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da il manifesto

Fare fuoco Tra le montagne del Kurdistan iracheno la cerimonia che cambia la storia del conflitto turco-curdo

SULEIMANIYA. Non le hanno consegnate, non le hanno seppellite. Le armi le hanno bruciate, una ventina di kalashnikov, qualche fucile automatico e i caricatori appesi alla cintura.

È sempre il fuoco l’emblema della rinascita: come due millenni fa Kawa, fabbro tirannicida che liberò i Medi dal re assiro Dehak, risvegliò la primavera in Mesopotamia; e come ogni anno da allora, per l’equinozio di primavera, le fiamme del Newroz incitano alla resistenza contro l’oppressione e celebrano l’arrivo del nuovo anno.

Le 11 del mattino sono passate da poco quando da una feritoia nella montagna appaiono i combattenti del Partito dei Lavoratori del Kurdistan, quindici donne e quindici uomini, guidati da Bese Hozat, co-presidente del Kck, l’Unione delle Comunità del Kurdistan. Apre la fila la combattente che ha costruito l’auto-organizzazione politica e militare delle donne nel partito. Trent’anni di vita dentro il Pkk e da dodici ai suoi vertici insieme allo storico leader Cemil Bayik, sarà proprio Bese Hozat a leggere il comunicato in curdo (Nedim Seven, accanto a lei, lo ripeterà in turco) che annuncia il disarmo, a una manciata di passi dagli agenti del Mit, i servizi turchi, e ai delegati del ministero della difesa di Ankara. È lì, forse, che si coglie quanto incredibile sia quel momento, l’attimo in cui il Pkk distrugge le proprie armi di fronte allo Stato che più di altri ha soffocato il sogno curdo all’autodeterminazione, lo Stato dentro i cui confini il Pkk è nato e si è trasformato, da partito politico a movimento armato.

Ed eccolo, cinque decenni dopo, di fronte all’ennesima trasformazione. Succede un venerdì mattina di luglio, nelle grotte di Jasana, a 50 chilometri da Suleimaniya nel Kurdistan in Iraq. Le montagne di Qandil, quartier generale politico e militare del Pkk, sono a un centinaio di chilometri. Un palco con quattro sedie, due gazebo per proteggere dal sole, un altro che fa da zona ristoro, chai, dolcetti e acqua fresca: ci sono da accogliere 500 persone, i “testimoni” del disarmo.

Ci sonoTulay Hatimogullari e Tuncer Bakirhan, i co-leader del partito curdo-turco di sinistra Dem, negoziatore tra Stato e Pkk; ci sono i rappresentanti del Governo regionale del Kurdistan e del clan che lo monopolizza, i Barzani; c’è il Puk, il partito del clan rivale, i Talabani, quello che comanda qui a Suleimaniya e lo si capisce dai loghi sulle uniformi dei peshmerga che monitorano l’intero percorso dalla valle alla montagna.

Ci sono le madri dei combattenti uccisi o scomparsi e c’è Leyla Zana, dieci anni di galera e il coraggio di aver parlato in curdo dentro il parlamento di Turchia nel 1991, non era mai successo prima. Ci sono le donne ezide di Shengal, sindacati, associazioni per i diritti umani, movimenti femministi, politici europei.

Sono tutti sedutiquando i combattenti scendono le scale di pietra che seguono la forma spigolosa della montagna. Pochi minuti prima una voce al microfono aveva intimato: no slogan allowed, gli slogan non sono permessi. Non obbedisce nessuno: all’apparire delle uniformi, le persone si tirano su in piedi, battono le mani, gridano «Biji Serok Apo», lunga vita al leader Apo. Lui c’è, in un fermo immagine catturato dal video pubblicato pochi giorni fa e proiettato su un pannello nero.

Bese Hozat legge il comunicato firmato “Gruppo per la pace e la società democratica”, e qualcuno ironizza: «Forse è il nuovo nome del Pkk». Lei ha la voce ferma, rimbomba tra i pinnacoli di pietra: «Noi combattenti per la libertà, donne e uomini, ci siamo uniti al Pkk in tempi diversi e da regioni diverse. Oggi qui rispondiamo all’appello del leader del popolo curdo, Abdullah Ocalan. (…) Distruggiamo volontariamente le nostre armi, davanti a voi, come gesto di buona volontà e determinazione».

