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da Avvenire

La filosofa femminista parla delle ipocrisie del marketing che si appella alla libertà e alla generosità delle donatrici, ma persegue solo logiche di profitto

Adriana Cavarero è una delle voci più autorevoli della filosofia italiana contemporanea e, in particolare, una delle più stimate rappresentanti del cosiddetto “femminismo della differenza”. La sua ricerca – inaugurata dal libro Nonostante Platone. Figure femminili nella filosofia antica, uscito nel 1990 e subito tradotto in molte lingue – si è concentrata su due aspetti che toccano la questione della “maternità surrogata”: da un lato, la differenza sessuale di corpi concreti, maschili e femminili, di esseri viventi che si riproducono e nascono, ciascuno nella propria singolare unicità; dall’altro, la storia del patriarcato “spazzolata contropelo” – per usare una celebre espressione di Walter Benjamin –, alla luce della prospettiva femminista e una riflessione originale sui temi della nascita e della maternità. Il pensiero sul materno trova il suo esito più compiuto in uno dei suoi ultimi libri: Donne che allattano cuccioli di lupo. Icone dell’ipermaterno (Castelvecchi 2023).

In alcune pagine di Inclinazioni. Critica della rettitudine il corpo inclinato della madre si offre come paradigma alternativo alla geometria maschile verticale promossa dal patriarcato. Cosa significa nascere? Cos’è per te la maternità?

«Nascere significa venire al mondo come singolarità incarnata, generata da un’altra singolarità incarnata, la madre. Per ciascuno e ciascuna di noi, una madre sta all’origine, all’inizio. Come filosofa sono ovviamente molto interessata al tema dell’origine. Non però secondo i canoni della tradizione che si chiede astrattamente “perché l’essere e non piuttosto il nulla”, bensì secondo un modo di interrogare che guarda al fatto concreto del nostro essere originati, generati da donna, questa donna, sempre singolare. Dal punto di vista della nascita, viene perciò in primo piano la maternità come esperienza del generare. Ho sviluppato questo tema in Donne che allattano cuccioli di lupo. In Inclinazioni invece rifletto sulle rappresentazioni, anche pittoriche, della maternità, ossia sull’iconografia tradizionale della figura materna. Si tratta, spesso, di figurazioni stereotipiche che ritraggono la madre oblativa, piegata, inclinata sul suo bambino. Il che è ovviamente funzionale all’ordine simbolico patriarcale che loda l’inclinazione materna per confinare le donne nell’ambito domestico dove realizzerebbero la loro vera natura. Il mio scopo, oltre a prendermi gioco degli stereotipi, è delineare un’etica relazionale, basata sul primato dell’altro – come direbbe Lévinas – e sui rapporti sbilanciati che, nella condizione umana concreta, annodano le singolarità l’una all’altra».

Sollevi diverse critiche alla surrogazione. Che conseguenze ha tutto ciò sul concetto di maternità?

«La maternità, sia come esperienza sia nella sua essenza concettuale, subisce un oltraggio ontologico, ossia portato alla condizione umana stessa. La capacità generativa diventa oggetto di sfruttamento ai fini del profitto del mercato biocapitalista. Non si può chiedere al mercato di vergognarsi per questo oltraggio, per il mercato le persone sono cose: in questo caso, non tanto merci, quanto materia prima con qualità organiche funzionali al prodotto finale. Mi stupisco, però, che non provino vergogna coloro che commissionano il bambino, i clienti del business. Io, come essere umano colpito nella sua dignità ontologica, provo invece vergogna per loro. Mi colpisce soprattutto l’ipocrisia della narrazione di marketing con cui il fenomeno viene giustificato e lodato. Si dice che la madre surrogata è contenta di affittare l’utero per fare felici delle coppie sterili, perché vuol fare del bene. Oppure, appellandosi al paradigma neoliberista, si dice che affittare o meno il proprio utero dipende da una scelta libera, anzi, è una prova che le donne godono finalmente di libertà sulla propria vita e sul proprio corpo. Tutto questo è, per me, ipocrita e nauseante. Ho fatto fatica a scriverne e faccio fatica a parlarne».

Se davvero non esistesse il business, ma solo il desiderio di aiutare un’altra donna, saresti favorevole alla “maternità solidale”, al “prestito” dell’utero?

