è che cosa lo sostituirà. Quindi da un lato l’analisi è accademica, dall’altro ha a che fare con il desiderio e la speranza, quello che spero accadrà, cioè che lo Stato razzista, teocratico e dell’apartheid di Israele sarà sostituito da uno Stato democratico per tutti, dove i palestinesi per la prima volta dopo centovent’anni potranno avere una vita normale, i rifugiati potranno tornare e questo avrà un enorme impatto positivo su tutta la regione.
E a che punto siamo?
Siamo all’inizio della fine. Alcuni processi sono più visibili, come la mancanza di coesione sociale in Israele. Ebrei religiosi e laici non trovano più una lingua comune, non possono vivere insieme e gli ebrei più fanatici hanno il sopravvento perché sono più popolari. È già visibile l’isolamento di Israele nella società civile. Quello che non vediamo è come questo si traduca nella politica dall’alto, almeno per i governi. Vediamo ebrei in tutto il mondo che si dissociano dal sionismo. Vediamo una crisi economica in divenire, un esercito esausto, che si affida totalmente all’aeronautica e ai carri armati contro dei guerriglieri, il che è molto discutibile. Dall’altro lato non vediamo ancora un movimento di liberazione palestinese che sappia che cosa fare, ma questo credo accadrà perché parlo con i giovani palestinesi, che sono più uniti e impegnati a ricostruire tale movimento.
Ma come immagina il futuro?
Immagino uno Stato solo dal fiume al mare, in cui non importa quale sia la tua religione o nazionalità, in cui si rispettano le identità collettive e gli ebrei saranno una di queste, ma non la sola. Lo immagino molto più collegato al mondo arabo che all’Europa, uno Stato normale con problemi normali. Non so quando ma so che accadrà.
Pensa che la riconciliazione sia possibile dopo il 7 ottobre e il genocidio di Gaza?
No, ora non è possibile e Israele è nella sua fase più crudele. Ma se guardiamo la storia molti regimi ingiusti e criminali sono stati molto crudeli nelle ultime fasi. Il tempo è un fattore importante e non accadrà l’anno prossimo. Non credo, inoltre, che tutti gli ebrei rimarranno in Israele: molti se ne andranno – come i bianchi in Sudafrica che non volevano vivere in uno Stato di non-apartheid. Ma spero che ne rimangano abbastanza, perché i palestinesi hanno bisogno di loro per ricostruire un Paese diverso e migliore.
All’orizzonte però non ci sono alternative politiche forti né israeliane né palestinesi.
Sì, ma non è questo il punto. Piuttosto: il mondo capisce che il suo ruolo ora non è quello di mediare ma di proteggere i palestinesi? Gli israeliani non sono in pericolo. Le persone che rischiano di essere eliminate sono i palestinesi. Poi verrà il resto.
Che cosa pensano i bambini israeliani dei bambini palestinesi dopo il 7 ottobre, secondo lei?
Quello che pensavano prima: che i palestinesi non sono esseri umani adeguati, che sono come i nazisti, i barbari. Il sistema educativo israeliano è razzista e soprattutto negli ultimi venticinque anni ha prodotto laureati che non sono in grado di vedere i palestinesi come esseri umani. Gli ultimi due anni non hanno cambiato nulla.
E i bambini palestinesi?
Dipende da dove vivono. Quelli cresciuti a Gaza conoscono gli israeliani solo come carcerieri. Quelli nei Territori occupati vedono solo coloni, coloni violenti e soldati. Infine, i figli dei palestinesi in Israele hanno una visione molto complicata perché sanno che alcuni israeliani sono brave persone e con le loro famiglie hanno relazioni e amicizie. Quindi dipende dal posto. Invece gli ebrei israeliani hanno perlopiù una visione molto unificata dei palestinesi.
Com’è stato per lei crescere in Israele? Che idea aveva dei palestinesi?
Fino a vent’anni non sapevo molto di loro. Quando ho lasciato Israele per fare il dottorato, li ho incontrati in un contesto diverso, come persone uguali e ho sentito la loro storia e ho fatto ricerche. Ho capito che tutto quello che avevo imparato e sentito fino a quel momento era molto lontano dalla verità. Che c’era un’altra storia, che mi era nascosta e ho dovuto trovarla da solo.
Quanto hanno a che fare i palestinesi con la sua decisione di diventare uno storico?
Ho sempre amato la storia e volevo scrivere la storia del mio Paese, quindi non molto. Quello che ha avuto molta influenza su di me è stata la capacità di dire: anche se lo senti dai tuoi genitori e dai tuoi insegnanti, sii critico. Non accettare tutto ciò che ti viene detto. Questo è ciò che ho imparato da loro. E ovviamente era molto importante per me capire che la storia non è neutrale, che devi essere impegnato e mi ha aiutato a diventare un attivista, non solo uno storico.
Perché Israele gode o almeno ha goduto di tanta impunità? Qual è il fattore più rilevante: economico, ideologico, il “senso di colpa” europeo?
