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da Techeconomy2030 -Digital Transformation For Sustainability

L’uomo è diventato una specie di dio-protesi: quando si serve di tutti i suoi organi ausiliari è veramente magnifico; ma non li porta con sé e spesso non riesce a usarli senza difficoltà”

A volte ci spaventiamo dell’intelligenza artificiale come se fosse una potenza autonoma pronta a ribellarsi, e nello stesso tempo sembriamo distratti di fronte agli usi concreti che governi e imprese ne fanno quotidianamente. È questa la vera contraddizione del nostro tempo: non la macchina in sé, ma il modo in cui la usiamo o, peggio, lasciamo che altri la usino per noi.
L’inchiesta che ha svelato l’impiego dei servizi cloud e di intelligenza artificiale di Microsoft da parte dell’Unità 8200 israeliana per la sorveglianza massiva dei palestinesi ne è un esempio clamoroso. Il contratto risaliva al 2021 e permetteva di immagazzinare e processare milioni di chiamate telefoniche, con una capacità impressionante: fino a un milione di conversazioni l’ora. Tutto questo è avvenuto per anni, lontano dallo sguardo pubblico, fino a quando non è esploso lo scandalo. Solo allora Microsoft ha interrotto i servizi del suo sistema Azure – che sembra voler trasmettere anche nel nome calma e tranquillità, come un fondo pensione –, quando i dati erano già stati raccolti e utilizzati. Un classico caso di stalla chiusa a buoi già scappati, che mette in luce la sproporzione tra la rapidità con cui la tecnologia si insinua nelle nostre vite e la lentezza con cui reagiamo quando se ne svela l’abuso.
Il tema, però, non è nuovo. Già i Greci avevano intuito che la téchne, l’arte del fare, non fosse una licenza illimitata ma una forma di supplenza, un modo per colmare la nostra fragilità. Pensiamo a Dedalo, che con la sua inventiva dona le ali al figlio Icaro, ma non può impedirne la caduta quando la spinta dell’eccesso lo porta troppo vicino al sole. O all’automa di bronzo Talos, creato da Efesto per vigilare su Creta, metà prodigio e metà minaccia. In questi racconti la tecnologia appare come un dono ambiguo: estensione delle nostre capacità e, insieme, potenziale dismisura, hýbris contro gli dèi.

Che cosa significa téchne (e i miti che la raccontano)

In greco antico, téchne non era “tecnologia” nel senso moderno, ma arte, mestiere, capacità pratica. Era distinta dalla epistéme (conoscenza teorica) e indicava il saper trasformare un’idea in azione o in oggetto.

I miti ci mostrano bene la sua ambivalenza: Dedalo, inventore geniale, costruisce le ali che permettono a Icaro di volare ma leccesso porta alla caduta. Efesto forgia automata di metallo capaci di muoversi e servire, straordinari e inquietanti antenati dei nostri robot. La lezione resta attuale: la téchne colma una mancanza, ma se usata senza misura diventa hýbris.

Questi miti ci ricordano che la questione non è mai stata tecnica, ma sempre etica e politica. Lo vediamo anche oggi, nell’ipocrisia con cui giudichiamo certe piattaforme e ne tolleriamo altre. TikTok, per esempio, negli Stati Uniti è stato trattato come una minaccia alla sicurezza nazionale, al punto da imporne la vendita forzata per proteggerne la democrazia. Ma la stessa lucidità non si applica a piattaforme americane come Meta o X, che ogni giorno plasmano le nostre bolle informative e influenzano le opinioni politiche senza che questo sollevi allarmi equivalenti. Condanniamo la propaganda “straniera” e ci abituiamo a quella domestica, anche quando la sua portata non è meno invasiva.
Chi controlla gli algoritmi, in fondo, controlla l’accesso all’informazione e con esso la trama stessa delle relazioni sociali. È qui che la tecnologia smette di essere un tema da ingegneri per diventare un nodo di potere. Se il dibattito pubblico resta limitato a slogan e a paure generiche sull’IA “buona” o “cattiva”, perdiamo di vista il punto centrale: lasciamo che soggetti privati, spesso stranieri, stabiliscano le regole invisibili della nostra democrazia informativa. Il rischio sistemico non sta tanto nella provenienza di una piattaforma, quanto nella concentrazione di potere e nella mancanza di trasparenza con cui viene esercitato.
Qui entra in gioco la politica, o meglio la sua assenza. Se la tecnologia è un attore di scena, chi scrive il copione? Chi decide i limiti, le regole, le conseguenze? Non possiamo più accontentarci di reazioni tardive, come quella di Microsoft. Servono norme chiare e strumenti di controllo democratico che riducano al minimo la possibilità di violare impunemente i principi dei nostri codici civili e costituzionali. In mancanza di ciò, continueremo a inseguire gli scandali a giochi già fatti.
E infine c’è un equivoco che vale la pena di sfatare: l’idea che l’intelligenza artificiale abbia una sua “etica intrinseca”. È una narrazione rassicurante, che sposta il problema dalle nostre responsabilità alla macchina. Ma, come ricorda Stefano Epifani nel suo ultimo libro Il teatro delle macchine pensanti, l’IA non possiede etica: ha istruzioni, vincoli, dati e obiettivi che noi definiamo. L’etica appartiene alle persone, alle società, ai governi che decidono come usarla. Illudersi che la macchina possa in qualche modo sostituire questo compito significa ripetere, in versione digitale, la stessa hýbris che i Greci avevano già messo in guardia nei loro miti.

Tre priorità per la politica

1. Trasparenza: aprire dati e algoritmi a controlli indipendenti.
2. Simmetria: regole uguali per tutte le piattaforme con impatto sistemico, non solo per quelle “straniere”.
3. Legislazione efficace: norme capaci di ridurre al minimo le possibilità di violare impunemente i principi dei nostri codici civili e costituzionali.

Tra Prometeo e Azure, il messaggio resta lo stesso: non è la tecnologia a renderci più o meno giusti. Siamo noi, con le nostre scelte, a darle una direzione. E se vogliamo evitare che le nostre protesi diventino catene, dobbiamo assumere fino in fondo la responsabilità politica ed etica del loro governo.