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da La Stampa

Per Ilan Pappé, Israele sta vivendo una crisi politica, morale e istituzionale che segna la fine di un capitolo della sua storia: l’inizio della fine del progetto sionista.

Rinomato storico israeliano, una delle voci più forti dei nuovi storici nel Paese, è professore di storia presso l’università di Exeter, in Gran Bretagna, dove dirige anche lo European Center for Palestinian Studies. Noto soprattutto per il suo libro del 2006 La pulizia etnica dei palestinesi, esce in Italia con il suo nuovo libro La fine di Israele, in libreria dal 7 ottobre nella traduzione di Nazzareno Mataldi.

Vorrei iniziare con gli eventi delle ultime ore. Le risposte di Hamas e Netanyahu al piano di pace proposto da Trump. L’ottimismo del presidente statunitense e lo scetticismo degli analisti. Partiamo da qui, da storico, come giudica i venti punti del piano Trump per il dopo Gaza?

«Il piano di Trump ha tutte le caratteristiche delle proposte di pace del passato e dei processi falliti finora. La prima: nessuno parla con i palestinesi. Tutti dicono loro quale dovrebbe essere il futuro della Palestina senza capire che ogni proposta che non sia discussa con i palestinesi è destinata a fallire. E anche questa fallirà. Dopodiché nel prossimo futuro penso che ci sarà lo scambio di ostaggi e prigionieri, credo che l’esercito israeliano darà un po’ di tregua alla popolazione di Gaza, ma non credo che questo risolverà il problema principale che abbiamo in Israele e Palestina, cioè l’incapacità degli israeliani di accettare i palestinesi come cittadini con pari diritti, come uguali esseri umani. Il programma non ha alcuna risposta alla natura di base del progetto sionista, che è un progetto volto a eliminare i palestinesi in Palestina, non necessariamente attraverso il genocidio, ma rinchiudendoli in enclave come piccoli bantustan, cosa che la maggior parte dei palestinesi non accetterà mai. Quindi è un piano che non affronta davvero la questione alla radice. In parte è una messa in scena, in parte un gioco, in parte il modo di Trump di pensare che tutto sia un problema di business, e di molti altri come Tony Blair che pensano che ci sia molto denaro coinvolto in tutto questo. Quindi credo che sì, ci sarà un tentativo, ma non avrà successo».

Partiamo dal titolo del suo libro: Israel on the brink nella versione inglese, La fine di Israele in quella italiana. Dove vede i segni della fine di Israele?

«L’Israele per come lo vediamo oggi non può sopravvivere a lungo, perché stiamo vivendo la fine di un capitolo della storia del sionismo. È già sotto i nostri occhi. Il sionismo è diventato colonialismo quando gli europei, gli ebrei non europei e una minoranza di ebrei in Europa hanno deciso che gli ebrei non avessero futuro in Europa ma dovessero in qualche modo “restare europei”. Così il sionismo ha mirato a costituire uno Stato europeo nel mondo arabo, con l’idea che il futuro degli ebrei sarebbe stato meglio servito da uno Stato ebraico nel cuore del mondo arabo e a spese dei palestinesi. Qualcosa che si può ottenere e sostenere solo con la forza, con la pulizia etnica e che col tempo è diventata un’ideologia di Stato. Un’ideologia di apartheid».

Quali questioni considera cruciali per comprendere la crisi del progetto sionista che descrive nel libro?

«Il primo è un problema interno del sionismo: cercare di definire l’ebraismo come nazionalismo. Oggi, dopo ottant’anni, sappiamo che non funziona. È come se fosse impossibile parlare del cristianesimo come nazionalità, o dell’islam come nazionalità. È anche impossibile parlare dell’ebraismo come nazionalità, e il risultato di questa impossibilità è che ora ebrei laici e più religiosi trovano impossibile accordarsi su cosa significhi essere ebrei. E questo non è solo un problema individuale, è un problema collettivo, dello spazio pubblico, cioè il carattere dello Stato: è governato da idee ebraico-teocratiche o è governato da idee moderne? Questo problema non risolto per ottant’anni si è trasformato, oggi, in un conflitto sociale. Dunque questo è il primo dato: il fallimento nel far coincidere ebraismo e nazionalismo».

Nel suo libro descrive e divide fra uno Stato laico, Israele, e uno Stato religioso, lo Stato di Giudea. Quanto è diventata irreversibile questa divisione nella società e nella politica israeliana?

«È una divisione molto acuta. Parlo dello Stato di Giudea, del tipo di Stato alternativo rispetto all’attuale Stato di Israele che è emerso, prima di tutto, negli insediamenti ebraici in Cisgiordania, ma che si è diffuso, nei fatti, in tutto Israele. Il modo migliore per descrivere questo processo è che lo Stato di Giudea sta inghiottendo lo Stato di Israele.

Gli esponenti e i rappresentanti di quello che chiamo Lo Stato di Giudea, hanno già una presenza dominante in politica, nei servizi di sicurezza, tra i generali dell’esercito e nei media ufficiali. Dobbiamo ricordare che non sono affatto pochi gli israeliani che non sanno cosa sia Haaretz [in ebraico, “la terra” (sottinteso di Israele), ndr] e ora stanno assalendo il sistema giudiziario.

L’ultimo bastione che devono conquistare è la Corte Suprema di Israele, e sono sulla strada per farlo. Hanno già il parlamento. Hanno il governo.

