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il manifesto – Alias

La scultura, si sa, è per eccellenza l’arte del levare. Nel caso delle scultrici questa definizione ha coinciso per lungo tempo anche con il loro statuto sociale. Perché se nei manuali di storia dell’arte il nome delle pittrici, pur sempre limitato almeno fino agli inizi del Novecento, è stato presente, il loro ha finito per scomparire. Un nome, però, ha resistito su tutti, quello di Camille Claudel (1864-1943), una delle figure maggiori della statuaria francese dell’Ottocento.

Entrata dopo la sua morte nell’oblio più totale, dal quale uscirà solo sporadicamente per essere associata al ruolo di allieva e musa ispiratrice di Rodin, Claudel ha finalmente conosciuto un’inarrestabile riscoperta a partire dagli anni ottanta. La sua notorietà è oggi tale che si potrebbe credere, a torto, che fosse la sola scultrice del suo tempo. Eppure intorno al 1900 sono state molte le figure che hanno intrapreso lo stesso cammino, nonostante le numerose difficoltà e i pregiudizi che questa scelta comportava. Claudel, quindi, quale punta di un iceberg oggi finalmente pronto a riemergere: questo l’assunto della mostra Être sculptrice à Paris au temps de Camille Claudel [‘essere scultrice a Parigi ai tempi di Camille Claudel’] – aperta fino al 4 gennaio al museo monografico dedicato all’artista a Nogent-sur-Seine (catalogo In fine. Editions d’art) – che riunisce le opere emblematiche di diciotto artiste riconosciute durante la loro vita e poi dimenticate.

Curata da Anne Rivière, la più illustre esperta di Claudel e delle scultrici in Francia, l’esposizione ricostruisce il percorso a ostacoli di una generazione di giovani artiste giunte nella Parigi di fine secolo, come molti loro colleghi uomini, perché attratte dalla modernità espressiva e dalla libertà di costumi offerte dalla città. Un progetto non semplice da realizzare, vista la carenza di archivi e anche di opere, spesso dimenticate in qualche deposito.

La mostra si inscrive nell’ormai consolidata tradizione di studi di genere inaugurata all’inizio degli anni settanta dall’americana Linda Nochlin e dal suo celebre e pionieristico saggio Why have there been no great women artists? (1971). Nel pieno del movimento di liberazione della donna, con un approccio improntato alla storia sociale dell’arte, Nochlin decostruiva metodicamente il mito della grandeur, spiegando come le condizioni della formazione artistica, della produzione, della diffusione e della ricezione delle opere favorissero sistematicamente gli uomini, escludendo le donne. Oggi l’eredità di quel testo, seppur datato, comincia a dare i suoi frutti, grazie al proliferare di studi in ambito universitario dedicati a quel mondo artistico femminile riemerso: studi all’interno dei quali questa mostra trova per lo più le sue giustificazioni, a partire proprio dal caso emblematico e paradigmatico di Claudel, con cui si apre il percorso espositivo.

Nata in una famiglia, senza nessun precedente artistico, della piccola borghesia francese originaria del nord della Francia, Claudel si interessa alla scultura precocemente. Già all’età di dodici anni realizza i primi busti, modellati in terra, dei fratelli Paul e Louise. Sarà innanzitutto il padre ad accorgersi del talento di Camille, sottoponendolo al giudizio del noto scultore Alfred Boucher, originario proprio di Nogent, dove la famiglia Claudel viveva tra il 1876 e il 1879.

Lo scultore insiste perché la giovane possa continuare a nutrire la sua passione seguendo dei corsi di scultura. Cosa non semplice in un’epoca in cui le donne sono ancora escluse dall’insegnamento accademico (la loro ammissione avverrà solo nel 1897) e l’arte della scultura, soprattutto, viene considerata un affare esclusivamente maschile. Nel 1881, a soli diciassette anni, la giovane Claudel riesce a imbarcare tutta la famiglia nella folle impresa di seguirla a Parigi per proseguire la sua formazione. Grazie al sostegno del padre apre il suo primo atelier, al numero 117 della rue Notre-Dame-des-Champs. Boucher vi sei reca ogni venerdì per darle consigli e correggere il lavoro di altre giovani allieve che nel frattempo l’avevano raggiunta. A partire dal 1882, ai corsi di scultura Camille affianca quelli di disegno presi nell’Académie Colarossi a Montparnasse, una scuola d’arte aperta a tutti, donne e stranieri compresi, senza concorso d’ammissione.