«Trovo inutile ragionare come se non ci fossero le condizioni che invece ci sono. Detto questo, viene chiamata “maternità solidale” quella di una madre surrogata che non riceve un compenso e perciò presta la sua opera gratuitamente. In verità, si tratta di nuovo di una narrazione di marketing perché la voce “compenso” viene sostituita da “rimborso spese” e la cifra, più o meno, corrisponde al compenso. Sono tutti sotterfugi per far apparire la gestazione per altri come qualcosa di bello e generoso, eticamente non solo lecito ma addirittura edificante. Il fenomeno di una madre che dà via a un’altra donna il suo bambino è, d’altra parte, noto benché raro. Nelle grandi cascine famigliari di campagna, da cui provengo, poteva succedere che una donna con molti figli decidesse di dare l’ultimo nato a una sorella sterile perché lo allevasse lei. Tutti lo sapevano, era una realtà condivisa e accettata come giusta e normale. Pare che anche nelle famiglie aristocratiche si sia a volte fatto così: se non nasceva un erede legittimo, si faceva passare per figlio un “bastardo”. Insomma può succedere ed è successo che, qualche volta, una donna “doni” o “passi” il figlio a un’altra. Ma in questo caso non ci sono agenzie specializzate che disciplinano tutta la faccenda. Come sai, nel mercato riproduttivo biocapitalistico, l’utero diventa, per contratto, proprietà dell’agenzia, la quale controlla, durante la gravidanza, se il prodotto è buono o, in caso contrario, se va abortito in quanto insoddisfacente rispetto alle aspettative dei committenti».

La maggior parte delle madri surrogate proviene da mondi poveri. Si corre anche il pericolo di favorire l’eugenetica? Quasi sempre gli ovuli selezionati appartengono a donne bianche, caucasiche, dotate di precise caratteristiche estetiche.

«C’è razzismo e classismo in questo mercato. Poiché le spese sono tante e il prodotto finale risulta molto caro, gli acquirenti sono per lo più coppie bianche ricche che commissionano un figlio che abbia caratteristiche somatiche simili a loro. Di qui l’importanza della donna che fornisce l’ovulo, al quale trasmette il suo patrimonio genetico: una donna bianca, possibilmente sana e bella, magari con gli occhi azzurri. In Europa sono predilette le giovani dei paesi dell’est, soprattutto le ucraine. La madre surrogata, detta “portatrice gestazionale” dal linguaggio delle agenzie, invece, può essere di qualsiasi colore perché non trasmette al bambino il suo patrimonio genetico. Viene perciò arruolata tendenzialmente fra le donne in difficoltà economica dei paesi poveri, che hanno bisogno di soldi e che con il compenso possono migliorare le condizioni di un’intera famiglia, comprese quelle dei figli che hanno già. Ovviamente, il fatto di far crescere nel proprio utero un embrione che ha un diverso patrimonio genetico provoca un rigetto, così come avviene per qualsiasi trapianto dell’organo di un estraneo. Tale processo deve perciò essere monitorato attraverso una pesante medicalizzazione della gestante. È bene aggiungere che le donatrici di ovulo sono talvolta giovani studentesse dei paesi ricchi che così si fanno un gruzzoletto da spendere per i loro capricci».

Molte teoriche del transfemminismo oggi giubilano addirittura al pensiero di un utero artificiale. Hanno smarrito il senso profondo della lotta femminista?

«“Il corpo è mio e me lo gestisco io” era uno slogan contro le interferenze delle istituzioni che pretendevano di gestire e regolamentare il corpo delle donne. Ora, affittare il proprio utero significa precisamente consegnare il proprio corpo a un’istituzione esterna, ossia alle agenzie del mercato procreativo. Siamo dunque di fronte a uno scenario esattamente all’opposto. Quanto all’utero artificiale, è un vecchio sogno maschile che troviamo già nel mito greco. Alcune femministe sono arrivate a sognare lo stesso sogno per liberare le donne da una funzione procreativa che le ingabbierebbe nel biologico. Io tuttavia non considero affatto il biologico come una gabbia, anzi, rivaluto l’esperienza della maternità come contatto diretto, complicità, con la natura in quanto processo rigenerativo delle molteplici forme di vita».

(Avvenire, 22 giugno 2025)