Ora, anche se alcuni cambiamenti potrebbero verificarsi a causa della particolare personalità di Netanyahu, rimarrà comunque una forza dominante nella politica e nella vita israeliana. Ed è molto difficile intravedere dinamiche di cambiamento che possano veramente sfidare in modo efficace la loro predominanza nella politica e nella vita israeliana».

Parliamo dell’importanza della memoria collettiva e della rimozione della storia palestinese, della catastrofe degli sfollamenti e della pulizia etnica nella sfera pubblica israeliana.

«Questa questione riguarda il rapporto storico con i palestinesi. Il Dna del progetto sionista è un progetto coloniale di insediamento che ritiene che la popolazione indigena nativa sia un problema che deve essere risolto. Di solito rimuovendola o eliminandola. E questo è qualcosa che permea il sistema educativo, il sistema politico, il sistema culturale. Gli israeliani, fin da bambini, vengono indottrinati a pensare ai palestinesi come esseri umani inferiori, come un problema demografico, come un ostacolo alla loro vita in “sicurezza”. Se ci pensa, è davvero notevole che il sionismo sia presente in Palestina da 120 anni e che il 99% degli ebrei israeliani non conosca l’arabo. Questo la dice lunga su quanto siano distaccati dalla società, dalla comunità e dalla cultura palestinese».

Che ruolo hanno, e che ruolo potrebbero avere, le narrazioni storiche e la memoria nel mettere in discussione il progetto sionista?

«Vede, negli ultimi venti o trent’anni quella che sembrava essere una posizione ideologica palestinese – la memoria della catastrofe, della Nakba – è stata supportata dalla ricerca accademica. Fino a trent’anni fa quando i palestinesi dicevano di essere stati vittime di pulizia etnica nel 1948, la gente intorno diceva “è la vostra propaganda, non la verità”. Dunque oggi i ricercatori sono d’accordo nel sostenere che nel 1948 si sia verificato un crimine contro l’umanità a danno dei palestinesi. Analogamente, l’affermazione che Israele non sia una democrazia è corroborata da studiosi e organizzazioni per i diritti umani – Human Rights Watch, Amnesty International – la Corte Internazionale di Giustizia, la Corte Penale Internazionale. Quindi qualcosa è cambiato nella percezione della narrazione sionista come propaganda non basata sui fatti, ma come manipolazione e fabbricazione della verità».

La sinistra israeliana oggi appare paralizzata.

«La sinistra sionista funziona a malapena. Ma è chiaro, non si può essere un colonizzatore di sinistra. La sinistra antisionista è cruciale, molto coraggiosa, ma minoritaria. Sono gli unici che manifestano contro la guerra perché a Gaza è in corso un genocidio. Una delle storie tristi qui è che la forza di contrasto – chiamiamola l’élite liberale e laica in Israele – ha deciso, invece di combattere, di lasciare il paese, e quelli che sono rimasti, soprattutto a Tel Aviv, quelli che chiamiamo i kaplanisti e animano le manifestazioni del sabato, non hanno davvero una visione alternativa allo Stato di Giudea. Quello che vogliono è continuare la loro privilegiata vita a Tel Aviv senza esserne toccati, ma non hanno una percezione alternativa di quale sia il problema con i palestinesi e di come affrontarlo; perciò credo che perderanno, o che forse hanno già perso perché l’altra parte – lo Stato di Giudea – è molto chiara nella sua visione, nella sua ideologia, nei suoi mezzi, nel modo in cui vuole procedere verso il futuro per raggiungere i propri obiettivi, e ci sta riuscendo».

Nel libro sostiene la decolonizzazione anziché gli aggiustamenti alla soluzione dei due Stati. Decolonizzazione come unico quadro morale e politico duraturo. E dalla decolonizzazione un percorso che unisca misure di giustizia riparativa, riorientamento giuridico, risarcimenti, riparazioni. Come risponde alle critiche che definiscono la soluzione politica che lei propone nel libro come una soluzione irrealizzabile, e impraticabile?

«È un’utopia? Forse, ma non c’è nulla di sbagliato in questo, perché le utopie possono dare un orientamento. Ma io credo che i processi di disgregazione – che forse non sono visibili a tutti – siano già cominciati. Sono uno storico e so che il crollo degli Stati e dei regimi può, all’inizio, essere molto lento e poi accelerare rapidamente. L’espressione del potere, soprattutto quello militare da parte dello Stato populista messianico di Israele lo farebbe istintivamente pensare come uno Stato forte. Ma pensiamoci bene, uno stato che lancia bombe in Qatar, in Yemen, che ha occupato parte della Siria e parte del Libano, che commette un genocidio a Gaza, è uno stato che non può che generare ostilità e alienazione. Uno Stato che con questa condotta non può essere tollerato e sostenuto ancora a lungo. Sa, l’’Egitto, la Giordania, la Siria e il Libano – a cui si possono aggiungere l’Iraq e l’Arabia Saudita – ora pensano di poter tollerare Israele; pensano persino che questo tipo di Israele dia loro dei dividendi. Ma questa non è una posizione condivisa dalle loro popolazioni.

Quindi qualsiasi cambiamento nella relazione tra società e regimi nel mondo arabo cambierebbe la posizione dei Paesi intorno a Israele. C’è un momento – lo dico come storico, naturalmente non sto predicendo il futuro – in cui un tale comportamento non è più tollerato, Israele sta alienando tutti intorno anche molti – molti amici. È qualcosa con cui gli israeliani devono cominciare a fare i conti».