La mostra illustra quanto queste “accademie libere”, come venivano chiamate, giocassero un ruolo fondamentale per la formazione delle giovani artiste che giungevano numerose da ogni parte d’Europa – in particolare dall’Inghilterra e dai paesi scandinavi – per esprimersi ed emanciparsi socialmente. Qui si praticava senza preconcetti il disegno e la scultura ‘d’après le modèle nu’ [nudo dal vivo, ndr], femminile e soprattutto maschile: numerose, in mostra, le testimonianze grafiche di questa pratica, tanto banale per gli uomini quanto irraggiungibile per le donne, vera ragione della loro esclusione dal sistema accademico. Già, perché l’impossibilità d’accedere a una formazione artistica professionale non era tanto determinata da una mancanza di talento quanto da una pura e semplice ragione morale.

Ecco la prima di una serie di numerose ingiustizie, che a cascata ricadevano sulla carriera di queste giovani artiste, riducendo drasticamente il loro accesso al Prix de Rome, al Salon parigino, e di conseguenza al mercato dell’arte. Inoltre, i costi elevati della pratica della scultura vincolavano spesso le artiste alla protezione di padri o mariti: sarà proprio il desiderio di mutualizzare le forze a fare dell’atelier di Camille Claudel un luogo di sorellanza artistica e umana, un laboratorio di libertà sociale, pur non privo di qualche rivalità. Molte delle colleghe – Madeleine Jouvray, Sigrid af Forselles, Jessie Lipscomb, Amy Singer – transitarono anch’esse da Colarossi, come testimoniano i numerosi reciproci ritratti esposti in mostra, frutto di una necessità che diventava virtù.

Nonostante le difficoltà, alcune di queste scultrici sono salutate dalla critica e ottengono commissioni pubbliche, come Marguerite Syamour o Marie Cazin (moglie del pittore Jean Charles Cazin), cui si deve un intenso doppio ritratto femminile presente a Nogent.

La mostra prosegue con una sezione dedicata all’arrivo di Rodin come supervisore nell’atelier di Claudel (1882), in sostituzione dell’amico Boucher. Un incontro proficuo che vede da una parte un gruppo di giovani donne determinate a imparare il mestiere fuori dal circuito istituzionale che le rifiutava, dall’altra il titanico scultore in cerca di manodopera a buon mercato per il proprio atelier della rue de l’Université, integrato rapidamente, appunto, da Claudel, Lipscomb e Jouvray. Il magistero di Rodin non è convenzionale. L’apprendimento si fa attraverso la pratica, nel cuore della vita di bottega. Più che allieve, Claudel e le altre diventano assistenti, con funzioni le più diverse, dalla semplice cura dei materiali fino alla modellazione e al taglio dei marmi.

Grazie alla sua forza creatrice Claudel occupa progressivamente uno spazio speciale nell’atelier, dialogando alla pari col maestro, prima di emanciparsene definitivamente dopo una tormentata relazione. Jouvray, al contrario, continuerà a lavorare per lui senza essere capace di uscire dell’orbita della sua influenza: il confronto in mostra tra il suo “Schiavo” e “L’Età del Bronzo” di Rodin appare senza appello.

Nel 1913, quando l’ultima esposizione di opere di Camille Claudel coincide con il suo primo ricovero psichiatrico, una nuova generazione di scultrici – Jane Poupelet, Yvonne Serruys – ha definitivamente abbandonato le seduzioni simboliste di Rodin in favore di un linguaggio più epurato e classicista: più moderno. Di lì a poco, però, lo scoppio della Prima guerra e l’arrivo delle avanguardie contribuiranno a cancellare dalle memorie i nomi di queste scultrici resilienti: la mostra di Nogent ricuce lo strappo.