Audre Lorde, una parola poetica e politica che disinnesca il potere
Maria Bianco
29 Luglio 2025
Anticipazioni dall’intervento per la manifestazione “Profana. Festa d’arte, spiritualità e pensiero” (Monastero di Fonte Avellana, da giovedì 31 luglio a domenica 3 agosto 2025).
C’è un sapere che nasce dalla carne. Un pensiero che non si formula nei salotti dell’astrazione, ma prende voce nella pelle, nei muscoli, nel tremore, nel piacere e nella fatica. È il pensiero delle femministe, che parte da sé. Ma è anche il pensiero di chi – donne, soggettività queer, e uomini disposti a disarmarsi – riconosce che non si può parlare del mondo senza partire dalla propria esperienza situata, non come una forma di narcisismo ma come atto politico.
Nella genealogia della parola incarnata, Audre Lorde è una delle voci più radicali e luminose. Nera, lesbica, madre, poeta, militante, Lorde ha fatto della scrittura un atto di sopravvivenza e della poesia uno strumento di disarmo. Il suo corpo è stata la sua prima lingua, la sua prima verità. Non c’è idea, in lei, che non sia passata per l’intensità dell’esperienza. «Il corpo è la mia poesia», scrive, e in questa affermazione vibra una intera teoria del sapere come pratica erotica, sovversiva, profanante.
Audre Lorde ha abitato i margini, non per scelta, facendone un’arte. Come lei, ogni donna, a suo modo, ha fatto esperienza del margine – un margine spesso sinonimo di estromissione, ma anche, nei momenti di grazia politica, di uscio, apertura, soglia. Lorde ci insegna che il margine non è solo esclusione: è anche un luogo epistemologico, un punto di vista radicale a partire da cui rovesciare il mondo.
Una ferita che si trasforma in feritoia. Non c’è scissione tra teoria e biografia, tra conoscenza ed esperienza, tra discorso e pelle. Il pensiero non può trascendere il corpo, è destinato ad attraversarlo.
Nel pensiero femminista, dal margine come soglia corporea si genera un sapere che si fa critica e radicale possibilità. Non si tratta di romanticizzare l’esclusione, ma di riconoscere che da quel bordo si può vedere il centro per ciò che è: costruzione storica, arbitraria, sacralizzata. Da questa posizione liminale, Lorde e altre e altri iniziano a disattivare i meccanismi che mantengono il centro intatto. È qui, in una posizione precaria ma generativa, che nasce un gesto dirompente: profanare.
Nel lessico di Giorgio Agamben, profanare è l’atto di restituire all’uso ciò che è stato sottratto alla vita mediante la sacralizzazione. Se il sacro separa, la profanazione riconnette. Non è distruzione né oltraggio: è gioco, riappropriazione, reinvenzione del possibile. Profanare significa disattivare i dispositivi resi sacri nel tempo: le parole rese intoccabili, i tabù che ci avvolgono, i codici religiosi e culturali inviolabili. Il potere funziona così: sottrae al comune per dominare.
Il primo luogo che il pensiero incarnato delle donne profana è il proprio corpo storicamente sacralizzato dal patriarcato. Separato, regolato, coperto, controllato. È diventato tabù, simbolo, campo di proiezione delle leggi maschili.
Per millenni i corpi delle donne sono stati smembrati, i linguaggi femminili sanzionati come isteria, il desiderio femminile convertito in colpa o in silenzio. Ma tutto ciò che è stato sottratto può rifiorire grazie a forme di resistenza quotidiane e simboliche, grazie allo strumento della profanazione, un’arte politica del disinnesco.
Il corpo parla – anche quando viene zittito. Lorde lo dice con chiarezza: «Nel nome del silenzio, ciascuna di noi disegna la faccia delle proprie paure… Ma più di ogni altra cosa, abbiamo paura proprio di quella visibilità senza la quale non possiamo veramente vivere». Parlare diventa allora un atto liturgico, una forma di visibilità radicale che rompe il sacro del dominio.
Scrivere sul corpo, non cercando il centro, ma disattivandolo, contaminandolo, restituendolo all’uso. Le parole si piegano, si aprono, si fanno porose. La lingua delle donne è una lingua di soglia, che non aderisce al dettato del potere ma si radica nella materia viva del corpo, al contatto, al piacere, alla rabbia, alla comunità.
Audre Lorde ci consegna una litania per chi non era destinata a sopravvivere. Una litania per dire l’inesprimibile, per attraversare il linguaggio istituzionale con parole incarnate. Il suo diviene un rito sovversivo e profanatorio: parlare, per chi è stata espropriata della voce, non più una supplica alla divinità del potere, ma un’invocazione tra corpi che si ascoltano, che resistono, che si parlano da margine a margine.
Le donne – e chiunque si metta in questa traiettoria – non profanano per disonorare. Profanano per restituire. Per riportare alla terra ciò che era stato isolato. Per rimettere in circolo ciò che era stato congelato dal dominio. E questa è la nostra arte: «una forma di sopravvivenza e cambiamento».
È la via attraverso cui dar nome a ciò che non aveva nome, a ciò che era già sentito ma non ancora detto. Per rompere il silenzio e restare vive. Nonostante tutto. Perché, come scrive Lorde, «non era previsto che noi sopravvivessimo». E invece siamo ancora qui. A parlare. A profanare. A vivere.