Jacinda Ardern: «Ho governato con gentilezza. Non è ammesso»
Roberta Scorranese
8 Settembre 2025
dal Corriere della Sera
Quando, nel 2017, Jacinda Ardern si è candidata alla massima carica politica del suo Paese, la Nuova Zelanda, non ha avuto dubbi: «La gentilezza sarà il mio principio guida», annunciò decisa. Non sapeva ancora che nei cinque anni vissuti da Prima Ministra avrebbe dovuto affrontare uno degli attacchi terroristici più gravi che abbiano mai colpito lo stato dell’Oceania, la pandemia da Covid-19 e un pesante terremoto. Ma oggi, nella sua nuova vita – di ricercatrice e docente universitaria di politiche internazionali, attivista per l’ambiente e speaker in numerosi eventi – conferma che quel principio guida iniziale, la gentilezza, è stato il perno intorno al quale costruire e far muovere non solo una carriera politica, ma un’intera vita. E, soprattutto, per Ardern è nata lì la decisione più difficile, quella rinuncia alla premiership che nel 2023 l’ha portata ad annunciare le dimissioni davanti a cinque milioni di persone (tanti sono gli abitanti della Nuova Zelanda), ammettendo, in estrema sintesi: «Sono stanca».
Nella seconda settimana di settembre, per Baldini + Castoldi, esce [il 5 settembre 2025, Ndr] anche in Italia “Un altro genere di potere”, la sua autobiografia, un libro che Ardern porterà anche al Tempo delle Donne, la Festa-Festival del Corriere della Sera, in un incontro esclusivo con il pubblico alla Triennale di Milano, il 12 settembre alle 15, nel Giardino.
“Professor”, “Dame”, “signora”: come preferisce essere chiamata oggi?
«Va benissimo Ardern, o Jacinda se preferisce. L’empatia è stato uno dei cardini della mia missione politica, anzi parte tutto da lì, compreso questo memoir».
Nei suoi libri e nelle lectio magistralis che tiene negli atenei del mondo, lei ribadisce spesso che a suo modo di vedere la gentilezza non è una semplice attitudine, ma un vero e proprio atto politico.
«È così. Quando sono stata eletta prima ministra del mio Paese mi sono accostata a questa carica con molti timori, sia perché ero molto giovane, trentasei anni, sia anche perché ricordavo bene quando, tempo addietro, avevo detto no a un’altra occasione politica in quanto convinta che la mia innata sensibilità, la mia tendenza alla gentilezza non sarebbe stata utile, anzi, ero sicura che non sarei sopravvissuta in quell’ambiente così competitivo».
E poi?
«Poi ho capito che non è così, al contrario: in politica la gentilezza è la chiave per arrivare alle persone, è lo strumento attraverso il quale comprendere che cosa vogliono davvero quelli che ti affidano il voto. In questo caso, per gentilezza intendo empatia, ascolto, comprensione, sensibilità. Ho imparato che una vera leadership non può prescindere da questo, che alla lunga questa attitudine ripaga. Almeno, nel mio caso è stato così».
Già, perché lei si è dimessa con nove mesi di anticipo in un momento di robusto consenso, dopo due mandati e una vittoria schiacciante della sua compagine, il Partito Laburista, nel 2020. Non di certo perché costretta dalle proteste o da debolezza.
«Quell’ormai famoso addio alla politica ha fatto nascere numerose interpretazioni, io stessa mi sono meravigliata di quante spiegazioni sono state trovate. La complessità di quel gesto è, tutto sommato, semplice: proprio perché ho sempre cercato di restare in ascolto, non solo degli altri ma anche di me stessa, ho capito che a un ruolo così privilegiato è connessa una grande responsabilità, prima di tutto quella di sapere se sei o no la persona giusta alla guida».
E che risposta si è data?
