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da Diogene Notizie

Per la prima volta, oltre cento donne sudcoreane che per decenni hanno lavorato nei locali attorno alle basi USA hanno depositato una causa collettiva per chiedere scuse formali e risarcimenti, accusando l’esercito statunitense di aver promosso e regolato il commercio sessuale nelle “città-campo” (kijichon) e di aver imposto controlli sanitari e internamenti forzati.

Le ricorrenti indicano una richiesta di 10 milioni di won a testa (circa 7.200 dollari) e puntano a chiamare in causa direttamente il comando americano, non solo lo Stato coreano già condannato in precedenza.

Gli avvocati sostengono che la responsabilità sia congiunta: la Corea del Sud avrebbe organizzato e incoraggiato quel sistema in nome dell’alleanza, mentre il comando USA ne avrebbe dettato regole e prassi, a partire dal controllo delle malattie veneree e dall’accesso dei militari ai distretti “speciali”.

Il comando delle Forze USA in Corea (USFK) replica con la linea ufficiale: tolleranza zero verso prostituzione e tratta, locali “off-limits” se collegati a sfruttamento e policy interne contro i “juicy bar”, in vigore dal 2014. Ma proprio quelle policy – nate tardi e applicate a macchia di leopardo – sono oggi sul banco degli imputati morali.

Sul terreno, intanto, riemerge la memoria fisica del sistema: a Dongducheon la disputa sul destino della “Monkey House”, l’ex struttura di quarantena dove le donne risultate positive ai test venivano confinate e imbottite di penicillina, contrappone municipio (che vorrebbe demolire) e associazioni che chiedono un museo della memoria. È la prova che non si litiga solo sul diritto, ma anche sul modo in cui un Paese ricorda.

Non è il primo processo. Nel 2022 la Corte Suprema sudcoreana ha stabilito che il governo ha incoraggiato e regolato la prostituzione nelle città-campo per ottenere dollari e consolidare il legame con gli USA, condannandolo a risarcire decine di donne.

Quelle sentenze hanno riconosciuto anche la “cura” coatta come pratica sistematica e violenta: prelievi due volte a settimana, rastrellamenti nei club, badge numerati, “hot sheet” [lista dei ricercati, Ndr] con foto e dati per tracciare i contatti dei soldati infettati. La nuova causa cerca ora di estendere quella responsabilità alla catena di comando americana.

Un nodo giuridico pesa da sempre: il SOFA (Status of Forces Agreement) disciplina giurisdizione e tort claims [‘reclami’, ‘denunce di illeciti’, Ndr]. Molti contenziosi devono passare dai comitati coreani e sono limitati agli atti “in servizio”, circostanza che ha spesso immunizzato il lato americano della filiera. Anche per questo le ricorrenti hanno scelto di notificare nuovamente lo Stato coreano “per fatto altrui”, mirando però esplicitamente alla responsabilità USFK.

Dopo la guerra di Corea, i kijichon diventano una macroeconomia di frontiera: distretti a ridosso delle basi dove, pur essendo illegale, la prostituzione è tollerata e regolata. In un Paese poverissimo, quel circuito alimenta stipendi, affitti, cambisti, dogane. Funzionari coreani chiamano le donne [prostituite] «patriote che guadagnano dollari»; manuali e circolari definiscono igiene, dress code, lingue da imparare per servire i GI.

La prassi sanitaria è ferrea: test bisettimanali, controlli a campione nei club, cartellini numerati e foto in clinica, detenzione per chi risulta positiva o priva del tesserino. Testimonianze riportano morti per shock da penicillina nelle strutture di isolamento.

Dai numeri alla vita quotidiana: decine di migliaia di donne – molte minorenni all’accesso – reclutate dalla povertà, ricattate dal debito con i protettori, o arrivate dall’estero (Filippine, Russia, Sud-est asiatico) negli anni Novanta-Duemila con visti “spettacolo” poi sequestrati. Nelle città-campo si stratifica perfino la segregazione razziale dei club (bianchi/neri) ereditata dall’esercito USA del tempo. In parallelo, ONG come Durebang / My Sister’s Place (dal 1986) costruiscono resistenza: sportelli legali, riparo, alfabetizzazione, lavoro alternativo.

Negli anni 2000 l’USFK dichiara la tolleranza zero e mette off-limits i “juicy bar” che lucrano su drink e compagnia a pagamento; l’Aeronautica a Osan stringe le maglie nel 2013; nel 2014 il comandante Scaparrotti firma la policy 12. Ma mentre le regole cambiano, molte donne rimangono invisibili: fuori età, senza reddito, marchiate dallo stigma. Oggi bussano alla porta della giustizia perché lo Stato ha riconosciuto di averle usate; ora tocca all’alleato assumersi la propria parte.

Le ricorrenti chiedono scuse ufficiali, danni individuali e un impegno concreto su memoria e archivi: conservare i siti come la “Monkey House”, aprire i documenti sanitari e di polizia, interrompere l’ultima forma di violenza, il silenzio.

Perché quella storia non fu un “mercato grigio” cresciuto al margine, ma un dispositivo istituzionale in cui interesse strategico, valuta estera e disciplina militare fecero sistema. E perché nessuna politica di “off-limits” nel presente cancella la catena di comando del passato.