Penso sia una miscela di fattori. Israele gode dell’immunità prima di tutto per il rapporto bizzarro che lo lega all’Europa. L’Europa non voleva gli ebrei, quindi ha suggerito che ci fosse uno Stato ebraico al di fuori dell’Europa, ma considera Israele parte dell’Europa. In secondo luogo, c’è l’idea che se non diamo l’immunità a Israele dobbiamo ritornare sulla questione dell’antisemitismo e l’unica soluzione per l’antisemitismo è stata creare uno Stato ebraico in Palestina, invece che rendere l’Europa una società antirazzista. Al giorno d’oggi, poi, penso ci sia un altro problema che è il livello della politica. I politici oggi non sono molto interessati alla moralità, all’ideologia. È molto facile comprarli per sostenere Israele. Non hanno molto rispetto per sé stessi, sono molto egocentrici. Sto generalizzando, ovviamente ci sono delle eccezioni. Di certo, quando penseranno che sostenere Israele potrebbe essere un problema alle elezioni, cambieranno e improvvisamente vedremo un intero cambiamento nella politica europea.
Gaza alla fine diventerà una “Riviera”?
No. Gaza è completamente distrutta, la terra è intossicata e la maggior parte delle città sono devastate. Ci vorranno anni per ricostruirla. Non so che cosa diventerà perché dipende dalle sorti del resto della Palestina storica e prima, credo, farà parte dello Stato di apartheid di Israele. Speriamo che in futuro faccia parte di una Palestina decolonizzata. Ma una cosa è certa: rimarrà palestinese, anche se non sarà un posto facile in cui vivere, specialmente i primi anni. E rimarrà anche la più importante fonte di resistenza, come è sempre stata.
E la Cisgiordania?
È un problema diverso, Israele sta cercando di fare alla Cisgiordania quello che fa a Gaza, ma è molto più difficile lì. I numeri sono più grandi, ma ci sono 800mila coloni ebrei. Molto dipende dal mondo, se non farà nulla per Gaza, potrebbe non farlo anche per la Cisgiordania. Siamo in un brutto momento: Israele vuole imporre la sua realtà e questo tentativo causerà molto spargimento di sangue e sofferenza – e quindi si spera che il mondo interferisca – ma non avrà successo.
Che cosa significa fare ricerca al tempo delle fake news e dell’intelligenza artificiale?
Gli sviluppi tecnici ci sono da sempre e se sei uno storico esperto, se conosci bene l’argomento, puoi stare certo di non perdere di vista la verità. Non sono preoccupato per gli storici ma per il pubblico in generale, per quanto sia facile accettare notizie false e generate dall’Ia. Penso che la cosa più importante, anche per i giornalisti, sia capire e usare le parole giuste. Se non chiami Israele “l’unica democrazia del Medioriente”, ma “Stato di apartheid”, è già un buon inizio per permettere di capire quando ci sono notizie false e propaganda israeliana.
Sull’uso della parola “genocidio” in Italia c’è un gran dibattito. Anche in Israele?
Le persone in Perù e in Malesia sanno molto di più quello che succede a Gaza degli israeliani. Non hanno idea di cosa succede a Gaza.
Ancora adesso?
Sì, perché i media israeliani collaborano con il governo, non mostrano nessuna immagine di ciò che accade a Gaza. Parlano solo dell’esercito, dei soldati coraggiosi, degli ostaggi.
Ma ci sono i social media.
Viene detto loro che sono anti-israeliani e non li guardano. Israele non permette di vedere Al Jazeera e la gente non cerca media alternativi. Quindi sicuramente il genocidio sembra loro un’accusa antisemita. Non a tutti, ma a una stragrande maggioranza.
Come si sente da israeliano?
Mi vergognavo già di questo Paese molto prima di Gaza. Le mie idee su cosa siano il sionismo e Israele non sono cambiate. In effetti ho previsto quello che è successo. Non sapevo esattamente come, ma ero sicuro che questo non potesse andare avanti e che ci sarebbe stato uno scoppio di violenza. L’unica cosa che mi ha sorpreso è stata l’indifferenza europea. La gente ha reagito subito per l’Ucraina ma i governi non hanno usato la stessa lingua per Gaza. È abbastanza sorprendente.
Che cosa pensa di Trump e del suo piano di pace?
Penso che nel migliore dei casi possiamo sperare che porti a un lungo cessate il fuoco e allo scambio di prigionieri. Non è un piano di pace. Ha tutti i problemi dei precedenti, non cambierà nulla drasticamente. Più che la strada giusta per la pace è il modo giusto per continuare la guerra.
È anche la fine di Netanyahu?
Non sono mai in grado di prevedere quello che lo riguarda. Ha una base molto forte, ora è in calo, ma se ci sarà il rilascio degli ostaggi, si prenderà il merito e potrebbe rivincere le elezioni. Ma anche se perde, chiunque lo sostituirà avrà la stessa ideologia.