«Che cominciavo a non esserlo più, o, almeno, che quelle energie che mi avevano sostenuta all’inizio stavano venendo a mancare. Io mi sono ritrovata a essere ricercatrice in Parlamento, consulente nell’ufficio del primo ministro, deputata e poi leader del mio partito. Tutto questo a sole sei settimane dalle elezioni, quando sono diventata prima ministra che nemmeno ci credevo».
Non solo: a poche settimane dall’elezione lei ha scoperto di essere incinta. Nel libro racconta delle nausee che l’hanno colta persino durante il discorso di insediamento.
«Ed è stata la regina Elisabetta a darmi il suggerimento più apprezzato. Quando la incontrai, in uno dei viaggi ufficiali che feci mentre aspettavo Neve, le chiesi come fosse riuscita a gestire una vita pubblica così straordinaria e incessante, pur rimanendo madre e nonna, lei mi rispose: “Vai avanti e basta”. Aveva ragione, perché fino a quando sei consapevole del perché sei lì, a ricoprire quell’incarico, hai la lucidità per trovare una soluzione a tutto».
Ecco, forse, il punto: essere sempre consapevoli del «perché sei lì», per quale motivo ricopri quella carica? Il potere spesso annebbia questa consapevolezza.
«Sì, la gentilezza di cui parlo serve anche a non perdere mai di vista il tuo compito e, dunque, serve a capire quando è il momento di staccare perché tu non sei più quello che avevi in mente, non rispondi più a una vocazione. Ma c’è un problema: in politica la gentilezza non è ammessa, perché la si scambia per debolezza».
Come hanno insinuato in molti, all’indomani delle sue dimissioni.
«Questo è il nodo: io non me ne sono andata perché quell’incarico era difficile, se fosse stato così avrei dovuto fare i bagagli molto tempo prima, perché era difficile eccome. Me ne sono andata perché sapevo benissimo quale impegno richiedesse quella carica e le forze mi stavano venendo meno».
E se calano le energie è più probabile che si ceda al facile consenso e che si smetta di prendere decisioni impopolari, sì, ma giuste per il Paese.
«Viene a mancare il coraggio politico, chiave essenziale per una buona leadership. Ricordo benissimo quando arrivarono le prime notizie della pandemia da Covid-19 e decidemmo subito di chiudere le frontiere. Quello, come ricordo nel libro, per noi voleva dire danneggiare il turismo, elemento essenziale per la nostra economia. Ma la gestione della pandemia da parte nostra è stata poi elogiata».
Dopo il duplice attentato a una moschea e a un centro islamico nel 2019, lei era fermamente decisa a cambiare la regolamentazione sull’uso delle armi.
«Ma la legge che vietava le armi semiautomatiche di tipo militare venne approvata con l’ampio sostegno di tutti i membri del Parlamento, tranne uno. Dunque, ecco un’altra dimostrazione del concetto di gentilezza applicata alla politica: se resti all’ascolto dei reali bisogni delle persone non farai fatica. Ho come la sensazione che ci impegniamo molto a insegnare la gentilezza ai bambini ma poi, nelle professioni da adulti, come la politica appunto, la accantoniamo come un elemento di fragilità. Non sono d’accordo ed è quello che cerco di diffondere».
Be’, se ci guardiamo intorno e osserviamo Donald Trump, Vladimir Putin o Benjamin Netanyahu non possiamo negare che la nascondono molto bene.
«Mi piace credere che una buona leadership possa prescindere dal genere. In fondo, tanti leader eletti da poco come Mark Carney in Canada o Anthony Albanese in Australia hanno messo al centro questi valori».
Però certamente le avranno chiesto qualche volta se la gentilezza in politica non sia una prerogativa femminile. Proprio perché in questo caso non parliamo di “fragilità”, ma anzi, di “un altro genere di potere”.
«Me lo hanno chiesto molte volte, sì. Il punto è che tante persone la pensano in questo modo, elemento che a mio avviso andrebbe scardinato: personalmente mi piace pensare che siano semplicemente buone qualità di leadership. E quindi credo che dovremmo sostenerle come qualità di leadership indipendentemente dal genere. E ho sicuramente lavorato con leader di entrambi i sessi che sono considerati leader empatici».