«Vista la crescente pressione fascista, lo sfruttamento in tutto il globo e il bagno di sangue in corso in Medio Oriente – continua – i nostri popoli hanno più che mai bisogno di una vita pacifica, libera, uguale e democratica. In questo contesto comprendiamo a pieno la grandezza, la correttezza e l’urgenza del passo che stiamo prendendo».

Una a uno, si avvicinano a una vasca di metallo e ci poggiano dentro i kalashnikov. Un funzionario del Puk getta una torcia, le fiamme si fanno strada in mezzo a un denso fumo nero. I presenti applaudono, le madri in prima fila piangono. Piange anche Leyla Zana, qualcuno la abbraccia. Lacrime di dolore, di timore, di sollievo. In quei gesti si specchiano quattro decenni di lotta armata, di sangue e resistenza, di figli e figlie mai più rivisti. Sono i figli e le figlie delle famiglie che si affollano in fondo alla valle, non hanno potuto partecipare alla cerimonia ma stanno là, trepidanti.

Quel rogo parlaalle vite individuali e collettive di milioni di persone. Anche per questo, per dare forza alla cerimonia, era intervenuto il video-messaggio di Ocalan, il 9 luglio, a ribadire che l’unica via possibile è l’abbandono della lotta armata e lo scioglimento del Pkk. Per la prima volta dal 1999 è stata la voce del fondatore a consegnare l’appello al suo popolo. Nella Siria del nord-est, dove la rivoluzione è un divenire quotidiano, è esplosa la festa. In poche ore, dicono, nei negozi di abbigliamento le magliette beige con il logo Lacoste sono andate esaurite. È lo stesso modello indossato da Ocalan in video.

C’è anche però chi osserva la nuova fase con timore: è il Bakur, il Kurdistan in Turchia. «Le persone si fidano di Ocalan, ma non del governo turco. E c’è chi non sarà così felice di assistere alla distruzione delle armi, seppur siano poche. Un atto di buona volontà dettato anche dalle circostanze: non è più tempo per la guerriglia, in un mondo in cui le guerre si combattono in aria, con i droni», ci diceva un’alta funzionaria del partito alla vigilia.

Il futurodel processo di pace sta nei due elementi evocati dalla funzionaria: le misure concrete che prenderà (o non prenderà) Ankara e il modo in cui il disarmo verrà narrato. Il presidente Erdogan vuole la sua photo-opportunity: i kalashnikov che bruciano, nell’interpretazione da vendere alla sua gente, sono la vittoria del nazionalismo turco sul terrorismo separatista, con il Pkk che sventola bandiera bianca di fronte a un avversario tenace e invincibile. Per saperlo basta attendere oggi, quando Erdogan terrà un discorso in merito.

Il Pkk, ci dice un quadro del partito dopo la cerimonia, si aspetta l’annuncio di qualche misura reale, tanto più dopo le parole a caldo di Devlet Bahceli, il leader ultranazionalista dell’Mhp che nell’ottobre scorso ha dato il via al processo di pace invitando Ocalan in parlamento: «La leadership fondatrice del Pkk ha mantenuto la sua promessa e onorato il suo impegno». La posturaassunta da una delle forze più ferocemente anti-curde, ci spiega il quadro, sono frutto di una consapevolezza nuova, emersa dopo il 7 ottobre 2023: «Israele minaccia i tentativi egemonici regionali di Ankara che teme che la carta curda possa essere usata da altri. A ciò va aggiunta la dimensione interna: anni di repressione e lo Stato non riesce a sconfiggerci. A Ocalan si è presentata un’opportunità, dopotutto l’aveva prevista: i turchi verranno da noi, diceva. E sono venuti». Il punto non è il disarmo, tanto più in una regione in cui procurarsi armi non è impresa complessa, ma è il processo politico che ne scaturirà e che dovrà necessariamente passare per la costituzione della commissione parlamentare turca incaricata di risolvere la questione dei prigionieri politici e soprattutto quella delle riforme democratiche.

«Sul fronte dei prigionieri – continua la funzionaria – ci sono stati alcuni rilasci, ma si tratta di casi singoli e sporadici, non di una soluzione radicale. La risposta ufficiosa che abbiamo ricevuto da Ankara è che si dovrebbe cambiare la legge anti-terrorismo, lasciando scoperto lo Stato su un fianco, quello dell’altro grande nemico, il gulenismo». Non è un nostro problema, hanno risposto i curdi, la soluzione c’è ed è un’amnistia mirata.

Per il movimento curdo l’alternativa esiste. Lo ha detto ieri con le fiamme della sua ultima rinascita, un fuoco che non muore mai.