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da la Repubblica

Edith Bruck è nel suo salotto circondata da due mazzi di roselline bianche. Rinuncia al caffè, ma non a una sigaretta leggera. Ha ascoltato le dichiarazioni di Eugenia Roccella. Fa un sorriso mesto. Dice piano: «Non sono gite». Non sono gite i viaggi della memoria ad Auschwitz, se hanno un limite è quello di non riuscire a mostrare tutto: «Sono tornata a Dachau, ma non c’è più niente: è rimasto solo il forno crematorio e giù in fondo, le docce. Non ci sono le baracche, tutte distrutte». E invece bisogna vedere come dentro al memoriale di Auschwitz, «le montagne di scarpe, le migliaia di occhiali. Ricordo i corpi accatastati che mi sono trovata davanti l’ultimo giorno a Bergen Belsen, una Tour Eiffel di cadaveri».

Esce oggi per La Nave di Teseo l’ultimo libro della scrittrice di origine ungherese che ha scelto la nostra lingua per poter dire l’orrore. Perché come ama ripetere «la carta sopporta tutto». Si intitola L’amica tedesca, è una storia in cui il suo dolore di sopravvissuta incontra il dolore di chi della guerra non sapeva nulla.

Ha sentito le parole della ministra Roccella. Possiamo considerare la memoria dell’Olocausto come qualcosa di parte, coltivata solo per accusare il fascismo?

Primo Levi diceva: noi possiamo raccontare mille volte, ma non sarà mai comprensibile quel che è accaduto. Nonostante questo, ho passato gli ultimi sessant’anni della mia vita ad andare a parlare nelle scuole, con i ragazzi, ed è così importante farlo. Non per noi, ma per loro.

Sono in grado di capire?

Ho sempre parlato davanti a platee mute e in ascolto. A volte, accanto a qualche ragazzo che piangeva con me. Non so dire quanto sia grata di quegli incontri. E delle valanghe di lettere che mi scrivono ancora. Un giorno in un liceo un professore mi ha detto: signora Bruck, si ricorda di me? Era venuta a parlare nella mia scuola. Ora che sono caduta e non riesco ad andare, faccio con Zoom, ma finché avrò vita e voce non smetterò a parlare della Shoah.

Il governo vuole sminuire le colpe del fascismo?

Lo fanno da sempre. Nelle scuole, a parte questi incontri, cosa si insegna? Se ne parla poco e male. Da subito dopo la guerra nessun paese ha voluto confrontarsi con i propri delitti. Né l’Italia, né l’Ungheria. Forse, paradossalmente, a farlo più di tutti è stata la Germania. Noi sopravvissuti volevamo parlare, dovevamo liberarci di questa colpa – essere vivi – ma nessuno voleva ascoltarci. Dicevano: anche noi abbiamo sofferto la fame, anche noi abbiamo avuto i bombardamenti.

Ha visto l’accordo di pace, il rilascio degli ostaggi?

È qualcosa, certo, ma non riesco a fidarmi. Netanyahu ha fatto un grande danno con le sue dichiarazioni e la sua politica. In Europa l’antisemitismo si è acceso di nuovo, diventando uno tsunami. Mi è molto dispiaciuto vedere che a Bologna il palazzo municipale abbia esposto la bandiera palestinese, e non quella israeliana. Se vuoi la pace, devi volerla per tutti.

Perché non si fida?

Più si uccide, più si muore. Non puoi non morire un po’ dentro quando spari in faccia a qualcuno, un altro come te. E quindi con questa guerra senza fine ci stiamo tutti suicidando. La nostra umanità sta morendo. Ed è un dramma perché non c’è alcun rispetto per la vita in sé, non si rendono conto di quanto sia preziosa, di quanto – quando è in pericolo come lo era per noi ogni giorno nei campi – si sia disposti a fare qualsiasi cosa per difenderla.

Perché non se ne rendono conto?

Perché dal 1948 ci sono state solo guerre e odio. C’è stato un tentativo, poi hanno ucciso Rabin e siamo tornati indietro. Quante generazioni da allora sono cresciute nell’odio? Dico da sessant’anni, non da oggi, che non ci sarà pace finché non ci saranno due stati e due popoli.

L’amica tedesca è un romanzo che parla di un incontro difficile per lei. Lo aveva scritto molti anni fa, ma glielo avevano rifiutato.

Un editore di Firenze mi aveva detto che era un romanzo per lesbiche e io ci ero rimasta malissimo. Nessuno mi aveva mai rifiutato un romanzo, mi ero offesa come una bambina. Poi mio marito Nelo Risi mi fece l’elenco di tutte le opere di grandi scrittori rifiutate, a cominciare dal Gattopardo!

Perché era così difficile per lei avere una amica tedesca?

Non so descriverlo, ma perfino la voce, il suono della lingua, al principio mi feriva. Quando sentivo halt, o schnell, “rapido”, mi impietrivo perché mi sembrava di essere tornata al campo. Questa ragazza, che nella realtà si chiamava Brigitte, non sapeva nulla della guerra. Lo sceneggiatore con cui viveva le aveva fatto leggere il mio primo romanzo e lei aveva scoperto all’improvviso cos’era successo nel suo Paese, cosa aveva fatto quell’Hitler la cui foto sua madre teneva sul comodino, e prese a tempestarmi. Avrà bussato trenta volte alla mia porta prima che le aprissi.

Anche la vita di lei, nata nel 1945, era piena di dolore.

La madre aveva fatto tre figli con tre soldati diversi per darli a Hitler, che venerava. Poi li aveva lasciati a varie famiglie affidatarie. Brigitte era finita con padri che la abusavano, ma le mogli prendevano le loro parti e la accusavano di mentire. Come accade anche oggi, quando non si crede alle donne vittime di violenza, e si rovesciano le colpe.

Brigitte era omosessuale, il suo affetto per lei era fortissimo, non era questo però a turbarla.

No, per me era difficile stabilire un rapporto vero con una tedesca e mi stupivo di me stessa perché io non sono così. Ma la diversità – chi sei, chi ami – non mi ha mai turbata. Da quando sono venuta al mondo ho sentito che ogni vita è preziosa, e non ci sono persone di serie A, B, C.