Lei crede che non ci sia una differenza sostanziale tra il modo di affrontare una crisi da parte di un uomo e quello di una donna?
«Guardi, dopo la pandemia da Covid sono state fatte diverse analisi su questo tema e in tanti ritenevano che le decisioni prese dai paesi guidati da donne durante quel periodo fossero state diverse da quelle prese dai paesi guidati da uomini. Uno dei punti è come giudichiamo una leadership: siamo portati a guardare subito dove nasce il sostegno, chi forma la fan-base, da dove viene ideologicamente un leader, ma poco spesso ci fermiamo a considerarne valori, peso delle scelte e altro».
Però è innegabile, limitandoci a parlare della gestione del Covid, che i Paesi guidati da donne abbiano fatto meglio. Penso, oltre che a lei, alla taiwanese Tsai Ing Wen e alla norvegese Erna Solberg.
«Non ho mai esaminato la questione abbastanza da vicino da poter formulare ipotesi sul fatto che gli uomini o le donne siano più bravi nelle situazioni di crisi. Preferisco focalizzarmi su quello che ci si aspetta – al di là del genere – da un leader nel corso di una situazione difficile. Certo, va detto che ancora oggi la maggior parte dei Paesi è a guida maschile, quindi dovremo aspettare per poter fare un confronto. Ecco perché, piuttosto, sarebbe meglio impegnarsi perché tanti ostacoli che ancora oggi rallentano le donne in politica vengano rimossi».
Lei ha fortemente voluto sua figlia Neve e, come racconta nel memoir, assieme al suo allora compagno Clarke Gayford, avete deciso di intraprendere una terapia della fertilità. Oggi pensa che la maternità per molte donne sia ancora un dissuasore dell’ambizione?
«Le donne non dovrebbero essere costrette a scegliere – come purtroppo spesso accadeva alle nostre madri – tra l’essere brave nel proprio mestiere e l’essere buone madri, o figlie. Dovrebbero avere reti di supporto che le aiutino a essere tutte queste cose senza perdere del tutto sé stesse. Però durante il mio mandato io volevo scardinare l’idea che essere prima ministra e madre fosse un presupposto da Wonder Woman. Un Paese deve poter permettere di essere entrambe le cose, anche perché non si ha bisogno soltanto di madri, ma anche di figli, caregiver, persone single».
Di certo il suo attuale marito ha aiutato molto: nel libro lei racconta che nel periodo del suo mandato è stato lui a curare la casa e vostra figlia.
«Clarke ha rotto certi parametri mentali, sì, ed è quello che ci si aspetta da un Paese capace di cogliere tutte le sfumature sociali al suo interno».
Un’ultima domanda: non ha la sensazione che oggi la leadership politica abbia essenzialmente due strade? Una, fatta di complessità, che invita alla pazienza e all’ascolto e l’altra – purtroppo sempre più battuta – fatta di semplificazione, che incita invece all’insulto e all’aggressività?
«Sì, ma sostituirei la parola “semplificazione” con “pensiero binario”, un elemento che ho avuto modo di indagare all’indomani degli attentati terroristici alle moschee nel mio Paese. L’ho fatto assieme a Louise Richardson, grande esperta di terrorismo. Il pensiero binario è l’idea che “quello che sto cercando di fare è giusto”. Tutto il resto è malvagio e cattivo. Quando la penso così sono in grado di disumanizzare qualcuno: io sono buono, loro sono cattivi. Si perde il senso della propria umanità condivisa. E quindi penso che, per tutta una serie di ragioni, il pensiero binario sia incoraggiato dall’ambiente in cui viviamo, dal modo in cui consumiamo le notizie, dal modo in cui interagiamo e ci relazioniamo gli uni con gli altri. E la risposta è cercare di ricostruire il legame umano, di ricostruire quella comprensione comune e di vedere la complessità del mondo».