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da il manifesto

Altro sangue sulla terra di Palestina, che si chiami Israele o Cisgiordania o Gaza. L’ennesimo massacro di civili, questa volta cittadini israeliani che viaggiavano su un autobus a Gerusalemme, aggiunge altro dolore alla colata di morte e di sofferenza che scorre da quasi un secolo «dal fiume al mare», dal Giordano al Mediterraneo. Aggiunge poco o nulla invece a un’analisi minimamente lucida e onesta dell’abisso definitivo in cui lo Stato di Israele è precipitato da quando ha deciso – lo Stato, non solo il governo – di “ripulire” Gaza e annettere buona parte della Cisgiordania.

Un parallelo con la storia italiana può aiutare in questo sforzo di comprensione. In un articolo del novembre 1922, Piero Gobetti battezzava il fascismo appena giunto al potere con una formula che diventerà celebre: «autobiografia di una nazione». Giudizio opposto darà Benedetto Croce dopo la Liberazione, qualificando il ventennio come «eccezione», infelice e tragica ma un’eccezione, nella storia d’Italia.

La metafora gobettiana si adatta bene a definire l’estrema destra di Netanyahu, dei suoi ministri fascisti e razzisti: non un’eccezione, molto di più un’autobiografia del Paese-Israele.

Da quando comincia l’autobiografia? Lasciando pure da parte la storia complessa e per molti aspetti contraddittoria del primo sionismo, la cui ambizione di creare in Palestina un «focolare nazionale ebraico» recava certo un’impronta colonialista ma rispondeva anche all’urgenza di liberare gli ebrei europei da secoli di persecuzioni destinate poi a esplodere nella Shoah, si può farla cominciare con la guerra dei sei giorni del 1967.

Da allora Israele non è più una democrazia: è antidemocrazia governare, ormai succede da sessant’anni, su milioni di abitanti palestinesi nei territori occupati cui è negato il diritto di votare per i loro rappresentanti nel parlamento di Gerusalemme, ed è antidemocrazia praticare forme evidenti di apartheid, di discriminazione civile e sociale anche verso altri milioni di cittadini arabo-israeliani.

L’Israele di Netanyahu e del genocidio a Gaza è una catastrofe, lo è prima di tutto per il popolo palestinese, ma come l’Italia di Mussolini non è un’eccezione, un epifenomeno. Semmai Netanyahu è l’incarnazione massima di un Paese perduto, il cui «suicidio» – citando il titolo perfetto dell’ultimo libro di Anna Foa – ha radici antiche.

I segni di questo lungo cammino di imbarbarimento della “nazione” israeliana sono oggi evidentissimi. La guerra di annientamento del popolo gazawi è opera diretta di Netanyahu, ma sarebbe impossibile se i vertici militari, buona parte dei media (qui è da sottolineare una preziosa eccezione: il quotidiano Haaretz), lo stesso presidente della repubblica non vi collaborassero più o meno attivamente. Forse ancora più desolante è il tasso minimo di indignazione per i crimini sistematici commessi a Gaza nella società israeliana. Parole indignate e disperate sono venute da voci autorevoli della cultura israeliana e da piccoli gruppi militanti che da sempre si battono per i diritti dei palestinesi, ma risuonate assai poco nel corpo sociale di Israele, anche nella sua parte «progressista» e nelle stesse manifestazioni antigovernative di queste settimane: invocano le dimissioni di Netanyahu non per fermare il genocidio in atto, ma solo – non è poco, non può essere tutto – per la liberazione degli ostaggi ancora nelle mani di Hamas.

Più d’uno in questi mesi ha letto nella degenerazione ultranazionalista di Israele la traccia inequivocabile di una sorta di fallimento morale del progetto dello «Stato ebraico» legato a un suo peccato d’origine. Così Stefano Levi della Torre, che ha dedicato studi importanti alla storia dell’ebraismo. Per Levi della Torre, una frattura concettuale divide l’ebraismo della diaspora dall’identità di Israele.

L’ebraismo, ha scritto in un saggio pubblicato sulla rivista Studi bresciani (n. 1/205), «per più di duemila anni ha elaborato una visione del mondo dalla sponda dei vinti e della minoranza», mentre il sionismo e poi Israele hanno voluto trasformare l’ebreo-vittima in ebreo-vincitore: «Ma la vittima che vince, e tuttavia conserva il carisma della vittima, non è più solo vittima ma anche vittimista. E il passaggio dalla figura della vittima a quella del vittimista denota una transizione verso destra, perché la vittima aspira alla liberazione, elabora le prospettive di un’emancipazione propria e magari universale, il vittimista elabora invece la giustificazione di un proprio potere acquisito: a giustificare non la responsabilità del potere, ma l’arbitrio del proprio potere, come se il proprio arbitrio fosse la doverosa ricompensa di chi rappresenta le vittime. Tutte le demagogie autoritarie di massa sono vittimiste. Lo è stato il fascismo, il nazismo, lo stalinismo. Da ultimo lo è Trump che si presenta vendicatore dell’America offesa».

Illuminanti queste righe di Levi della Torre. Anche poco inclini alla speranza: sembrano dire (è una mia impressione, non posso né voglio attribuirla a chi le ha scritte), che Israele come «Stato ebraico» è definitivamente perduto, che il suo suicidio non è un pericolo incombente ma un fatto compiuto.