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da il manifesto

Il dibattito in corso sul “fine vita”, e sul suicidio assistito in particolare, sembra attraversato da un grande equivoco, come se il punto fosse quello di dirimere il contrasto fra due diritti incompatibili fra loro: il diritto alla vita, da una parte, il diritto alla morte dall’altra. Come se questo, semplicemente, dovesse fare una legge sul suicidio assistito: stabilire se a dover prevalere sia, in assoluto, l’uno o l’altro di tali diritti. Come se fossero queste, semplicemente, le domande da rivolgere alla legge, da una parte o dall’altra: esiste, e va tutelato, un diritto a morire? Oppure: esiste, e va tutelato, un diritto alla vita? E come se, infine, fossero semplicemente queste le domande alle quali ha risposto la Corte costituzionale nelle due sentenze del 2019 e del 2024, cui ora la legge dovrebbe dare seguito.

In realtà le questioni in gioco, e le domande, sono altre, molto più articolate: in gioco non è la libertà di vivere o morire, e tantomeno una libertà assoluta, senza limiti; né il punto è quello di decidere una volta per tutte, attraverso una legge, se la vita debba avere la meglio sulla morte o la morte sulla vita. In gioco, piuttosto, è il mistero tanto della vita quanto della morte, e la sua insondabilità. Solo la morte, ha scritto Tolstoj, ci rivela finalmente a noi stessi, ed è appunto questo il senso della frase: che ognuno di noi è un mistero per sé stesso, ancora prima che per gli altri. Quello che può fare la legge, allora, è riconoscere questo diritto al mistero e proteggerne l’insondabilità, piuttosto che pretendere di scardinarlo autoritativamente. Qui, proprio qui, risiede l’importanza delle due sentenze della Corte costituzionale: nell’aver fissato dei princìpi rispettosi del mistero, e dunque tanto di un diritto alla vita quanto di un diritto alla morte, della sacralità di entrambi. Senza assolutismi, senza dogmatismi; in ultima analisi, senza soprusi nei confronti del diritto di ciascuno di coltivare dentro di sé l’idea della vita e della morte che meglio corrisponda alla propria sensibilità, o alla propria visione del mondo.

Cos’ha stabilito la Corte, in quelle due sentenze? Lo sappiamo: ha stabilito che il suicidio assistito, pur vietato nel nostro ordinamento, può tuttavia essere ammesso a quattro condizioni. Vale a dire: a condizione che la persona che chiede di essere aiutata a morire sia «affetta da una patologia irreversibile» (prima condizione) che sia «fonte di sofferenze fisiche e psicologiche che trova assolutamente intollerabili» (seconda condizione) e sia «tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale» (terza condizione), salvo dover essere «capace di prendere decisioni libere e consapevoli» (quarta condizione). E tutto si può dire, come si vede, meno che, in questo modo, la Corte abbia voluto pronunciare parole definitive. È vero il contrario: e proprio per questo, infatti, ci si può spingere a dire che le due sentenze, oltre che così importanti, sono anche bellissime. Dove la loro bellezza consiste nell’aver inscritto la fragilità della vita dentro una norma, riconoscendone la dignità d’essere anche nel momento più estremo. Naturalmente a non essere mai bello è il dolore; ma la bellezza può consistere nel riuscire ad accoglierlo, a comprenderlo, a compatirlo. A farlo anche proprio.

Ecco, questo dovrebbe fare ora la legge (come la legge dovrebbe fare sempre, del resto): essere capace, umanamente, della medesima compassione. Saper includere il limite, e saper dichiarare, di là da quel limite, anche una resa. «C’è un limite a quello che ciascuno di noi considera sopportabile e c’è una capacità di adattamento che consente talvolta di spostarlo oltre», ha osservato Giada Lonati, medica palliativista, in un libro pieno di sensibilità e delicatezza dedicato alle storie di alcune delle persone che la stessa Lonati ha accompagnato nei tratti finali delle loro vite (“L’ultima cosa bella”): «Poi per qualcuno di noi c’è una soglia superata la quale non ha più senso tollerare alcuna sofferenza. È come se il peso sulla bilancia si spostasse: fin qui era ancora accettabile, da qui in avanti non lo è più. E il confine lo stabilisce ogni essere umano per sé».